L'intervista: Di Rocco risponde - Il presidente della Federciclo fa il punto della situazione
Versione stampabileChiamato in causa da più parti negli ultimi mesi, nell'ambito di un ciclismo che continua la sua esistenza schizofrenica, e di un ciclismo italiano che - rispetto a quello del resto del mondo - riesce ad avere indici di schizofrenia ancora maggiori, Renato Di Rocco risponde a molte delle domande che gli sono state idealmente rivolte e spiega il suo punto di vista, e quello della Federciclismo. Alcune cose che dice risulteranno convincenti, altre meno, al lettore giudicare, e al presidente federale il compito di iniziare questa lunga chiacchierata con un bilancio della stagione (su strada) appena terminata.
«Nel complesso non è stata un'annata negativa, anzi. Portiamo a casa 43 medaglie nei vari settori; non abbiamo un atleta vincente per le classiche, è vero, ma abbiamo conquistato due grandi giri su tre, in un periodo di importante avvicendamento generazionale. Siamo la seconda nazione nei ranking dietro alla Spagna, Visconti ha vinto il circuito europeo per il secondo anno consecutivo, la Liquigas è la seconda squadra al mondo (sempre secondo i ranking internazionali), e abbiamo conquistato un altro titolo iridato tra le donne, con Giorgia Bronzini. Sì, scontiamo il ritiro di alcuni campioni riconosciuti, un Bettini non lo sostituisci da un giorno all'altro, e altri nomi forti (Rebellin, Di Luca) hanno avuto dei problemi che ne hanno bloccato la carriera. Ci vorranno un 3-4 anni per tessere un nuovo ciclo vincente anche nelle corse di un giorno, ma al momento non possiamo assolutamente dire di essere fermi».
Questo il bilancio. Quindi i problemi, e iniziamo da un nome: Ettore Torri.
«Una persona di grande prestigio e personalità che ci ha causato un danno immenso, perché se uno con la sua credibilità dice certe cose, viene per l'appunto creduto: "Se l'ha detto Torri, sarà vero". Spiace per questa caduta di stile, per questo sfogo che, visto il ruolo da lui ricoperto, è un errore, e lui lo sa. Uno sfogo di un innamorato, possiamo dire, visto che il procuratore è anche un appassionato di ciclismo; e però uno sfogo dettato anche da un particolare non trascurabile, ovvero dal fatto che Torri ha avuto a che fare principalmente con corridori che si erano dopati, e quindi chiaramente ha una visione delle cose molto condizionata da ciò».
Che misure sta prendendo la FCI in seguito a questo episodio?
«Faremo in modo che le procure, la nostra e quella del CONI, lavorino insieme, perché ci sia un'attenzione stratificata anche alle categorie inferiori, e - per esempio - non si cerchi solo il grosso nome. All'inizio del mandato di Torri lamentai proprio questo: si inseguiva Basso per ogni dove, e intanto scoprimmo che alcuni casi tra i dilettanti erano lì accantonati per 8, 10, 12 mesi. Ma devo dire che da allora, dopo i miei attacchi alla procura, le cose sono migliorate su questo fronte».
Possiamo dire che è stato un errore demandare tutto l'antidoping del ciclismo italiano al CONI?
«Fummo i primi a fare una scelta del genere, e per buoni motivi: al mio insediamento mi resi conto che l'UCI non faceva esercizio di trasparenza in alcuni casi... si aveva chiara la sensazione che tra gli atleti ci fossero figli e figliastri... Da parte nostra, avevamo invece l'obbligo di recuperare credibilità, così misi direttamente in connessione UCI e CONI, in modo che da Aigle non potessero esserci manipolazioni nel rapporto con la federazione. Allo stesso tempo facemmo grandi pressioni sull'UCI perché iniziasse a collaborare in maniera proficua e trasparente con la WADA; e sul CONI perché estendesse i poteri della procura antidoping anche sulle altre federazioni sportive italiane, e in entrambi i casi abbiamo ottenuto dei successi».
Sta dicendo che il ciclismo oggi riceve lo stesso trattamento degli altri sport?
«Se escludiamo il calcio, tutti gli altri sport ricevono (o stanno per ricevere: il rugby è un po' in ritardo perché ancora non prevede i test sul sangue) lo stesso trattamento in termini di controlli, ma ci siamo arrivati da appena un anno e mezzo, ci vuol tempo per rendersi compiutamente conto dei cambiamenti».
Quindi - poniamo, esempio a caso - un tennista riceverà lo stesso numero di controlli di un ciclista e, se verrà trovato positivo, l'identico iter "processuale" e la stessa condanna?
