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L'Editoriale: Non c'è niente di più importante - Mettiamo al primo posto la sicurezza per i ciclisti

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Ciclisti per terra, una scena troppo frequente - Foto Roberto BettiniA quante altre tragedie dovremo assistere nel ciclismo prima che l'agenda delle istituzioni del nostro sport cambi la sua scala di priorità e metta al primo posto ciò che è veramente importante per la salute dei corridori, ovvero la sicurezza durante le gare?

Partiamo da una considerazione: i miglioramenti tecnici (biciclette, allenamenti, fondo stradale) hanno consentito negli anni un aumento delle velocità raggiungibili, a cui l'unica misura contrapposta (dopo mille resistenze, e solo 7 anni fa) è stata l'introduzione dell'obbligo di indossare il casco in gara. Nel frattempo le corse hanno visto aumentare - oltre alla velocità - anche il numero dei partecipanti (in alcuni casi siamo al raddoppio rispetto a qualche decennio fa: da 100-120 a 200) e di conseguenza le probabilità di incidenti. E, di pari passo, abbiamo registrato nel tempo un aumento parossistico del traffico automobilistico, il che rende malsicure le strade d'allenamento, ma anche quelle in cui transitano corse che non siano il Giro d'Italia o la Milano-Sanremo: già se parliamo di una Milano-Torino, tutti ricordano cosa successe quando una jeep fece irruzione sul percorso di gara nel 1995. Figuriamoci quel che può succedere (e che succede, purtroppo) nelle gare minori e in quelle giovanili.

Se ci è permesso, poi, noteremmo anche un aumento del livello di insofferenza e conseguente prepotenza dell'automobilista medio, che con sempre meno pazienza sopporta di trovare strade chiuse al traffico, e a volte si concede atti di forza o di leggerezza; in tal senso, la questione della sensibilizzazione di chi guida, attraverso campagne di stampa e - perché no - di pubblicità, diventa un punto focale.

Se ne è parlato sabato sera a Prato, in un incontro sul tema (di cui riportiamo a parte il verbale integrale) da cui sono emerse molte idee e in cui si sono analizzati molti punti critici. Tra i quali, non indifferente, quello dei costi per avere personale professionalizzato sui percorsi e maggiori risorse da investire sulla sicurezza. Non ci si può nascondere dietro a un dito: oggi come oggi molte corse boccheggiano e molti organizzatori faticano a reperire i fondi per metterle in piedi. In molti casi (tantopiù nelle gare femminili e giovanili) non ci sono proprio margini operativi, per cui diventa utopistico pensare che parte del budget venga differita e ricollocata. Se vogliamo essere realisti, dobbiamo pensare che potremmo trovarci di fronte alla scelta tra una corsa sicura e nessuna corsa.

A chi tocca quindi rimboccarsi le maniche? Alle istituzioni. Partiamo dall'UCI, che potrebbe per esempio decurtare le spese per tasse che servono a tenere in piedi il non del tutto utile carrozzone di Aigle, e permettere così ai piccoli organizzatori di risparmiare qualcosa da reinvestire nella tutela degli atleti. Oppure potrebbe abbandonare i progetti di divieto all'uso delle radioline in corsa, visto che si è capito che queste radioline hanno una loro funzione per prevenire pericoli (e noi le togliamo, così d'imperio e contro il parere di varie associazioni di categoria, non ultima quella dei direttori sportivi?).

Proseguiamo con la Federciclismo (parliamo dell'Italia, ma il discorso è facilmente estensibile): c'è la possibilità che la FCI disponga un fondo mutualistico per supportare sul piano della sicurezza chi organizza una gara? Dove drenare le risorse per fare ciò? Una risposta ce l'avremmo (l'antidoping), ma qui rischierebbe di sembrare strumentale e quindi non la prendiamo in considerazione. Però non sarebbe ipotesi folle pensare che gli organizzatori più forti possano mettere a disposizione una quota annuale per la sopravvivenza degli organizzatori meno forti in uno scenario in cui si prevedano maggiori costi per la sicurezza.

