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Ci risiamo: Vacansoleil sciocca a tesserare Riccò - McQuaid ne spara un'altra delle sue

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Pat McQuaid © BettiniphotoSanto cielo, ci risiamo.

L'altro giorno, all'uscita della notizia che Pat McQuaid prevede un futuro accorciamento di Giro e Vuelta, avevamo pietosamente evitato di commentare, tanto evidente era la natura di boutade di tale affermazione.

Dalla stessa intervista rilasciata dal presidente dell'UCI all'Équipe, però, emergono (riprese da VeloNation) anche altre interessanti dichiarazioni del numero uno del ciclismo mondiale. E una di queste ha una puzza che avevamo già sentito in passato, quando altre volte l'irlandese che non perde mai smalto (né malto) aveva avuto la gentilezza di citare in un certo modo questo o quel corridore.

Corridori che poi puntualmente finivano nelle spire dell'antidoping (Rasmussen e Vinokourov, ad esempio), confermando quanto McQuaid sia dotato di una straordinaria capacità di preveggenza; o, per stare coi dietrologi, quanto il buon vecchio Pat sappia di tutto di più su certi argomenti.

Stavolta è il turno di Riccò essere evocato dai pensieri a voce alta del presidente UCI: «I manager della Vacansoleil sono stati ingenui a ingaggiare Riccò, se io fossi un direttore sportivo, lui non farebbe mai parte della mia squadra». Alla faccia della natura super partes delle istituzioni!

In pratica, un marchio d'infamia che il gran capo del ciclismo appone in maniera indelebile su un corridore che si è dopato, è stato squalificato, ed ora, una volta pagato il fio, dovrebbe poter svolgere il suo lavoro in tranquillità, stanti le attuali regole (di cui McQuaid dovrebbe essere garante a tutti i livelli, anziché esprimere pareri in netto contrasto con le stesse regole).

Uno scatto di Riccardo Riccò © BettiniphotoInvece no, Riccò resta un baro nell'immaginario dell'uomo che - bontà sua - riesce pure a capire che c'è una differenza di livelli tra le bubbole da bar e le dichiarazioni che teoricamente dovrebbe rendere un presidente: «Ho due reazioni. Una personale, e la reazione del presidente». La seconda, lo riconosce, è quella di chi «deve accettare il ritorno di chi ha barato», ma questa posizione si perde nei concetti baristici espressi in seguito: «Che cosa ha fatto un dopato per riparare i danni causati al ciclismo e agli sponsor? Mi irrita vedere i corridori che tornano con la voglia di guadagnare quanto guadagnavano prima di una squalifica».

E il ritorno sui team manager "ingenui": «Se gestissi una squadra, non lo permetterei: i manager devono compiere ogni sforzo per ridurre l'immagine negativa del nostro sport».

Il punto focale della questione è: Pat chiacchiera pour parler, o c'è della ciccia dietro al fumo delle sue considerazioni? È semplicemente fuori luogo (come spesso gli capita), palesando dal suo trono avversione nei confronti di un corridore, oppure sa qualcosa che noi (ancora) non sappiamo? Per quanto siano fastidiose, preferiamo che si tratti di chiacchiere, appunto, e che non si profili invece un nuovo capitolo dello stucchevole romanzo del ciclodoping.

Non abbiamo alcun motivo di dubitare di Riccò (non più che di chiunque altro), ma se McQuaid sa qualcosa, parli chiaramente, anziché lanciare avvertimenti di stampo mafiosetto (non fu lui a dire che era un atteggiamento tipico delle culture latine? La prima gallina che canta ha fatto l'uovo, verrebbe da dire...). Oppure si astenga, per piacere.

Anche perché, stando a quanto risponde Daan Luijkx, general manager della Vacansoleil, il presidente UCI avrebbe avuto parecchie occasioni per esprimere i suoi dubbi al team (visti i numerosi incontri in seguito alla richiesta, da parte della squadra olandese, della licenza Pro Tour). Eppure «mai, neanche una volta il nome di Riccò è stato fatto da McQuaid».

C'è da capirlo, il presidentissimo, tutto preso nella lotta al doping («Vogliamo pene più severe, mi piacerebbe la radiazione ma ci sarebbero troppi problemi legali; ma almeno 4 anni di squalifica per chi prende EPO, che è un doping più serio rispetto a quello basato su prodotti più leggeri, come il Ventolin, per i quali potrebbero bastare 6 o 9 mesi di sospensione») e nel sogno di internazionalizzare il ciclismo (verso i mercati di Nord America e Oceania: «Il futuro del ciclismo è lì, è evidente») a scapito delle corse storiche (la già citata proposta di accorciare Giro e Vuelta); troppo distratto dal tintinnar di monete (ce ne vogliono tante, per una licenza Pro Tour) per ricordarsi di ammonire il Luijkx della situazione.

Meglio rinviare le considerazioni scomode a un'intervista prenatalizia. Ma se McQuaid tenesse veramente alla trasparenza del ciclismo e della lotta al doping di cui l'UCI mena gran vanto, dovrebbe anche evitare di fare spallucce quando qualcuno gli ricorda la posizione di suo figlio Andrew, che con la società Azzurri Sports Management cura gli interessi di una ventina di professionisti. Un conflitto d'interessi sesquipedale avvelena i piani alti di Aigle, perché nessuno ci toglierà mai di mente il sospetto che Pat possa approfittare della sua posizione per favorire in qualche modo gli atleti di cui il figlio è procuratore (tra gli altri, anche diverse grandi promesse di quel ciclismo anglosassone che per McQuaid senior è la terra promessa di questo sport). Una situazione che sarà il caso di approfondire quanto prima.

Marco Grassi

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