L'intervista: L'avvocato anima del sindacato - Chiacchierata con Federico Scaglia, segretario ACCPI
Da qualche tempo l'ACCPI, l'Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani, pare vivere di nuova linfa, dopo anni in cui il sindacato del nostro movimento ha latitato parecchio. Tra i vari fattori di questa sorta di rinascita, abbiamo individuato la presenza, nel ruolo di Segretario dell'Associazione, di Federico Scaglia, 43enne avvocato milanese che ha dato senza dubbio un nuovo impulso all'attività dell'ACCPI. E per conoscerlo meglio l'abbiamo intervistato, spaziando in lungo e in largo su quello che il ciclismo è oggi, in Italia e non solo, e su quanto i diritti dei corridori possono essere tutelati nel 2012.
Avvocato Scaglia, qual è lo stato dell'arte per quanto riguarda l'ACCPI? Sembra esserci un risveglio, dopo anni di torpore.
«Il risveglio c'è, in effetti, ma non certo per merito mio. Piuttosto, di un Consiglio Direttivo che è molto attivo, e che segue meglio le vicende del ciclismo rispetto a quanto avveniva qualche anno fa. Ci sono persone che si stanno impegnando a fondo, cito tra gli altri Beppe Guerini, Cristian Salvato, ma anche Gianni Bugno, che pur essendo presidente del CPA (il sindacato internazionale) è rimasto un nostro consigliere. Ma anche i corridori in attività si dimostrano molto attenti alle nostre istanze, mi viene in mente un Alessandro Bertolini. Non tantissime persone, in definitiva, ma che investono molto tempo. Io mi limito a dare qualche idea...».
Come vivono, i corridori, il rapporto con l'Associazione che li rappresenta?
«Sento un clima di rinnovata fiducia intorno all'ACCPI, i ciclisti si rivolgono a noi quando hanno qualche problema, assecondando quella che peraltro è la nostra funzione; era dai tempi di Bettini o Cipollini che non c'era una partecipazione come quella che percepisco oggi, corridori sentono maggiormente propria l'Associazione, del resto non perdo occasione per ricordare loro che questo sindacato è nato nel 1946, quando fu la prima associazione di atleti professionisti ad essere creata: c'è dietro una storia che va onorata, quindi».
Che tempi sono per i diritti dei corridori?
«Durissimi, viviamo anni di magra e il ciclismo non fa eccezione rispetto al resto delle attività. Diciamo che dobbiamo stare più in allerta del solito; il nostro sport poi sconta un suo atavico bipolarismo: a livello gestionale è uno sport di squadra, a livello agonistico è uno sport individuale, e ha assunto i difetti di entrambe le sue dimensioni. Per cui è molto difficile individuare una linea di condotta da parte di un sindacato, le variabili sono tantissime e bisogna tener conto di tutto».
Quali sono le questioni all'ordine del giorno?
«Ce ne sono tante, la prima che mi viene in mente riguarda i premi: è un fattore da sempre fondamentale nel ciclismo, a cui anche le squadre guardano con attenzione, eppure siamo fermi ai valori di diversi anni fa, non c'è una rivalutazione che tenga conto dell'inflazione; lo stesso dicasi per i minimi salariali: siamo fermi a 4-5 anni fa, stiamo cercando (anche grazie all'opera di Bugno e del CPA) di porre questa questione all'attenzione dell'UCI, ma quello che ci sentiamo rispondere è "è già tanto quello che avete". A ciò si aggiungono situazioni rese d'attualità dall'internazionalizzazione del ciclismo: per fare un esempio, nei paesi anglosassoni il corridore è considerato un lavoratore autonomo, in Italia, Francia, Belgio, Spagna è invece un lavoratore dipendente. Ciò crea notevoli distorsioni che dovremo affrontare seriamente».
Del tipo?
«Ci sono squadre che emigrano, si affiliano all'estero per risparmiare sui contributi previdenziali: chiaramente se un lavoratore è autonomo, i contributi se li versa autonomamente, appunto, e in quei casi tale spesa ricade sugli atleti, al contrario di quanto avviene da noi».
Al punto che in alcuni casi possiamo parlare di concorrenza sleale tra squadre?
«Non direi così, la definirei piuttosto diversità di condizioni di partenza; per dirne un'altra, le squadre in Italia sono tenute ad onorare dei fondi di accantonamento, una sorta di TFR (trattamento di fine rapporto) per i corridori, nella misura del 6,25% dello stipendio, in base a quanto stabilito dalla legge 91 che regola il professionismo sportivo. Chi è affiliato all'estero, gode quindi già di un risparmio base del 6,25%».