«Permangono differenze a livello sanzionatorio tra diverse federazioni internazionali, ma ciò dipende appunto da queste federazioni e non - per tornare a noi - da Torri o dal CONI».
Eppure se guardiamo ai fatti, non possiamo non dire che le distorsioni, nel rapporto tra ciclismo e CONI, non ci siano: Torri che lascia casi accantonati per seguire il colpo da prima pagina, Petrucci che (nel 2000) chiude la Commissione Scientifica di Donati non appena vien fuori che il doping di sistema non c'è solo nel ciclismo, ma anche in tante altre discipline olimpiche... Come possiamo fidarci?
«Io apprezzo il grande lavoro che si è fatto in questi anni. La situazione è molto cambiata da 10 o 5 anni a questa parte, e di Torri bisogna anche dire che ci ha aiutati tantissimo, con le sue inquisizioni, a prendere appieno coscienza della gravità del problema. Certo, c'è ancora tanto da fare, ma per la prima volta registro dei pareri positivi da parte dei direttori dei laboratori antidoping».
Ma deve necessariamente esserci uno sguardo più concreto al problema generale: siamo sempre qui a dirci che siamo vicini alla soluzione, eppure abbiamo fondate prove che ci dicono che non è affatto così. Servirebbe una risposta politica al problema. Ipotizziamo: un passaporto biologico utilizzato per prevenire anziché colpire. Uno stop preventivo di qualche giorno o settimana in presenza di valori non in linea con le attese, ma senza il clamore delle prime pagine.
«Noi ce l'avevamo una cosa del genere, si chiamava "Io non rischio la salute", ma abbiamo dovuto eliminare quel tipo di procedura».
Con quella campagna però ci si finiva ugualmente, in prima pagina. Invece qui parliamo di un rapporto "confidenziale" tra controllori e squadre. Il passaporto biologico dovrebbe essere usato diversamente, mentre, come vediamo anche dal caso Pellizotti, siamo sempre al solito punto.
«Penso che sarebbe più corretto un procedimento riservato, in effetti. Che non vuol dire oscurato, visto che nel momento in cui si apre tale procedimento, tutto resta agli atti di tre enti diversi. Un po' quello che l'UCI ha fatto con Contador, visti i riguardi che gli sono stati usati. Attenzioni che per un caso simile una Bastianelli, per dire, non ha avuto, e s'è presa 2 anni di squalifica, quando lo spagnolo se la caverà credo con molto meno. Va però anche detto che il codice WADA non prevede che si aprano azioni se non con fini sanzionatori, quindi l'"avviso" non è previsto dalle attuali norme. Nel caso Pellizotti però si è scontata anche una cattiva comunicazione, visto che l'atleta non è mai stato sospeso da UCI o FCI, e quindi avrebbe potuto correre».
Bisognerà vedere quale organizzatore l'avrebbe accettato alle sue corse. Intanto ci dobbiamo sorbire l'ennesimo direttore della Gazzetta che alla presentazione del Giro parla di corsa che sarà pulita, controlli che si faranno in gran numero... torniamo al discorso di prima: tanto accanimento sul ciclismo non ci ha portati ad essere visti come uno sport più pulito, ma resta fisso il marchio d'infamia e gli argomenti, alla fin fine, son sempre quelli.
«Diciamo che certe frasi sono anche degli slogan usati a fini di propaganda, poi detto ciò ci si può pure chiedere come mai allora venga disegnato un Giro sempre più duro, che richiede sforzi sempre maggiori ai corridori. È vero, la stampa generalista continua a condannare il ciclismo, io stesso criticai la Gazzetta quando a luglio, in pieno Tour, dedicava due pagine a Rossi... poi vien fuori il caso Contador, che tocca tutto il movimento sui cinque continenti, ed ecco che di nuovo dobbiamo ammettere che qualche ragione a quella stampa gliela diamo».
Giacché siamo in tema: come sono i rapporti con RCS Sport?
«Posso dire che, nei trent'anni che ho passato in Federazione, prima da segretario generale e poi da presidente, un rapporto paritario com'è oggi non c'è mai stato. Bisogna considerare che loro sono un'azienda e come tale hanno come primo obiettivo il business, ma allo stesso tempo va riconosciuto che il Giro attira milioni di persone, è un fenomenale veicolo promozionale che fa bene a tutto il ciclismo italiano».
Meno bene fa che corse storiche siano state prima prese in gestione e poi lasciate morire da RCS Sport. Il Giro del Lazio, la Milano-Torino...
