Tutti dopati?: Il Coni fa e disfa, il ciclismo è inerme - Ma ora Torri si deve dimettere
Versione stampabileUno sfogo espresso in maniera paradossale. Con questa frase, forse, tra qualche tempo gli sportivi si ricorderanno di Ettore Torri, un magistrato che da anni è a capo della procura antidoping del Coni e che, come molti suoi predecessori, si è reso forse conto di lottare continuamente contro i mulini a vento, in un particolare contesto storico, sociale e culturale che di certo non aiuta quella che, per i vertici dello sport mondiale, è la "battaglia delle battaglie" (almeno per quanto riguarda la facciata pubblica, perché ai dirigenti dello sport del doping - eh già, parliamo di nuovo di doping - non interessa una beneamata mazza, anzi).
Sì, ma quale sfogo? Ieri Ettore Torri, commentando la positività di Alberto Contador durante l'ultimo Tour de France, si è lasciato scappare delle frasi che hanno fatto un gran clamore. Non tanto per il senso di quelle frasi, visto che le sentiamo continuamente nei bar sport, oppure le leggiamo nei forum o - meno esplicitamente - negli occhi e nei pensieri di chiunque abbia a che fare (non solo da spettatore, ma anche e soprattutto all'interno) con il famigerato "ambiente".
Il clamore è arrivato soprattutto perché a pronunciare la frase «i ciclisti sono tutti dopati» è stato il procuratore antidoping, l'uomo chiamato a giudicare tutti gli sportivi con equità e senza pregiudizio. Una frase che è stata seguita da un'ipotesi di «liberalizzazione» dei prodotti dopanti, con l'unico freno della dannosità per la salute di chi ne fa uso (e non, da un punto di vista più prettamente sportivo, della sana e leale competizione).
Facile puntare il dito contro Torri, ora, e chiedergli perché non ha pensato lo stesso quando ha squalificato Basso e Scarponi, tentando al contempo di incastrare Caruso, nella famigerata Operación Puerto. Perché sia andato a scomodare addirittura Valverde in Spagna (anzi in Francia, anzi in Italia, visto lo sconfinamento del Tour che ha prestato il fianco), lasciando che gli «altri 99 su 100» continuassero comunque a farla franca. E l'elenco continuerebbe coi Di Luca, coi Petacchi, coi Riccò, coi Sella e con tutti quelli che negli ultimi anni sono passati dagli uffici dello Stadio Olimpico per parlare con il procuratore antidoping.
E sarebbe ancora più facile chiedere a Torri perché il suo sfogo non ha riguardato tutto lo sport, ma il solo ciclismo, certo vittima sacrificale già ben maciullata da opinione pubblica e dirigenti nazionali e internazionali (sia "esterni", ma soprattutto interni al mondo del pedale). Così che il suo sfogo è parso ai più - e anche a noi altri, francamente - comprensibile, veritiero, forse persino giustificabile nella sostanza, da parte di chi per anni cerca di venire a capo di determinate situazioni che si incatenano, si intrecciano, si snodano e si rintrecciano sempre nel dilettantesco (non dilettantistico) mondo del ciclismo.
La posizione e la caratura di un procuratore antidoping del Coni deve essere per forza di cose nettamente più qualificata ed alta rispetto a qualsiasi altro protagonista italiano della lotta al doping. Quindi è normale che la Gazzetta dello Sport abbia chiesto a Torri se quelle dichiarazioni fossero il solo antipasto prima del piatto forte, cioè le dimissioni. La risposta («Non mollo») era palesemente in netto contrasto con quanto fin lì affermato (dov'era già finito il «male inestirpabile»?), ed è quindi naturale che oggi siano arrivate, puntuali, le ritrattazioni dello stesso Torri dopo un incontro (immaginiamo il clima) con il presidente del Coni Petrucci e il segretario generale Pagnozzi: «Lo sfogo, espresso in modo forse paradossale, di una persona che da anni lotta contro il problema», recita il comunicato stampa del Comitato Olimpico italiano, che si conferma così grande manovratore e burattinaio anche di organismi che, a parole, dovrebbero essere autonomi più che mai e che invece dipendono dalla politica e per i quali la politica non prende decisioni e non attua percorsi (in)formativi focalizzati più che altro sull'aspetto culturale.
E il ciclismo? I dirigenti e gli atleti che cosa hanno detto di questa uscita di Torri? I commenti sulle pagine degli atleti (ma non solo) su Facebook e Twitter - tanto per citare i due social network più diffusi - sono decisamente sopra le righe. Atleti che si sentono offesi, disgustati, oltraggiati dalle accuse del procuratore antidoping del Coni. Magari quegli stessi atleti hanno corso con compagni positivi all'antidoping, o per team manager e direttori sportivi con un passato non proprio limpidissimo, ma - parafrasando Boskov - "doping è quando laboratorio trova", e quindi si dia inizio alla fiera degli offesi.
