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Senza via d'uscita - Basso, il Coni, una squallida farsa

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Per piacere nessuno parli di coraggio. I coraggiosi sono altri, e invece Ivan Basso è solo un figlio del suo tempo e del suo mondo. E come tale non va nemmeno condannato, il 98% delle persone che si fossero trovate nella sua condizione si sarebbero comportate esattamente come lui. Per non piegarsi bisognava essere Marco Pantani, ma Marco Pantani è finito male, e nessuno potrebbe umanamente augurare a Ivan un percorso simile a quello del Pirata. Il Pirata, vittima di un ideale (esattamente sì, vittima di un ideale, l'ultimo Giordano Bruno del nostro disgraziato paese), è irripetibile in un ciclismo che si è mitridatizzato proprio in seguito alla vicenda del più grande corridore dei tempi moderni.
Questi qui di grande hanno il conto in banca, di sicuro, e sicuramente mille altre doti, che gli abbiamo sempre riconosciuto. Non la grandezza. Sono esserini fallibili, ricattabili da chiunque un giorno si alzi e decida che la campana sta suonando per loro. Basso come chiunque altro si fosse trovato nella sua condizione. Ma non parliamo di coraggio, per piacere. Citiamo per la millesima volta Steinbeck? "Non ci vuole coraggio per fare ciò a cui si è obbligati". Punto.
Basso ci ha provato in tutti i modi, a scamparla. Ha dapprima fatto il vago, poi ha negato fino all'inverosimile, poi (tramite il suo avvocato) ha cavillato cercando appigli giuridici per invalidare le indagini del Coni, e solo alla fine della fiera, quando era ormai palese il suo coinvolgimento (ma soprattutto era palese che non ne sarebbe venuto fuori con le sue gambe), solo alla fine ha ammesso. Si è recato dai suoi inquisitori, ha vuotato il sacco e si è tolto finalmente un peso dalla coscienza. Applausi.
Applausi, sì, ma non quelli spontanei; qui gli applausi sono televisivi, sono quelli chiamati da un segnale al neon, a cui l'addomesticato pubblico in sala risponde con tutto l'entusiasmo possibile. Quel pubblico in sala che, assistendo live a uno show catodico, ne carpisce i segreti, i misteri, i dietro le quinte, e quindi le miserie, le mistificazioni, le scenette e la loro architettura, e capisce finalmente che quel che in tv sembra vero non lo è, è solo costruito, artefatto, finto, verosimile ma terribilmente finto. E poi, però, quando torna a casa, davanti alla tv ci si mette ancora, a guardare cose che già sa essere finte, ma con lo spirito di sempre, fingendo siano vere.
Esattamente quello che avviene in queste ore. Basso ha confessato, e il Coni finge di credere che l'errore del corridore sia solo e soltanto un "tentato doping", figlio del più classico momento di debolezza. Anzi, il buon Petrucci stabilisce che se Ivan continua così, sarà veramente il paladino della lotta al doping. E la farsetta continuerà, Basso avrà capito il suo errore, si sarà reso conto che il suo esempio è importante per i giovani, e che non cadrà più in tentazione. Potremmo metterci la firma, questo è quel che sentiremo prossimamente. Un copione scontato che pare venire direttamente dai film di Bruckheimer, quelli di cui minuto per minuto anticipi le battute, sempre quelle, sempre malinconicamente rarefatte di significati.
Basso si dopava, o forse no, forse ci ha solo pensato. L'importante è che ora abbia capito che così non si fa, ma soprattutto l'importante è che ora non sgarri più. No, che andate a pensare: il "non sgarri più" non si riferisce al non doparsi, ma al non uscire più dal ruolo, da oggi in avanti. Buoni sentimenti a piene mani, miele che colerà a chili, tanta comprensione per il ragazzo dalla faccia pulita. E in effetti la sua faccia è pulita; sono i giochi che si stanno giocando intorno alla sua figura ad essere enormemente sporchi.
"Quella voglia di tendergli la mano" noi non ce l'abbiamo. Gliel'abbiamo tesa in tutti questi mesi, la mano, mentre altri si nascondevano; ora che questi altri sorgono dal loro letto di ipocrisia per tendergliela, noi ci facciamo da parte e lasciamo il proscenio (oddio, la voglia sarebbe di tendere la mano verso chi scrive certe cose, tendergliela anche con una certa violenza) ai Fanini e ai Cannavò, ovvero ai campioni dell'antidoping.
Ci facciamo da parte e lasciamo che chi non ha voluto capire fino a oggi, continui a illudersi nella certezza di un Eden che mai è stato e mai sarà. Contenti loro, contenti tutti.
Quel che sappiamo, è che ancora una volta hanno avuto ragione "loro". Loro, quelli che fanno sì che ancora una volta, qui e ora, a 4 giorni dal Giro, noi tutti si stia parlando di tutt'altro che del Giro. Si parla di doping, come sempre, come da 10 anni abbondanti. Si parla di "lotta al doping", e invece siamo sempre punto e daccapo, contro il doping non si lotta se non a parole, le centrali del doping non vengono sfiorate se non dopo che si muove la magistratura; e intanto gli struzzi trovano sempre spazio nella calda sabbia quasi-estiva, per infilarci le proprie teste, per continuare a fingere che tutto vada come deve andare, che si pongano degli argini al doping, che gli altri sport non siano nemmeno parzialmente toccati dal problema, che noi, noi del ciclismo siamo sempre quelli che devono stare un passo avanti agli altri.
È questo quello che volete? Lo avrete. In generale, visti i chiari di luna, lo avrete. Non da noi, però. Continuiamo a fare gli aventiniani, a non crederci, a sottolineare tre volte in rosso le storture di tutto ciò. Basso tornerà a correre, bene, buon per lui; ma il ciclismo oggi ha perso un altro pezzetto di credibilità. I dirigenti se ne accorgeranno mai? Dubbio profondo. Siamo qui, senza via d'uscita, come quel maledetto cane che si morde sempre la coda. Siamo qui a celebrare l'ennesimo funerale del ciclismo, che risorge da se stesso ma sempre più povero. Finché non rimarrà altro che polvere.

Marco Grassi

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