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Riforma UCI World Tour: Da squadre a franchigie - Il modello USA applicato al ciclismo?

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È possibile applicare al ciclismo il modello degli sport USA?  © Brian Hodes - Facebook Tour of California

Il Consiglio del Ciclismo Professionistico dell'UCI s'è riunito in Svizzera a Montreux e tra martedì e ieri ha di fatto dato il via ufficiale al processo di riforma del World Tour (ma non solo) che avevamo provato a spiegare alcuni giorni fa in questo articolo. Rispetto alla bozza iniziale uscita in inverno c'era stata qualche piccola modifica ma è chiaro che la partecipazione a tutte le corse di maggior prestigio, grandi giri in primis, sarà una faccenda limitata alle 24 squadre di 1a Divisione A e B: tutte le altre al massimo potrebbero aspirare ad in invito a qualche grande classica di un giorno, ma aspettiamo di vedere tutti i dettagli nel nuovo regolamento per vedere se qualcosa è cambiato anche qui.

Come già avvenuto nel 2005 con l'avvento dell'allora ProTour, non è stato pensato ad un sistema di promozioni e retrocessioni tra 1a e 2a Divisione ma solamente all'interno della prima andando quindi a creare una sorta di sistema chiuso a 24 squadre: difficile dire se si tratti di un allargamento rispetto alle 18 World Tour attuali o una riduzione dalle 35 che adesso formano le prime due categorie in ordine di importanza. È proprio sulle squadre che vogliamo concentrarci oggi perché e lì sono che i nostri dubbi maggiori in vista di questa riforma: perché se è vero che negli anni abbiamo criticato spesso e volentieri il ProTour, poi World Tour, è anche vero che molti dei concetti su cui si basava la rivoluzione del 2005 sono presenti anche adesso.

A distanza di 10 anni come possiamo pensare che qualcosa cambi davvero in meglio? All'orizzonte si vedono piccoli segni di una svolta che vada a cambiare radicalmente il concetto e la struttura attuale dei team: pensiamo ad esempio al gran parlare che s'è fatto e che si continua a fare sul far partecipare anche le squadre alla divisione dei diritti televisivi. La direzione che si vuole prendere è probabilmente quello del superamento delle squadre legate esclusivamente agli sponsor e quindi con una loro maggiore identità: se mettiamo assieme quindi una categoria d'élite chiusa e la ricerca di entrate sempre più diversificate, allora non si può che pensare subito ad un modello di sport come quelli americani, tipo NBA, NFL o NHL, in cui le squadre sono sempre le stesse senza promozioni o retrocessioni.

Ecco quindi che il ciclismo potrebbe andare verso l'adozione delle "franchigie" per creare delle società con un loro business, una gestione completamente differente, con sponsor non più in grado di decidere le sorti di una squadra specie se i risultati sportivi non dovessero essere quelli sperati. Ma il ciclismo, sport sempre più globale ma comunque prevalentemente europeo e con la maggior parte dei tifosi che arriva proprio dal vecchio continente, può rompere così con la sua lunga tradizione e adottare un sistema di organizzazione dello sport presente quasi esclusivamente oltreoceano? La risposta molto probabilmente è no perché servirebbe un netto cambio dei regolamenti e soprattutto di mentalità sia di chi manda avanti tutto il carrozzone, sia del pubblico esterno. Proviamo però a capire come sarebbero le squadre ciclistiche organizzate all'americana.

Per prima cosa bisogna dire che le franchigie "Made in USA" non sono altro che delle società che portano avanti il loro business ed i loro interessi economici attraverso una squadra professionistica: l'ambito sportivo vero e proprio è quindi solo uno dei tanti aspetti tramite i quali si cerca di ottenere un guadagno. Un ciclismo a 24 franchigie avrebbe quindi 24 proprietari a caccia di profitti: non solo personaggi come Andy Rhys, Oleg Tinkov o Zdenek Bakala, ma anche uomini d'affari senza necessariamente una passione per il ciclismo ma che si buttano comunque nel mondo delle due ruote. Non dipendendo più esclusivamente dagli sponsor principali ogni squadra sarebbe quindi ben identificabile nel tempo dai tifosi senza che questi debbano riaggiornarsi ogni inverno tra cambi di nomi e di colori.

L'obiezione che si può fare facilmente è che il ciclismo è sì uno sport di squadra ma in cui alla fine vince il singolo e che quindi gli appassionati seguirebbero sempre le imprese del proprio beniamino senza badare troppo ai compagni: tutto giusto ma un team può trarre guadagno gestendo bene tutti gli aspetti dei propri campioni, per fare un esempio americano pensiamo a quante magliette dei Chicago Bulls sono state vendute in tutto il mondo negli anni '90 solo perché lì giocava Michael Jordan, numeri non magari non avvicinabili ma comunque utili per farsi un'idea. Per migliorare gli aspetti del marketing si potrebbero tirare fuori tante idee o iniziative, vedi ad esempio il ciclista americano Peter Stetina che tempo fa aveva proposto l'uso di numeri fissi per ogni corridore nell'arco della stagione o addirittura della carriera: il merchandising ci andrebbe a nozze. Quando parliamo di cambio di mentalità difficile, però, ci riferiamo a soprattutto a questo visto che i tifosi sono stati abituati storicamente ad avere tanto ciclismo praticamente gratis: biglietti per assistere alle gare non se ne pagano e la televisione pubblica ha sempre trasmesso un gran numero di corse, si può quindi puntare a fare un business? Forse dipende da ciò che si offre in cambio.

Tornando alle squadre la gestione sarebbe profondamente rinnovata e, seguendo quella che è la tendenza attuale nel World Tour, tutte le squadre sarebbero sempre più professionalizzate: non più ex corridori che si improvvisano manager (però c'è anche chi sceso dalla bici s'è messo a studiare questi aspetti quindi ben vengano questi esempi), ma direttori sportivi che fanno solo i direttori sportivi e una presenza sempre più consolidata di figure che si possano occupare di tutti gli aspetti di immagine e di contorno. L'ultima domanda a cui dare una risposta è come si farebbe ad entrare se le squadre sono sempre le stesse 24: semplice, si bussa alla porta di uno dei vari proprietari e si fa una bella offerta per convincerlo a vendere ed il gioco è fatto. Per gli sponsor invece ci sarebbe solo l'imbarazzo della scelta tra 24 team con calendari certi ed una grande visibilità.

L'esempio degli sport americani poi ci insegna anche una categoria élite chiusa non finisce con l'azzerare tutto il resto che sta sotto, pure con l'aiuto di squadre satelline. In poche parole la riforma può essere una grande occasione per tanti cambiamenti che portino ad un ciclismo più ricco, più organizzato, più visibile e magari anche più adatto alle esigenze del tifoso: onestamente lo scenario che abbiamo prospettato è di difficile attuazione ma se si dovesse finire verso un "ciclismo americano", magari solo per alcuni aspetti, allora è meglio conoscere quello che ci aspetta e non farsi trovare impreparati.

Sebastiano Cipriani

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