Sanzioni hard, risultati light - Parla la sociologa Raffaella Sette
Versione stampabileLa seconda puntata della nostra inchiesta sulla possibile introduzione (e utilità) della radiazione (e - in subordine - sul ruolo dell'ACCPI e dei vari sindacati ciclistici) ci porta a cercare di capire se e quanto la massima asprezza della pena può fungere davvero da deterrente. Il parallelo più immediato e (lo ammettiamo) più facile è quello con la pena di morte: anni, decenni, secoli di applicazione (e disapplicazione) di questa terribile sanzione non sono serviti a dirimere del tutto la questione. Ma i grafici che pubblichiamo qui di seguito qualche dubbio sulla correlazione tra applicazione della pena di morte e sua effettiva utilità a disincentivare il crimine ce lo pongono: i flussi di omicidi e morti violente paiono presentano similitudini in paesi che applicano la pena di morte e paesi che non la applicano; e pare anche indipendente da ciò il numero di morti violente in vari paesi che prevedono o meno tale pena.
Andamento delle morti per omicidio in due stati che applicano la pena di morte (Stati Uniti e Giappone) e in due che non la applicano (Gran Bretagna e Italia) dal 1979 al 2002. Dati World Health Organization
Morti violente per 100mila abitanti nel 2000 in paesi che applicano la pena di morte (in rosso) e paesi che non la applicano (in blu). Dati World Health Organization
A quanto si vede, non c'è una correlazione diretta tra pena capitale e diminuzione (o bassi livelli) di omicidi o crimini violenti contro le persone. Partiamo da questo spunto per focalizzare poi l'attenzione sul nostro "orticello". E ci aiuta a farlo la professoressa Raffaella Sette, docente di sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale presso l'Università di Bologna.
«La certezza sul tema non c'è. Ma la maggioranza degli studi condotti fin qui confermano che una pena durissima non esercita quella funzione deterrente che il senso comune vorrebbe avesse. Riguardo alla pena di morte, poi, sin dai tempi di Cesare Beccaria - e parliamo quindi del '700 - sappiamo che è contraria al contratto sociale: in sintesi, i cittadini, al momento di stipulare tale contratto ideale con gli altri cittadini (e quindi lo stato), non mettono in mano allo stato stesso la loro vita».
Così come i ciclisti non mettono in mano ai loro dirigenti la loro carriera, in teoria.
«Per fortuna ciclismo e pena di morte sono su piani lontani».
Ma nel ciclismo c'è chi propone l'introduzione della radiazione alla prima positività, ovvero la pena massima applicabile: non è possibile un parallelo?
«Io farei piuttosto riferimento a Robert Merton e alla sua teoria sull'anomia: in questo caso il raggiungimento della meta prefissa e prevista viene considerato grandemente più importante del fatto di ottenere con mezzi leciti quel tale risultato».
E inasprire le pene non riequilibrerebbe le cose, limitando negli individui la motivazione a usare mezzi illeciti?
«Non proprio. Sarebbe molto più importante agire a monte; più che una sanzione più severa, servirebbe ridurre la sopravvalutazione dell'importanza dell'obiettivo da raggiungere, e ciò implicherebbe ovviamente un impegno di tutte le parti coinvolte nel ciclismo. Oppure si dovrebbe aumentare la valenza del raggiungere quell'obiettivo con mezzi leciti. Insomma, si dovrebbe parlare di etica, di prevenzione».
Così però non si raggiungono risultati nell'immediato, che è ciò che in qualche misura serve al ciclismo. E si finisce col battere le stesse vie, a pagare sono sempre e solo i corridori, e in sostanza le cose non migliorano.
«Il ciclista è la parte più visibile, ma non si può ignorare tutto quel che gli ruota intorno. Nella sottocultura ciclistica (sia detto non in senso dispregiativo, ma in quello di "mondo diverso dalla cultura dominante") la sopravvalutazione della meta culturale (il successo sportivo, in questo caso) viene dall'ambiente. Perché punire solo il corridore? Lui si limita (parlo in una prospettiva sociologica) a trovare l'adattamento più comodo da usare in quella determinata sottocultura, non è quindi più responsabile di tutti quanti concorrono a tenere in piedi tale subcultura».
Anomia
[Concetto che Robert Merton mutuò da una precedente teoria di Emil Durkheim (uno dei padri della sociologia) e che riferì] alla tensione cui è sottoposto il comportamento individuale quando le norme accettate dal soggetto entrano in conflitto con la realtà sociale. Nella società americana - e in una certa misura in altre società industrializzate - i valori generalmente accettati enfatizzano il «farsi strada», il «fare soldi» e così via: in poche parole il successo materiale. Si suppone che il raggiungimento di tali obiettivi passi attraverso l'autodisciplina e il duro lavoro. Secondo questa convinzione, chi lavora veramente sodo può avere successo indipendentemente dal suo punto di partenza nella vita. In realtà non è così, perché la maggior parte di coloro che partono svantaggiati ha possibilità di avanzamento molto limitate. Quelli che non «riescono», però, si vedono condannati per l'apparente incapacità di ottenere successi materiali. In questa situazione sono forti le pressioni che spingono a «farsi strada» in ogni modo, legittimo o illegittimo che sia.
Merton ha identificato cinque possibili risposte alle tensioni tra gli scopi socialmente accettati e la limitatezza dei mezzi disponibili per raggiungerli.
I conformisti accettano sia i valori socialmente riconosciuti che i modi convenzionali per realizzarli, indipendentemente dal successo ottenuto. La maggior parte della gente rientra in questa categoria.
Gli innovatori sono quelli che continuano ad accettare i valori socialmente approvati ma nel perseguirli ricorrono a metodi illegittimi. I criminali orientati a conquistare la ricchezza attraverso attività illegali esemplificano questo tipo di risposta.
Il ritualismo è caratteristico di coloro che non cessano di conformarsi alle pratiche socialmente accettate sebbene abbiano perso di vista i valori che originariamente le ispiravano. Le regole vengono seguite solo in quanto tali, in modo coercitivo, senza scorgere in prospettiva uno scopo più ampio. Ritualista è colui che si dedica a un lavoro noioso, anche se offre poche ricompense e nessuna prospettiva di carriera.
I rinunciatari sono persone che hanno abbandonato del tutto l'ottica competitiva e rifiutano perciò sia i valori dominanti che i mezzi approvati per la loro realizzazione. Un esempio di questa situazione potrebbe essere dato dai membri di una comune autosufficiente.
La ribellione, infine, è la reazione di quegli individui che rifiutano sia i valori esistenti che i mezzi prescritti per realizzarli, ma ambiscono attivamente a sostituirli con altri e a ricostruire il sistema sociale. I membri dei gruppi politici radicali rientrano in quest'ultima categoria.
(Tratto da Anthony Giddens, Sociologia, Il Mulino, 1995 [ed. or. 1989])