«Il punto è che spesso è inutile andare a bussare ad amministrazioni che non sentono un particolare evento. Fare una corsa tanto per farla, con quattro gatti come pubblico e problemi a non finire, non è il massimo. Oggi come oggi registriamo un grande interesse da parte di regioni come Piemonte, Sicilia, Sardegna. È giusto che il ciclismo vada anche dove ce n'è richiesta».
Non si può prevedere di sostenere in qualche modo quegli organizzatori di corse storiche che magari attraversano un periodo di difficoltà?
«Preferiamo indirizzare determinate somme sulle gare giovanili, piuttosto che sul professionismo. Abbiamo salvato il Giro della Lunigiana juniores, per esempio, e oggi è la corsa forse più importante della categoria; ci siamo presi in carico l'organizzazione di un Giro dilettanti, e oggi abbiamo il GiroBio; idem col Regioni, idem col GiroDonne. Purtroppo tra i professionisti sono cambiate alcune realtà... Dietro al Giro di Puglia c'era la Gazzetta del Mezzogiorno, che oggi non è più interessata a un evento del genere; dietro al Giro del Lazio c'era il Messaggero... Dietro al Giro dell'Emilia c'era Stadio... Ripeto, se sul territorio non c'è interesse nei confronti di una manifestazione, è inutile lottare contro i mulini a vento».
Capitolo ciclismo femminile: perché è un movimento per certi versi così dilettantesco, specie nella gestione di diverse squadre? Che fa la FCI per migliorare la situazione?
«Intanto l'UCI ha accelerato molto il riconoscimento delle squadre femminili come professionistiche. Noi abbiamo un organo che valuta a livello finanziario le Professional e le Continental maschili, e infatti in quel senso prendiamo provvedimenti (vedi caso CDC-Cavaliere di quest'anno); tra le donne ancora non lo facciamo perché il movimento è ancora in una fase di transizione. Aspettiamo che cresca ancora un po' prima di attivare procedure di livello più alto. Certo, non si può negare che il 50% delle squadre italiane non avrebbero diritto di gareggiare, anche se abbiamo anche buoni team. Sul piano delle corse, qualcosa abbiamo fatto, riportando con Minervino una prova di Coppa del Mondo in Italia, e sostenendo - come detto - il GiroDonne in un momento di difficoltà in passato. Bisogna pur dire che non siamo un organo di finanza, e più di tanto economicamente non possiamo dare impulso per la crescita».
Perché, malgrado i grandi successi internazionali delle nostre atlete, non si riesce a fare più promozione con loro, che purtroppo restano misconosciute alla stragrande maggioranza degli italiani?
«Ma non solo per le donne, non riusciamo a monetizzare al meglio, in termini di immagine, perché ogni volta arriva una nuova batosta del doping. Ci vorrebbe una campagna sociale, per così dire, ma per organizzarla ci vogliono grandi risorse. Abbiamo anche contattato un'agenzia di marketing affermatissima per valutare la possibilità di una campagna di grande impatto creativo. Ma purtroppo si tratta di investimenti che non ci possiamo permettere col nostro bilancio che ancora paga i buchi lasciati dalla precedente gestione».
Tema sicurezza. Gli standard, specie nelle corse minori, vanno migliorati.
«Ogni anno piangiamo dei ragazzi che perdono la vita sulle strade. Anche se alcune storie hanno più risalto di altre, le statistiche ci dicono che non è in atto un peggioramento. Siamo sui 12-13 morti all'anno. Come Federazione sappiamo di dover abbassare ancora questo dato, e stiamo facendo tanto, per esempio a livello di standard informativi; abbiamo professionalizzato la figura dei motostaffettisti, e siamo presenti in tutti i presidi in cui si affronta il tema della sicurezza: ce n'è uno sugli indumenti sicuri con Ministero dell'Interno e CNEL, siamo nella Consulta sulla Sicurezza, nel progetto EuroMobility. Stiamo facendo pressioni per l'aumento delle piste ciclabili, e abbiamo affermato l'idea del ciclodromo, uno spazio sicuro e circoscritto con tanto di logistica (spogliatoi, bar e quant'altro), ne abbiamo quasi 90 già attivi in tutta Italia».
Perché i giovani italiani non fanno attività su pista come i colleghi anglosassoni?