Come ovviare ad una simile situazione di disparità?
«Dovrebbe esserci una spinta da parte della Federciclismo affinché l'UCI estenda questi regolamenti anche alle federazioni di altri paesi. In fondo l'Italia è sempre stata all'avanguardia e tuttora lo è (vedasi il regolamento per i procuratori, recepito dall'UCI dopo essere stato attivato nel nostro paese), e quindi penso che questo ruolo di guida e di indirizzo lo si possa ancora far valere».
E la FCI si dimostra all'altezza di cotante aspettative?
«Devo dire di sì, la Federciclismo è molto ricettiva e disponibile relativamente alle nostre istanze; del resto è anche un suo interesse che si uniformino i regolamenti, in modo da favorire un maggior numero di affiliazioni in Italia. Il problema non è qui, il problema è convincere l'UCI».
Un problema abbastanza difficile da sormontare, a quanto pare.
«Non sempre c'è un allineamento tra norme nazionali e norme UCI, il ciclista è poi un atleta molto mobile, non si ha un campionato nazionale come negli sport di squadra, oggi si gareggia in Italia, domani in Brasile, dopodomani in Polonia... e si corre tra squadre regolate da norme di un certo tipo, e squadre che rispondono invece a leggi del tutto diverse. Armonizzare è molto difficile, ma anche nell'ottica di una riforma della legge 91 (voluta dal CONI), il nostro impegno va comunque nella direzione di un uniformità dei regolamenti nei vari paesi».
Un impegno reso ancor più complicato dal fatto che l'UCI ha le mani un po' troppo in pasta in tanti ambiti diversi.
«L'Unione Ciclistica Internazionale era nata come associazione delle varie federazioni nazionali, ora s'è trasformata in un ente autoreferenziale che gestisce (o vuol gestire) ogni cosa. E non dico che ciò sia sbagliato in assoluto, dico semplicemente che l'UCI è andata ben oltre quello per cui era nata, attraverso un'evoluzione tutt'altro che democratica. Sarebbe già un bel passo avanti se ci fosse una reale consultazione con le varie parti del ciclismo, prima che vengano prese decisioni che riguardano poi tutto il movimento».
Venendo al nostro orticello, come si pongono i ciclisti italiani di fronte alla crisi che tutto attanaglia, e di conseguenza colpisce anche il ciclismo?
«Con grande consapevolezza e disponibilità, forse anche troppa. Vedo in loro una notevole umiltà, una sorprendente capacità di andare incontro alle necessità dei loro interlocutori. I ciclisti sono persone dedite al sacrificio, e oggi più di 30 anni fa, secondo me, visto che trovare nel 2012 ragazzi che dimostrano tanta dedizione al punto da rinunciare a tutto o quasi pur di andare in bicicletta, non è facile. Tanto di cappello a loro. Il problema è che poi magari qualcuno s'approfitta di tanta disponibilità; ma torniamo al discorso di partenza: a un certo punto prevale l'individualismo, oltre a quell'insopprimibile voglia di andare in bici che pervade tutti questi ragazzi. L'importante per loro è pedalare, a qualsiasi costo: basti pensare che parliamo degli unici sportivi che contribuiscono direttamente alle spese dell'antidoping».
Si è parlato tanto, la scorsa settimana, della distribuzione delle wild card per il Giro d'Italia. È questo un ambito in cui l'ACCPI può svolgere un ruolo?
«Già abbiamo fatto qualcosa, contribuendo all'accordo tra RCS Sport e Federazione per garantire un invito al Giro per la squadra vincitrice della Coppa Italia, un modo per valorizzare il movimento italiano. Certo, sarebbero indispensabili regole più chiare relativamente al diritto di partecipazione alle gare, ma bisogna riconoscere che l'avvento del Pro Tour ha limitato l'arbitrio da parte degli organizzatori. Il prossimo passo dovrebbe essere, da parte nostra, riuscire a far sì che le squadre avessero la facoltà di rinunciare a corse nei cui confronti non nutrono grande interesse, ma dovrebbero essere i gruppi sportivi, attraverso un loro sindacato, a spingere di più in tal senso. Col nostro appoggio, con quello dell'associazione dei direttori sportivi: dovremmo trovare compattezza per combattere battaglie comuni».
Ecco, l'armonizzazione con gli altri sindacati di categoria, o con le associazioni degli altri paesi: un'utopia?
