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Sicurezza: Basta con questo orrore - Ne abbiamo viste troppe: il governo del ciclismo deve prendere provvedimenti seri

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Nel fotogramma tv il momento in cui un'auto investe Flecha (per terra) in corsa. Sulla sinistra Hoogerland è in volo, atterrerà sul filo spinato © Eurosport.co.uk

Lo sappiamo che è quasi antipatico tornare alla carica con i nostri pistolotti all'indomani di una tappa che è stata un disastro per la salute di molti corridori, ma il tema della sicurezza è sempre in cima ai nostri pensieri, e forse il messaggio passa più facilmente se chi lo dovrebbe ricevere è stato appena sensibilizzato sull'argomento.

Ci si chiederà: ma si è dovuto rompere un femore Vinokourov, o una macchina dell'organizzazione deve aver investito un paio di ciclisti (uno, in realtà: l'altro è stato un effetto collaterale...) perché qualcuno dei capoccia di questo sport si rendesse conto che la sicurezza è un concetto che non dev'essere più lasciato in affidamento a una coniugazione deleteria e anacronistica di superficialità e fatalismo?

Il problema è che non è bastato, non basta, non basterà. Quante altre volte dovremo sentire che «le cadute nel ciclismo ci sono sempre state»? Come se Jenner a fine '700 avesse detto «di vaiolo si è sempre morti» e avesse rinunciato a cercare un vaccino.

La nostra - e di tanti appassionati che seguono il ciclismo - speranza è che, sì, stavolta qualcuno, che anche non fosse stato sfiorato dall'idea lo scorso, tragico 11 maggio, che stavolta qualcuno si sia detto che è arrivato il momento di fare qualcosa per salvaguardare la salute dei corridori durante le corse ciclistiche. E che possa partire anche nei palazzi del potere una moral suasion per giungere ad avere delle risposte.

Alexandre Vinokourov risale a fatica una scarpata, portato a braccia dai suoi © Bettiniphoto

Le vorremmo avere dall'UCI, queste risposte. Quando partirà un progetto di studio per mettere a punto degli strumenti di protezione per i ciclisti? Quand'è che una parte dei ricchi budget di Aigle sarà destinata ad un'operazione per la salvaguardia del bene più prezioso che abbia il ciclismo, ovvero i suoi atleti?

Non si è ancora capito a chi convenga assistere a un simile stillicidio. Ai corridori che cadono e si fanno male? No di certo; alle squadre che perdono per periodi più o meno lunghi atleti a cui pagano ricchi stipendi? Difficile; agli organizzatori che vedono impoverite le loro corse quando queste vedono ritirarsi in media un corridore di spicco al giorno?

Abbiamo visto che le cadute avvengono per i motivi più disparati. Distrazione, ma anche casualità, si cade in discesa (e a volte si va a finire in un fosso) e in pianura (e a volte ci si schianta su uno spartitraffico), si cade sul morbido (l'erba dei campi) ma purtroppo anche sul duro (sbattere su un marciapiede è molto doloroso), si cade per imperizia propria ma anche per sventatezza altrui.

Si cade perché investiti da un'auto in corsa e a volte capita di andare a finire sul filo spinato. No, non crediamo che, malgrado tutta la retorica (giusta, giustissima!) dei ciclisti uomini veri, sia il caso di arricchire il romanzo di nuovi capitoli, non vale la pena veder soffrire un atleta (un uomo) come successo ieri a Hoogerland in nome di un concetto di ciclismo eroico che farebbe presa sul pubblico (anche se inevitabilmente una vicenda come quella di Hoogerland ieri FA presa sul pubblico).

Frederik Willems, tra i corridori caduti nella discesa del Pas du Peyrol. Per lui clavicola fratturata e tante ferite © Bettiniphoto

È pensabile mettere balle di fieno sui due lati della strada per 200 km di corsa? È pensabile creare vie di fuga su ogni tratto critico di una tappa di montagna? È pensabile dire ai corridori di andare più piano o di non essere nervosi?