Ancora, chi vieta alla FCI di cercare un paio di sponsor (e magari un Ministero con portafoglio) partner per una grande campagna che abbia pure risvolti pratici? Pensiamo a quanto crescerebbe il livello di sicurezza per i corridori se la Federazione potesse mettere a disposizione un milione di euro da suddividere fra 500 (ipotizziamo) piccoli organizzatori (sarebbero 2000 euro a testa, parliamo di cifre in assoluto basse ma dall'altissima utilità marginale, in quanto in grado di attivare servizi che altrimenti sarebbero del tutto non previsti da budget. Per semplificare, 2000 euro non cambiano la sostanza di un budget milionario come quello del Giro, ma la cambiano molto per chi spende 20000 euro per organizzare una gara).

E ancora: è assurdo pensare a una partnership con un'azienda di vestiario o accessori per i ciclisti, per mettere in cantiere studi di fattibilità su materiali e strumenti di protezione? Mettiamola in termini puramente economici (quelli che meglio vengono intesi in certi palazzi): c'è un'idea del business che sarebbe rappresentato dalla produzione - esempio - di paraschiena (come quelli del motociclismo) da mettere a disposizione dei corridori? Se questi territori non sono stati ancora battuti è perché non si è sentita fin qui l'esigenza di affiancare al casco altre misure di sicurezza.

Eppure una sorta di "armatura" protettiva da indossare sotto la maglia, con rinforzi nei punti più esposti (le clavicole, ad esempio), realizzata in materiali leggeri e traspiranti, non pare tecnologia che abbisogni dell'intervento della NASA per essere pensata e progettata. Oggi un ciclista è veramente esposto al pericolo con tutto il corpo: se cade, cade, e in qualsiasi modo lo faccia, nove volte su dieci si farà male. Ma se avesse delle protezioni al di là del casco, ebbene, quel ciclista potrebbe imparare a cadere in un certo modo, facendo leva su alcune parti del corpo più protette, e limitando al minimo i danni; anche qui, non parliamo di cose fantascientifiche: nel motociclismo avviene da anni e funziona (a velocità enormemente superiori, tra l'altro).

Quel che è mancato fin qui è la volontà di approfondire certi discorsi, mentre ha avuto sempre la meglio una certa dose di superficialità adagiata su un fatalismo di maniera: alcuni se la svignano dal cuore del problema dicendo che nel ciclismo si è sempre caduti e che questo è un elemento inevitabile di questo sport; vero, ma noi dobbiamo lavorare nel senso di rendere meno pericolose le cadute stesse, non di impedirle tout-court. (Abbiamo mai avuto degli studi che ci dicessero di quanto cala l'incidenza di fratture in presenza di determinate protezioni sul corpo?). Altri affermano che i corridori non indosserebbero tali protezioni, ma il nostro punto di vista è che - come si sono abituati a mettere il casco, o a cingersi il torace con cinghiette per cardiofrequenzimetri o fili di radioline - si abituerebbero all'"armatura" (o quel che sarebbe).

Ora è il momento di insistere, di essere presenti e di continuare a sensibilizzare il pubblico e (forse soprattutto) gli addetti ai lavori. La riunione di sabato a Prato ha già prodotto una risposta del presidente Di Rocco, che si è detto disponibile a prendere in esame le eventuali proposte a patto che siano «reali, perseguibili e possibili da porre in essere». Una risposta che rischia di essere labile, perché vuol dire che il numero uno della FCI potrà anche considerare non reali, perseguibili e possibili da porre in essere determinate proposte che gli verranno avanzate.

Ecco, l'obiettivo primario è far capire a Di Rocco (e ai suoi colleghi dirigenti del ciclismo) la realizzabilità di tali progetti, e spingere affinché l'attenzione sul tema non si smorzi, per tornare poi alta alla prossima tragedia. Da parte nostra possiamo garantire che Cicloweb.it, per quanto nelle sue possibilità, farà di tutto per affiancare e sostenere questa campagna.

Marco Grassi

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