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Il commento: E se usassimo la tortura?... - Contador, l'assoluzione, i forcaioli

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Torna finalmente il sorriso sul volto di Alberto Contador © BettiniphotoE così aveva ragione El País e aveva ragione Marca, e avevano ragione tutti quelli che avevano anticipato l'assoluzione di Alberto Contador da parte della RFEC, la Federciclismo spagnola.

Contador è stato assolto, viva Contador. Capita talmente di rado che un corridore riesca a uscire indenne (o quasi) da un tribunale ciclistico, che anche essendo forcaioli, si potrebbe essere moderatamente soddisfatti, perché evidentemente il sistema della giustizia sportiva produce anche qualche assoluzione, il che dovrebbe garantire dell'equità del sistema stesso.

Invece c'è maretta, in un ciclismo che si dice scosso dalla freschissima nuova vicenda Riccò, e che ingoia questo boccone spagnolo come se fosse parecchio amaro. Dobbiamo scindere il discorso in due piani: quello giuridico, e quello della realtà (percepita).

Sul piano giuridico, possiamo dire senza infingimenti che una squalifica di Contador sarebbe stata una mostruosità, indipendentemente dal fatto che ce ne siano state di simili in passato (Alessandro Colò, Fuyu Li). Sarebbe stato troppo (forse anche per il nostro sport) fermare un corridore che ha presentato, per tramite dei suoi legali, fior di elementi che dimostrano la plausibilità dell'assenza di dolo; farlo pur avendo accolto quest'istanza (si sarebbe punita la negligenza dell'atleta); e infine, farlo dopo che la WADA, non contestando pochi giorni fa l'assoluzione del pongista tedesco Ovcharov (per una vicenda praticamente identica a quella di Alberto), aveva mandato un segnale che chiaramente non poteva non fare giurisprudenza. La Real Federación spagnola non se l'è sentita, anche se in realtà sarebbe più giusto dire che la Real Federación spagnola non poteva fare altrimenti.

Oppure sì, ma al costo di perpetuare una mostruosità giuridica (già perpetratasi ai danni dei citati Colò e Fuyu). Quindi, detto che l'UCI potrà sempre far ricorso al TAS (e forse lo farà, anche se la WADA non l'ha fatto per Ovcharov, e anche se l'UCI stessa aveva trattato il caso Contador con tanto di guanti bianchi, all'alba di questa storia), chi crede in quella giustizia sportiva che squalifica senza pietà fior di ciclisti, dovrebbe accogliere senza particolari rimpianti questa sentenza legittima e, oseremmo dire, inattaccabile.

Invece, come dicevamo, questo accoglimento sereno di Alberto di nuovo in gruppo (correrà subito, già oggi nella Volta ao Algarve in Portogallo) non c'è e non c'è stato. Molti appassionati baruffano e gridano allo scandalo, ma anche dal plotone arrivano mugugni, da parte di corridori che forse non si rendono conto di quanto questa sentenza, se non verrà contestata nelle sedi istituzionali, sia una grande vittoria per la categoria: una categoria a cui non si chiederà più di fare esami batteriologici o chimici delle cose che si mangiano (l'abbiamo buttata lì grossolanamente, è chiaro che il vero risvolto sta in un livello di garanzia più elevato per i futuri imputati).

E allora irrompe, su quello giuridico, il piano della realtà: quella percepita, perlomeno, ovvero quella che ci dice che in gruppo ci si dopa ancora, e che sicuramente Contador l'ha sfangata (con tanto di aiuto mediatico e istituzionale da parte del premier spagnolo Zapatero) pur essendo in realtà colpevole. Un'ipotesi senz'altro rispettabile e per molti appassionati più credibile della storia della bistecca contaminata al clenbuterolo.

Ma qui bisogna mettersi d'accordo, una buona volta: esiste, nel ciclismo, un concetto chiamato diritto? Se sì, è allora giunta l'ora che quelli che urlano all'ingiustizia si tacitino: per cosa doveva essere squalificato Contador? Per una vicenda in cui ha dimostrato di non essere colpevole? O perché noi siamo convinti che lui sia comunque un dopato? Ma allora, se deve valere la regola del sospetto, in barba alle prove e al diritto, dovremmo chiedere la squalifica (la definiamo preventiva?) di decine di corridori, non del solo madrileno. Ci si rende autonomamente conto dell'impossibilità di attuare simili misure: chi decide su chi? Ci sveglieremo una mattina scoprendo che la radiazione è stata estesa a tutti i sospetti?

In pratica, pare che non basti, stando a sentire taluni osservatori, che un ente come l'UCI abbia praticamente potere assoluto sui propri affiliati, che possa deciderne la carriera o influenzare pesantemente le vite degli atleti (stavamo per scrivere "le vite degli altri"...). No, i ciclisti, sempre secondo la marea montante del forcaiolismo (non lo si può più nemmeno definire giustizialismo), non devono nemmeno avere il diritto di provare a provare la propria innocenza. Se non confessano immediatamente, sono bugiardi; se si azzardano a tenere testa ai procuratori antidoping, sono arroganti; se poi addirittura, come nel caso di Contador, osano pure avere ragione, siamo praticamente alla fine del ciclismo.

Evidentemente, sempre per gli osservatori di cui sopra (spesso facenti - o aventi fatto - parte del sistema, e quindi in odor di ipocrisia quando fanno i Savonarola), non c'è proprio modo di sfuggire alla natura ontologica del ciclista: la condanna è già insita nell'attività pedalatoria, è già connaturata al ruolo del corridore, fa premio pure sulle indagini, le precede; e il diritto alla difesa di un imputato è roba da fighetti alla Beccaria.

L'unica sentenza possibile, in definitiva, è questa benedetta condanna; se arriva l'assoluzione, siamo a una resa della lotta al doping e di istituzioni come l'UCI (che tra l'altro sono universalmente riconosciute come poco trasparenti...), siamo alla guardia che va ancora alzata, siamo alle misure che vanno indurite, siamo alla radiazione per i sospetti, appunto, siamo al pessimo esempio per i giovani, siamo alla sconfitta di quelli che corrono puliti, siamo al disastro d'immagine per il ciclismo, siamo siamo siamo e insomma: rilassarsi proprio no, eh?

Marco Grassi

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