Potremo trovare dei palliativi, come il limitare a 180 i corridori che possono prendere il via a un grande giro, o ridurre drasticamente il numero di mezzi al seguito della corsa. Ma, per quanto senz'altro utili (benché tardive), sarebbero misure insufficienti per impedire che un corridore si faccia male quando cade.

Perché questo avvenga, dobbiamo spostare l'attenzione dal mondo circostante, pieno di pericoli, all'essere umano, pieno di vulnerabilità. Il casco è stato l'unico vero passo in avanti nel campo della sicurezza negli ultimi 110 anni di ciclismo: siamo sicuri che si poteva fare di più; e siamo a maggior ragione sicuri che da qui in poi si possa fare di più, molto di più.

Al primo posto nella scala delle priorità dell'UCI non deve più esserci la lotta al doping o la corsa a monetizzare eventi come i Mondiali, né tantomeno la lotta per assumere potere togliendolo agli altri attori del ciclismo. No, al primo posto ci dev'essere un investimento forte sulla ricerca nel campo di alcuni oggetti salvavita (o salvacarriera, o anche solo salvaossa). Caschi più protettivi, magari con airbag per proteggere il corridore anche dai traumi facciali; elementi rigidi da incorporare nelle divise, che tengano al riparo clavicole, spalle, scapole, bacini, femori, tibie, peroni... magari anche polsi e costole, gomiti e ginocchi.

I terribili segni del filo spinato sulla gamba e sul gluteo di Johnny Hoogerland © Bettiniphoto

L'obiezione già la conosciamo, «non si può pretendere che i ciclisti gareggino con l'armatura». Siamo convinti che la ricerca nel settore possa produrre materiali leggeri quanto solidi, traspiranti quanto protettivi. E se anche ci si dovesse rendere conto che il corridore sarebbe obbligato a portarsi addosso un peso supplementare, nulla di grave, possiamo (ci si perdoni l'iperbole) ridurre i chilometraggi, o le pendenze, per riequilibrare la fatica di pedalare con 500 grammi, o un chilo in più addosso.

Se non avessimo la certezza che molto si possa fare in questa direzione, non ci azzarderemmo nemmeno a prefigurare un simile scenario. Siamo altresì convinti che lo scarto di mentalità necessario per abbracciare questa tesi non sia di poco conto, tantopiù in un ambiente sclerotizzato come quello del ciclismo, dove si fa presto a fare dieci passi indietro (le multe per la pipì, che solerzia!), ma si fatica tantissimo a farne mezzo in avanti.

Nell'attesa che quel fantomatico dirigente dell'UCI (ma anche della FCI, perché no?), visto Vino ieri, visto Van den Broeck, visto Flecha (e magari mandato un pensiero al povero Soler, che vive giorni difficili dopo una caduta al Tour de Suisse), inizi a far circolare nell'orrido ente il concetto di "corridore protetto", ci rivolgiamo anche a chi rappresenta, nei fatti, i ciclisti.

Cari sindacati, cara ACCPI, cara CPA, che ne dite di buttare giù un'idea, una proposta, quantomeno un'analisi seria della situazione? Quando darete il la a questa vera e propria rivoluzione degli usi e dei costumi dei vostri rappresentati? Se ne può parlare? Si può iniziare a sedersi intorno a un tavolo per mettere insieme un piano di fattibilità di un tale progetto, che tenga conto di costi, tempi e modi?

Quel che è certo, è che qualsiasi passo in avanti sulla sicurezza verrà promosso da chi fa ciclismo agonistico, le ricadute sulle popolazioni sarebbero enormi. Gli investimenti per la ricerca di strumenti protettivi darebbero vita anche a una produzione di tali strumenti anche per i cicloamatori o semplicemente per chiunque possieda una bicicletta. Anche questa è una responsabilità che non si può più sottovalutare.

Marco Grassi

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