Per non parlare dei dirigenti, con Di Rocco che non ha trovato parole più incisive delle deboli: «[...] Le dichiarazioni indiscriminate e generalizzate del procuratore Ettore Torri nei confronti della nostra disciplina mi lasciano allibito, così come la soluzione proposta, che ritengo inappropriate al suo ruolo e alle sue funzioni. Prendo atto che si è trattato di uno sfogo, ma intanto ha procurato un danno di immagine enorme al nostro movimento. Le responsabilità sono personali e non devono coinvolgere tutta la popolazione dei ciclisti che gareggiano con lealtà sportiva. Confermo alla Procura Antidoping del Coni la piena collaborazione che abbiamo finora garantito. Auspico, anzi che allarghi sempre più gli orizzonti del suo campo d'indagine, contrastando ogni caso con serietà e rigore, perché il fenomeno del doping, purtroppo globale e diffuso, va combattuto a 360 gradi sul piano della legge e del diritto e non su quello delle esternazioni mediatiche». Non un cenno ad alcuna richiesta di dimissioni. Non una parola sul fatto che il ciclismo è l'unico sport a non fare controlli antidoping federali, appoggiandosi in tutto e per tutto al Coni (e i risultati sono sotto gli occhi di tutti), che studi e statistiche hanno dimostrato che la proporzione tra controlli effettuati e atleti trovati positivi è molto più bassa nel ciclismo che in parecchi altri sport, con il calcio in primis.
Inutile però ergersi a paladini di qualcuno solo quando quel qualcuno viene offeso. Da parte della FCI almeno c'è stato un contradditorio, per quanto debole; anche la Liquigas, soprattutto per difendere i medici e i preparatori interni, messi all'indice da Torri con l'etichetta seppur meritoria di «bravissimi nel dopare entro i limiti», si è fatta leggere con un comunicato nel quale si fa riferimento implicito alle dimissioni di Torri ed esplicito in merito ad un intervento di UCI e FCI. Già, l'UCI: Pat McQuaid ha atteso più di tutti prima di farsi leggere, con parole che tendono più a proteggere il proprio orticello ("I controlli funzionano", "Per noi tutti gli atleti sono uguali"), senza porsi qualche domanda sul perché un procuratore come Torri si sia lanciato in una frase tanto precisa: «[...] Le affermazioni del procuratore del Coni Ettore Torri non possono non suscitare una reazione di delusione e di profondo sconcerto in tutti coloro che praticano e che amano questo sport. [...] Asserire che tutti i ciclisti siano dei dopati non significa quindi soltanto lanciare un'accusa grave, addirittura infamante e comunque del tutto priva di qualsiasi riscontro oggettivo su tutta una categoria di atleti, ma soprattutto negare l'attendibilità dei controlli e delle pratiche antidoping in vigore. [...] Prese di posizione incomprensibili ed irresponsabili come quelle di Ettore Torri - di fronte alle cui insinuazioni e proposte riesce in questo momento molto difficile riconoscere l'obiettività e il rigore indispensabili a chiunque sia chiamato ad operare in questo delicatissimo settore - per quanto inopportune e nefaste non potranno tuttavia distoglierci dal nostro proposito di opporci con ogni mezzo, ma altresi con estrema onestà intellettuale, a qualsiasi forma di inganno nello sport». Mentre il silenzio di CPA e ACCPI è del tutto imbarazzante, ma ormai quel che (non) partoriscono questi due enti non ci sorprende affatto.
Il peccato maggiore, dopo le esternazioni di Torri, è sapere con certezza che all'interno del ciclismo non cambiera assolutamente niente: non ci sarà più coesione, non ci sarà più volontà di far valere tutti insieme i propri diritti, non ci sarà una maggiore rivendicazione alla privacy, a tempi di giustizia più brevi, a pene più certe e a regolamenti che possano favorire l'aspetto sportivo e meno quello economico e (geo)politico. Invece queste poche ore di coesione in gruppo (il "tutti contro qualcuno" è una prassi del ciclismo) rimarranno 48 ore di sdegno fine a se stesso. Poi si pedalerà di nuovo senza pensare, fino alla prossima volta. Fino a che non si individuerà un altro Torri da additare e con il quale avercela a morte.
D'altronde, si dice, ognuno ha ciò che si merita.