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È una bella giornata - Basso prosciolto: e ora cambiamo

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Non si chiama Josef K., come il protagonista del celebre Processo kafkiano; ma anche Ivan Basso ha vissuto, negli ultimi mesi, un'assurda vicenda giudiziaria. Coinvolto con scarse prove nell'indagine spagnola denominata Operación Puerto, che lo metteva in relazione col ginecologo di professione (e dopatore per hobby e per lucro) Eufemiano Fuentes, il vincitore dell'ultimo Giro d'Italia era stato sospeso dalla sua squadra, la Csc, nell'immediata vigilia del Tour de France (che Ivan avrebbe corso da favorito numero uno).
Da quel malinconico inizio di luglio a oggi, 105 giorni di sospensione attraversati dal sospetto (ineliminabile) che Basso abbia comunque avuto a che fare con Fuentes (o che perlomeno ci abbia avuto a che fare Cecchini, ex preparatore del varesino), ma anche dalla certezza che tutti i diritti civili del corridore (e dei suoi colleghi, da Ullrich a Mancebo a tanti altri) siano stati calpestati, in nome di un giustizialismo che colpisce solo e soltanto il ciclismo: perché non si può dimenticare che 200 atleti e forse più erano coinvolti nell'inchiesta, e di questi solo una cinquantina erano ciclisti, che però sono stati gli unici buttati in pasto a media e appassionati, mentre su calciatori, tennisti, pugili, atleti, piloti di Formula 1, nulla è trapelato.
Negli ultimi giorni, decisivo l'intervento del procuratore spagnolo, che ha ammonito gli organi della giustizia sportiva: i ciclisti coinvolti non sono imputabili nel processo, quindi ci vuole cautela. E la Procura Antidoping del Coni oggi ha archiviato il caso di Basso, pur riservandosi di riaprirlo se emergeranno nuovi elementi. Così Ivan, che nel frattempo si è sempre allenato (e che può ringraziare anche l'appoggio, mai venuto meno, della Federciclismo e del presidente Di Rocco), potrebbe in teoria correre sabato il Giro di Lombardia. Rientrare all'ultima gara dell'anno: saprebbe di beffa, ma anche di nuovo inizio.
Ma il nuovo inizio è quello che deve interessare il ciclismo tutto. Questo sport ha in sè la forza per ripartire, si è rialzato dopo scandali immani, perché il fascino esercitato dalla strada e dalle biciclette è troppo superiore alle transitorie vicende del momento.
Purtroppo siamo di fronte a un tutti contro tutti, dirigenti contro organizzatori, organizzatori contro squadre, squadre contro corridori. Questo è il ciclismo voluto dai Verbruggen (e dai prestanome McQuaid), dai Leblanc, dai Saiz, da quelli che stanno cercando in tutti i modi (continuano!) di affossare oltre 100 anni di storia e che si rivelano incapaci di risolvere i problemi, ma ne creano solo degli altri.
Il ciclismo per noi appassionati è come un figlio, ed è quindi facile capire quanto abbiamo sofferto e quanto soffriamo a vederlo in difficoltà. Ma se un figlio ha dei problemi, non glieli risolvi amputandogli un dito, o un braccio o una gamba. Non li risolvi, nella fattispecie, mazziando questo o quel campione, in una situazione in cui il più pulito del gruppo potrebbe tranquillamente essere incriminato per favoreggiamento.
No, il sistema ciclismo, questo sistema malaticcio, non ha bisogno di punizioni esemplari, abbiamo già capito che non servono a niente, Pantani l'abbiamo addirittura condannato a morte, e malgrado ciò il doping ha prosperato e prospera. Serve una politica di riduzione del danno, fattibile e condivisa da tutte le parti. In altri termini, serve porsi obiettivi realistici e perseguire quelli, ovvero il massimo perseguibile, e poi si vedrà, un passo per volta; al contrario, porsi mete irrealizzabili è una perdita di tempo, ma non solo, è anche una fonte di ingiustizie, come abbiamo visto in questi mesi.
