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L'inchiesta: Continental, riforma a metà - Ma il dilettantismo non è il male assoluto

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Un gruppo di ciclisti delle Continental "vecchio stampo" © www.valloweb.comIl tema delle nuove Continental di matrice italiana ha acceso le discussioni di questo inverno ciclistico. Sono molti gli elementi di novità per il nostro pedale, e dunque, inevitabilmente, anche gli elementi di perplessità. Ma prima di esprimere giudizi, occorre fare un passo indietro e ricostruire il percorso che ha portato la Federazione Ciclistica Italiana ad aprire le porte del circuito professionistico anche ai dilettanti.

Fino alla nascita del Pro Tour, le squadre italiane non erano granché interessate alla terza categoria: solo la Mapei Espoirs nel 2002 ed il Team ICET nel 2004 si registrarono come TT3. La rivoluzione del calendario creò le condizioni per le quali anche per un team italiano diventava sensato registrarsi in categoria Continental. L'UCI lasciò molta libertà a questa categoria, permettendo essenzialmente alle singole federazioni nazionali di decidere le regole d'ingaggio, con giusto qualche piccola regola valida per tutti fissata nel corso degli anni (limite massimo di 16 atleti, metà degli atleti sotto i 28 anni, nazionalità del team stabilita dal maggior numero di atleti della stessa nazione). L'Italia, vincolata ad una scelta netta a differenza degli altri paesi per via della legge 91, optò per il professionismo, altri paesi (Belgio, Olanda, Germania) aprirono anche ai dilettanti, confondendo le basi sulle quali si fondava il concetto di professionismo: accadeva dunque che giovani di spicco come Froome, Sagan, Cavendish, Quintana, Porte, Mollema, Tony Martin, Van Avermaet, Boasson Hagen, Degenkolb si affacciavano a questa dimensione intermedia, prima di diventare professionisti a tutti gli effetti.

E in Italia?

Il rapporto della FCI con le Continental non è mai stato idilliaco. Il presidente Di Rocco non ha mai nascosto una scarsa tolleranza del fenomeno, ben giustificata dai dissesti finanziari che portava in eredità chi gestiva queste squadre: lo stop a luglio per l'Aurum Hotels, nel 2007, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nel 2008 la FCI decise di non riconoscere lo status Continental, tant'è che alcuni soggetti si affiliarono a San Marino, come la Miche-Silver Cross. L'anno dopo l'UCI impose regole più restrittive sulla nazionalità dei team: il risultato fu che la stessa Miche tesserò 6 amatori sanmarinesi (nonostante l'UCI avesse costretto la FCI a sciogliere il blocco). La definitiva rottura della FCI avvenne nel 2012, quando su 3 squadre registrate dall'UCI, due furono bloccate in partenza (WIT e Miche) per irregolarità finanziarie in fase di registrazione; l'altra, il Team Idea, completò regolarmente la sua stagione, ma chiuse col professionismo sbattendo rumorosamente la porta. A fronte di un tale smacco, la FCI gettò la spugna: professionismo e Continental almeno in Italia, risultavano incompatibili.

Sotto questa ottica, la volontà di creare un cuscinetto, un "dilettantismo d'eccellenza", trova piena legittimazione. 

Passiamo dunque a dare un'occhiata a cosa è stato, e come è stato valutato, il dilettantismo italiano negli ultimi 10 anni. Mentre il resto del mondo assorbiva adeguatamente il fenomeno, l'Italia si chiudeva nella sua autarchia. Il miscuglio dei professionisti delle Professional con 19enni al primo anno non era ben visto, nè dagli appassionati, nè dai top team dilettantistici, e la regola dei 5 team stranieri da invitare nelle corse di categoria .2 creava (e crea tutt'oggi) qualche grattacapo agli organizzatori meno ricchi, che spesso han scelto, anche per questa ragione, di regredire allo status di corsa nazionale. Nel 2005 avevamo 43 corse open sul calendario internazionale; nel 2013 sono state appena 19. Le altre sono sparite o regredite. Lo stesso calendario nazionale e regionale ha perso pezzi, arrivando anch'esso a dimezzare i suoi numeri. Il risultato è che gli squadroni dilettantistici, benché ridimensionati rispetto a un tempo, si ritrovano a banchettare sui resti di un calendario scheletrico, che prevede poca osmosi col resto del mondo (il quale vive invece, anche nei paesi storici, un momento di alta internazionalizzazione), lasciando le briciole alle piccole squadre, con sponsor, direttori sportivi e soprattutto atleti che trovano pochi stimoli nel combattere contro Zalf e Trevigiani di turno; dall'altra parte, i corridori dei team più forti crescono oltremodo coccolati, potendo usufruire della superiorità della propria squadra. Le 59 vittorie stagionali della Zalf di quest'anno, record senza precedenti, lasciano poco spazio all'immaginazione: in certe gare venete la parola "competizione" risulta un eufemismo.