«Spesso alcune battaglie si sono perse proprio per l'assenza di unità, perché le singole categorie perseguivano interessi apparentemente confliggenti. Le regole di partecipazione alle corse possono proprio essere un campo in cui cercare e trovare quest'unità d'intenti».
È così difficile far capire ai corridori che il ciclista del World Tour ha gli stessi diritti e obblighi nei confronti della categoria, rispetto al ciclista delle Continental?
«La scelta politica fatta dall'ACCPI è stata chiara: tutelare tutti, non solo i professionisti fatti e finiti, ma anche quelli che corrono le stesse corse dei prof, pur con diritti decurtati. In questo siamo allineati con la FCI, che ha stabilito per le Continental delle norme stringenti che prevedono che, senza ottemperare a determinati obblighi, non si possa avere l'affiliazione in Italia. Ma si può definire professionista un team in cui il corridore paga per correre?».
Beh, non è che anche fuori da un certo ambiente Continental non vi siano corridori che pagano per correre. Magari non in contanti, ma portando alla squadra uno sponsor da 50mila euro...
«Purtroppo su questo fronte, più che tenere le orecchie aperte, non è che possiamo fare tantissimo. Intanto è già importante vedere se una retribuzione c'è, e sul tema abbiamo sensibilizzato molto gli atleti, tant'è vero che ci dicono se vengono pagati o meno. Sia chiaro, non vogliamo fare una guerra alle squadre, diciamo che però se una società non paga gli stipendi, forse è meglio che chiuda».
Perché i ciclisti non scioperano mai? È così difficile orchestrare delle proteste organiche, che vadano al di là dei 10' di ritardo di una partenza?
«Come dicevo prima, partiamo dal presupposto che non c'è una vera coscienza sindacale. Oggi più di ieri c'è grande individualismo, tant'è vero che, nella riunione che abbiamo fatto a novembre coi neoprofessionisti, il ct della Nazionale Paolo Bettini ha consigliato ai ragazzi proprio di conoscersi, di parlare tra di loro, di sentirsi al di là di Facebook. Va detto che rispetto al passato, oggi si corre in maniera molto più dispersiva, si è sempre in giro e non è facile cementare determinati rapporti. Aggiungiamoci poi che i soggetti nel ciclismo sono molteplici, e non è facile mettere d'accordo tante categorie: i corridori, le squadre, gli sponsor, gli organizzatori, l'UCI... ad ogni mossa si rischia di danneggiare qualcuno che non si vorrebbe danneggiare. In ogni caso, anche in passato non è che ci siano stati tanti scioperi nel ciclismo, quasi sempre prevale il concetto che l'atleta in questo sport è un singolo».
Qual è stata l'ultima battaglia sindacale che l'ACCPI può dire di aver vinto?
«Non parlerei di vittorie, parlerei piuttosto di un'attività per noi fondamentale, ovvero proprio quella di favorire una nascita di una coscienza di gruppo. Gli atleti devono capire (e noi glielo ripetiamo sempre) che sono loro il motore dell'intero movimento».
E allora, viceversa, ci sarà una battaglia destinata ad essere sempre e comunque persa?
«No, tutte le battaglie possono essere combattute, e quello che ripetiamo ai nostri associati è che se sono uniti, non c'è battaglia che non possano vincere. Ripeto, tutto gira intorno a loro, bisogna convincerli di ciò, convincerli che sono fondamentali, che dovrebbero avere in mano il movimento; e invece non decidono nulla, né le regole, né la direzione in cui va questo sport. Definitivamente, i ciclisti devono prendersi gli spazi che competono loro».
In tal senso, è possibile che con l'UCI il tema più dibattuto di recente sia stato quello delle radioline? Non ci sono questioni più importanti?
«Ma quella è una battaglia importante più a livello di principio, perché la decisione di vietare l'uso delle radio in corsa è stata presa senza sentire le esigenze degli attori principali del ciclismo. L'UCI può dire che il tema è stato dibattuto nelle varie commissioni, ma la verità è che non è successo questo, è successo invece che per l'ennesima volta una decisione è calata dall'alto sul movimento. Però è importante che le varie categorie si siano compattate su questa questione».
Ma tanto alla fine l'ha avuta comunque vinta l'UCI.
«Non direi, se è vero che le radioline dovevano scomparire del tutto quest'anno, e invece almeno per questa stagione continueranno ad essere usate nelle corse World Tour. È una piccola vittoria, ma l'abbiamo comunque portata a casa».
Antidoping: l'UCI - che, ormai si è capito, può essere considerata la prima nemica del ciclismo... - continua ad usarlo come una clava per combattere lotte politiche?