Ci piacerebbe che Basso ora chiedesse all'Uci una valanga di soldi come risarcimento materiale e soprattutto morale per quello che ha passato. E vedremmo se poi l'Unione Internazionale, alla prossima occasione, avrebbe il coraggio di comportarsi nella vergognosa maniera di questa volta. Ma Ivan non lo farà. Non lo farà perché il ciclismo di oggi è figlio di una gestione poco trasparente da parte della stessa Uci, che di fatto è in una posizione ricattatoria e vessatoria nei confronti degli atleti: è matrigna, li sostiene quando le conviene, cioè finché non si addensano nubi (di cui lei sa tutto in anticipo) sul loro capo, quindi li scarica. E Ivan non chiederà il risarcimento anche perché sarebbe comunque solo contro il movimento, e questo avviene per un'endemica debolezza delle associazioni dei corridori.
Ancora oggi c'era qualche celebrato genio giornalistico che chiedeva a Bennati se non gli dispiacesse che la risoluzione della vicenda Basso togliesse spazio alla sua vittoria nel Giro del Piemonte (vittoria di cui parliamo
in questo articolo del nostro inviato), alimentando così stupidissime invidie tra colleghi, quando invece sarebbe necessario remare (meglio: pedalare) tutti nella stessa direzione. Lo spieghiamo noi a Daniele che Basso non gli ha tolto spazio, semmai gliene ha dato, perché domani in tanti compreranno il giornale (e altrimenti non l'avrebbero fatto) per leggere di Ivan, e nella stessa pagina (pazienza se in un articolo più piccolo) leggeranno del successo di Bennati, di cui non sarebbero venuti in altro modo a conoscenza.
I corridori devono capire che le guide del movimento, i Basso, i Bettini, i Cunego, i Boonen, i Di Luca, devono essere difesi e non avversati, perché sono una ricchezza per tutti, attraggono interesse, sponsor, e quindi dindi, che sono quelli che paiono importare sopra ogni cosa.
Se le associazioni di categoria non sono riuscite a far passare nemmeno questo concetto, è bene che vengano riformate. A casa Amedeo Colombo, che in qualità di importatore di Shimano non può certo contrariare le squadre che si servono delle sue attrezzature, o gli organizzatori, o la dirigenza internazionale, quindi figurarsi quanta passione metta nel difendere i corridori.
I corridori l'hanno scelto come presidente dell'ACCPI solo perché sono convinti che quell'associazione non serva a niente. E infatti non serve a niente: le conquiste fatte dalla categoria sono giunte per altre vie. Il comunicato emesso ieri dall'associazione, poi, è realmente risibile: si chiede, Colombo, chi risarcirà ora Ivan per il danno subìto. Ma come, se lo chiede pure? Non è capace di rispondersi da solo? Non sa con chi deve prendersela? O si limita a fingere di non dover guardare ad Aigle, sede dell'Uci? Risponda piuttosto a questo: cosa ha fatto l'ACCPI in questi mesi per salvaguardare l'immagine di Basso e del ciclismo? Cosa pensa di fare, in concreto, a questo punto? Risposta facile: NIENTE.
A casa anche Francesco Moser: guida il sindacato europeo, ma la cosa più sensata che è riuscito a dire in questi mesi turbolenti è stata un'invocazione al doping libero, che se da una parte ha il merito di aver dato voce a una parte (consistente?) del gruppo, dall'altra è inaccettabile da uno che occupa quel posto nel ciclismo (e nella sua storia).
Riusciamo a far funzionare questi benedetti sindacati? Dobbiamo riuscirci, è un passaggio chiave nel mutamento del ciclismo verso più lindi lidi. Occorre compattezza da parte dei corridori, perché oggi come oggi sono schiacciati da interessi più grandi di loro, e in alcuni casi vengono stritolati. E solo raggiungendo una parità di dignità con le altre parti, con l'Uci, con gli organizzatori, con le squadre, potranno mettere in tavola regole giuste. Che facciamo, ci crediamo?

Marco Grassi

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