Anche sotto quest'ottica, appare evidente che per certe squadre la categoria dilettantistica sia un tantino stretta, e la loro presenza sia ingombrante per le altre. Anche qui, a fronte di tali squlibri, il "dilettantismo d'eccellenza" trova una sua legittimazione. Qualcuno potrebbe dire "ma paesi come la Francia, non si sognano neanche di costruire team Continental di squadre dilettanti". Vero, e fanno bene, perchè la Francia è una paese che gode di un movimento in ottima salute: ha un numero più che doppio di tesserati e triplo di squadre giovanili. La Francia è avanti, la Francia ha una sua gerarchia già all'interno della categoria dilettanti in 3 divisioni: (anche) questo non permette che due squadre vincano il 40% delle gare su territorio nazionale, come è successo quest'anno con Zalf e Colpack. Pensare di poter essere come la Francia allo stato attuale è come pensare di essere una potenza industriale come la Germania pur avendo un debito privato tra i più alti d'Europa. 

Ma è davvero un dilettantismo d'eccellenza, ciò che vedremo nel 2014? Beh, stando a quanto visto finora, il risultato ottenuto è primitivo, e volendo essere propositivi va visto in un'ottica più prospettiva del 2014.  

Non si può dire certo che i 6 team che quest'anno saranno Continental rappresenteranno il gotha del dilettantismo italiano. Ci sono 2 team storici e affermati (Marchiol e Trevigiani), un team tutto nuovo dall'organico competitivo (Area Zero), una Continental rodata che però per via delle nuove regole ha di fatto integrato l'organico non trascendentale del suo team satellite (Ceramica Flaminia), una formazione discreta (Team Idea) e una più che modesta (Vega Prefabbricati). Mancano Zalf e Colpack, ma come annunciato da Luciano Rui in una recente intervista, se le cose vanno bene potrebbero rivedere i loro piani. Questo intendiamo, per ottica prospettiva.

È più che altro il regolamento a lasciare qualche perplessità. In alcune parti è stato scritto un po' alla francese, nel senso che per descriverlo bisognerebbe usare un francesismo degno del maestro Renè Ferretti. La più grande perplessità riguarda la parte delle pre-condizioni: chiedendo ai diretti interessati, siam riusciti a capire che per entrare nella categoria le squadre devono avere un organico tale che i migliori 8 corridori portino in dote almeno 100 punti di valorizzazione dalla stagione 2013. Per il resto, il regolamento si direbbe congegnato puntando verso un modellamento il più possibile similare a quel che sono attualmente i team dilettantistici italiani. Quest'approccio in certi punti poteva esser rivisto: ad esempio, il limite d'ingaggio di 2 soli tra gli juniores con più di 35 punti per i team dilettanti sta bene, perché evita che gli squadroni accalappino tutti i talenti, ma tra le Continental avrebbe più senso il limite opposto: non permettere il passaggio diretto a quegli juniores che non hanno dimostrato già un certo valore, e dunque non in grado di poter effettuare il "salto" della categoria under 23. Un talento come Lorenzo Rota potrebbe anche seguire con successo il percorso di Pozzato, ma per gli altri passare da corse juniores a corse professionistiche di 200 chilometri potrebbe significare fare il passo più lungo della gamba.

In buona sostanza, la riforma delle Continental in Italia è una cosa che andava fatta. Per come è stata proposta, è una resa totale della Federazione al dilettantismo: non lasciare la porta aperta almeno sulla carta al professionismo, nonostante le esperienze del passato, è un'ammissione del ridimensionamento del nostro movimento. Le perplessità più discusse riguardano soprattutto gli aspetti economici, ma non è detto che avere il professionismo a tutti i costi sia la migliore soluzione: abbiamo già dimostrato in una precedente intervista anonima che il minimo salariale non è l'unica tutela che un atleta necessita, e paradossalmente una società libera dal peso delle spese previdenziali potrebbe avere un progetto più solido e duraturo, ricordando, sempre e comunque, che stiamo parlando di dilettantismo. Un altro problema sarà trattare con l'assenza del passaporto biologico, che magari non sarebbe saggio imporre, incentivare sì (ad esempio garantendo per regolamento la partecipazione alle gare italiane). Al netto di questo, la presenza di 6 nuove squadre potrà dare ossigeno e vitalità ad un movimento in calo vistoso di numeri, che deve trovare in fretta un'identità, in vista di questa tanto attesa riforma (a quanto pare arriverà nel 2017) che potrebbe stravolgere il ciclismo come l'abbiamo conosciuto finora.

Nicola Stufano

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