«Uno dei nostri impegni, congiuntamente al CPA, è di sollecitare l'Unione Ciclistica Internazionale affinché il primo requisito per l'antidoping sia la trasparenza. È fondamentale che i ciclisti siano consapevoli di essere trattati tutti allo stesso modo, e invece questo elemento, il far vedere che l'antidoping è uguale per tutti, è spesso mancato; col risvolto che poi il clima di sospetto così ingenerato ha magari spinto qualcuno a sentirsi più giustificato a star fuori dalle regole».
In gruppo è mancata la percezione di questa uguaglianza di trattamenti, o piuttosto l'UCI ha effettivamente qualche scheletrino di troppo nell'armadio?
«Io sono arrivato da non molto in questo ambiente, quindi magari non sarò il più adatto a giudicare; ma una cosa che mi sono sempre chiesto è come mai il ciclismo ha impostato tutta questa lotta in modo solitario. Esempio: l'uso che si è fatto del passaporto biologico nei confronti di atleti come Pellizotti, Caucchioli, De Bonis. Non parlo del merito delle singole vicende, ma del fatto che nel 2008 si stesse ancora discutendo su come usare questo passaporto biologico, ma già veniva applicato (in maniera ovviamente restrittiva) con questi corridori. È una fuga in avanti anche rispetto al CIO, al contrario di quanto avviene in tutte le altre discipline. Altra cosa che non capisco: perché il presidente McQuaid si lancia tanto spesso in annunci minatori? Grida "al lupo al lupo", dice che ci sono in vista alcuni casi di doping, poi questi casi non emergono per lungo tempo, poi emergono tutto a un tratto in determinati momenti... tutto questo toglie legittimità all'antidoping. Penso che sarebbe meglio se la lotta al doping venisse gestita da un ente terzo, da un organismo indipendente, servirebbe a dare maggiore credibilità al tutto».
Altro tema caldo, la sicurezza in corsa: un tema che pare essere quasi sottovalutato dai corridori.
«Non sono d'accordo, trovo invece che ci sia grande sensibilità in gruppo riguardo alla sicurezza. Questo è un punto nodale della nostra attività, del resto è tra i compiti statutari dell'ACCPI tutelare l'integrità fisica dei corridori. Ci siamo presi il compito di monitorare tutte le corse del calendario italiano, e dall'ultimo Brixia Tour abbiamo distribuito agli atleti, gara per gara, un questionario da compilare per mettere in evidenza eventuali problemi riguardanti la sicurezza, ma anche vari altri fattori, dall'ospitalità in giù. Pubblicheremo poi i dati, proprio nell'ottica di sensibilizzare ulteriormente l'ambiente. La sicurezza in gara è un parametro non negoziabile, e anche se dovesse rappresentare un costo aggiuntivo, è talmente una priorità che non vi si potrebbe derogare in nessun caso. Fortunatamente molti organizzatori italiani sono attenti a questa questione, anche perché sanno che poi i problemi ricadrebbero inevitabilmente su di loro. Da parte nostra, cerchiamo con loro un terreno di collaborazione, non certo di scontro».
Poi però succede che l'UCI permette che si corra, in giro per il mondo, in situazioni al limite dell'assurdo, fra traffico aperto e camion che procedono in senso contrario alla corsa...
«Tutti insieme, corridori, squadre, direttori sportivi ma anche direttori di organizzazione, devono prendersi l'incarico di sensibilizzare l'UCI su questo tema. Il CPA da parte sua ha già sollecitato iniziative in tal senso; e noi abbiamo fatto il nostro, per esempio - tornando alle radioline - abbiamo promosso uno studio giuridico sull'importanza che questi strumenti hanno dal punto di vista della sicurezza in gara, e sulla responsabilità - in caso di incidenti - che ricadrebbe su datori di lavoro e organizzatori. Abbiamo riportato anche delle sentenze che configurano responsabilità penali, e abbiamo trasmesso tutto alla FCI, che a sua volta si è resa promotrice di queste istanze a livello internazionale. Il tutto senza magari grande clamore, ma in maniera costante, cercando di far passare il messaggio».
Facciamo il gioco delle facili profezie: inizia il Giro, dopo qualche tappa in cui ci sono diverse cadute i corridori iniziano a lamentarsi per la pericolosità di alcuni percorsi, gli organizzatori rispondono che il tracciato era noto da mesi e se c'erano contestazioni potevano essere fatte a tempo debito, le polemiche si sprecano in entrambi i sensi. A tal proposito, si può immaginare che l'ACCPI mandi per tempo i suoi uomini a verificare la sicurezza dei percorsi?