«Semplicemente perché finora non abbiamo avuto i velodromi. Stiamo recuperando, comunque, anche se stiamo parlando di un vero e proprio processo culturale che investe atleti e soprattutto direttori sportivi giovanili, e quindi ci vorranno degli anni prima che vada a compimento. Nonostante tutto, da un anno abbiamo il velodromo di Montichiari, e già abbiamo ridotto di molto il gap dalle nazioni più avanzate in questo settore. Bisogna insistere, prendere esempio dalla Gran Bretagna, dove forse i tecnici hanno avuto meno pregiudizi dei nostri e hanno sposato in pieno il progetto della pista; e aspettare un altro velodromo, da qui a tre anni (magari a Treviso), per poter aumentare l'attività in casa nostra. Siamo consci del fatto che ci sono 3-4 nazioni che non si sono fermate per 8 anni come abbiamo fatto noi, ma in prospettiva posso dire che alle Olimpiadi del 2016 contiamo di tornare tra le prime 4 nazionali, se non nella velocità (che richiede atleti iperspecializzati), almeno nelle altre discipline su cui l'UCI ha deciso di puntare. Quelle, per intenderci, che possono avere tra i protagonisti anche gli stradisti, con innegabile crescita di attenzione da parte del pubblico».
Tra le Continental italiane qual è lo stato dell'arte?
«Fosse per noi, saremmo coerenti con quanto fatto nel 2008, quando decidemmo di non riconoscerne lo status, visto che non c'erano proprio i presupposti per l'esistenza di tali squadre. Ma l'UCI ci ha obbligati alla retromarcia, e in fondo capisco la politica di allargamento perseguita dall'Unione Ciclistica Internazionale: a noi le Continental creano solo casino e non servono a nulla, altrove - penso all'Est Europa, o ai continenti più nuovi per il ciclismo - sono un modo per entrare in contatto con realtà locali che vogliono investire nel nostro sport. Se guardiamo l'ordine d'arrivo dei Mondiali di Melbourne, troviamo 11 atleti di 11 nazionalità diverse ai primi 11 posti (e ha vinto un atleta della Norvegia!), quindi in effetti questa politica dell'UCI mostra i suoi frutti, nell'internazionalizzazione del ciclismo. Noi abbiamo un'altra tradizione, abbiamo molte forti squadre di dilettanti, e preferiamo che restino tali. Avremmo potuto fare come in Belgio, dove a molte di queste squadre è stato chiesto di diventare Continental, appunto, ma noi abbiamo preso un'altra direzione, e difendo questa scelta, che si riverbera anche - ad esempio - nel non voler portare dei professionisti al Mondiale Under 23. Ogni nazione deve anche assecondare le proprie esigenze. Per dire, in Francia per anni non hanno avuto nomi di spicco, ma hanno lavorato sulla qualità e ora diversi di loro tornano a farsi vedere davanti nelle corse che contano. Noi abbiamo tanta quantità e dobbiamo finalizzarla alla qualità».
In tutto l'evolversi più o meno critico delle condizioni del movimento italiano, pare intanto diventata un'abitudine quella di avere un Mondiale ogni 4 o 5 anni nel nostro paese. Com'è possibile questa convivenza di casi di povertà (di risorse) estrema e capacità di movimentare le enormi somme necessarie per organizzare la manifestazione iridata?
«Iniziamo col dire che non ci si può fermare malgrado la crisi, anzi, come dicono molti, bisogna investire. Faccio un esempio: anche se non tutti al mondo dispongono di acqua potabile, ciò non vuol dire che chi ce l'ha ne debba fare a meno, anche se ovviamente si impegnerà per far sì che anche chi non ha l'acqua ce la possa avere. Tornando a noi, oggi il ciclismo è il più grosso strumento di promozione turistica. La bicicletta vive una popolarità enorme, se si guarda la tv si vede che in 7 spot su 10 è presente l'elemento bicicletta. Pensiamo alle montagne: il 50% delle località alpine è stato "lanciato" dal ciclismo. Ricordo quando facemmo i Mondiali a Ostuni nel '76, era un posto sconosciuto, dopo divenne una meta privilegiata di turismo. Quel che intendo dire è: abbiamo questa possibilità di promozione, non lasciamoci sfuggire pure questo! In Toscana è successa una cosa eccezionale, tutti gli amministratori hanno remato insieme, nella stessa direzione, e parliamo di una regione dai mille campanili. La Toscana ha dato tanto, tantissimo al ciclismo, grandi campioni come Bartali o Magni (per non parlare di tutti quelli venuti dopo), e tuttora è uno dei centri nevralgici di questo sport: non dimentichiamo che Cavendish ha il quartier generale dalle parti di Pistoia. Questo progetto del 2013 era poi nato con Ballerini in vita, e se ho potuto spendere una parola in sede UCI, l'ho fatto proprio perché (e per ricordare che) questo era anche un progetto di Franco».