«Probabilmente l'Associazione non avrebbe la possibilità tecnica e logistica per svolgere una simile mansione. Ma bisogna anche dire che tutti i tracciati vengono verificati e approvati da una commissione tecnica federale, con vari rappresentanti ai quali dico grazie perché sono presenti in tutte le corse, gratis, e si assumono oneri senza che poi venga dato loro atto delle modifiche che spesso ottengono. Dai rilievi di questi commissari nasce un confronto, poi magari può capitare che l'organizzatore confermi - per motivi vari - un arrivo giudicato pericoloso. Ma una presenza "istituzionale" comunque c'è in quest'ambito, vedi la vicenda del Crostis all'ultimo Giro, in cui abbiamo avuto una parte attiva, col nostro Salvato che si recò a visionare la discesa, sollecitando il confronto con RCS Sport. Riconosco che l'attenzione da parte degli interlocutori comunque c'è, per esempio Mauro Vegni è molto sensibile a queste tematiche, è una persona aperta al dialogo; per dire, il disegno del Giro 2012 risente in alcune sue caratteristiche (vedi i trasferimenti, molto ridotti rispetto al passato) proprio del confronto voluto e cercato dall'ACCPI».
E veniamo alle più recenti novità: pochi giorni fa avete avuto un incontro con alcune rappresentanti del movimento femminile italiano. Com'è andata?
«Bene, è stato un incontro molto bello, e personalmente credo molto in questa cosa, ci sono tanti aspetti su cui si può intervenire, e sono convinto che tanto si possa fare. È evidente che il ciclismo femminile sia povero, è un settore in cui girano pochi soldi, ma questo potrebbe paradossalmente essere un bene, visto che ci sono in gioco meno interessi di cui tener conto, e forse si può addirittura immaginare di poter provare, con le ragazze, a portare avanti delle battaglie da estendere poi anche all'ambito dei maschietti. Devo anche dire che loro sono più brave degli uomini, sanno essere più solidali tra loro e nel primo incontro ho visto una buona partecipazione, anche delle atlete di vertice come Bronzini, Cantele e Guderzo, e tanta motivazione».
Com'è la situazione delle cicliste?
«L'aspetto peggiore è che il movimento è ancora molto giovane, gravato da regole non chiarissime, per cui ad esempio atlete di livello molto diverso tra loro si trovano a gareggiare insieme, nelle stesse corse. Sarebbe necessaria maggiore equità tra le atlete, e soprattutto - per loro come per i colleghi maschi - che venissero messe al centro di tutto. È impossibile non notare, ad esempio, che a livello gestionale il movimento femminile sia retto quasi interamente da uomini».
Sono possibili - o prevedibili - passi in avanti? E se sì, in che direzione?
«Bisognerà iniziare dalle piccole cose; è impensabile, al momento, pretendere la parificazione del salario minimo con quello degli uomini; ma ci sono tanti progressi che possono essere perseguiti a costo 0, a partire dalle polizze antiinfortunistiche: possiamo estendere alle ragazze la convenzione che abbiamo stipulato per gli uomini, permettendo anche alle atlete di avere una maggiore copertura a costi molto minori. Anche qui cercheremo il dialogo tra le parti, la sindacalizzazione del ciclismo femminile è - ripeto - un progetto in cui credo molto».
Per sintetizzare in conclusione, come vede il futuro del ciclismo?
«Non si può negare che, a livello sindacale, oggi le cose siano più complicate rispetto a 20 anni fa: è un andamento comune a tutti i sindacati, e non possiamo pensare che quello dei ciclisti sia fuori da certe linee di tendenza. A livello sportivo, penso che il ciclismo abbia enormi potenzialità non sfruttate. Se ci pensiamo, il ciclismo è un'attività popolarissima, tutti lo conoscono e tantissimi lo praticano; ma poi, rispetto ai tanti che vanno in bici, sono pochi quelli che seguono il ciclismo come sport. Faccio un esempio: sei mesi fa sono stato invitato a parlare di diritto nello sport all'università della Bicocca a Milano, e la prima cosa che ho chiesto ai ragazzi era proprio se seguissero il nostro sport: ebbene, su una platea di 100 persone, hanno alzato la mano in due. Ecco, questa è la situazione attuale, e su questo bisogna lavorare: il futuro del ciclismo, inesorabilmente, passa dalla nostra capacità di avvicinare quanto più possibile i giovani».