Elezioni UCI: Il tracollo del World Tour e quello di Pat - McQuaid, ultimi disperati tentativi di un impero al tramonto
Versione stampabileOccorre ancora spiegare, a 10 giorni dall'elezione del nuovo presidente dell'UCI, i motivi che stanno spingendo il mondo del ciclismo a rigettare l'ipotesi di un terzo mandato per Pat McQuaid? Le linee guida delle politiche proposte dall'irlandese in questi anni sono riassumibili fondamentalmente lungo tre direttrici: la prima è una spinta sempre più forte verso una globalizzazione del ciclismo anche in direzione di paesi fino a pochi anni fa estranei o marginali per quanto riguarda il nostro sport.
La seconda è l'affermazione via via più forte del Pro Tour - poi World Tour - come centro pulsante del ciclismo, con l'apparente abbandono a se stesse di tutte le entità (corse o squadre) che non rientrano nella categoria d'eccellenza. La terza è la prosecuzione di politiche antidoping fortemente penalizzanti per i corridori, e molto meno per gli altri protagonisti (dirigenti dei team, medici, organizzatori).
Tutte e tre queste linee direttrici possono dirsi ereditate dalla precedente gestione Verbruggen, quella sì in tutto e per tutto rivoluzionaria, a partire dalla profonda riforma dei calendari (lo spostamento della Vuelta in settembre e del Mondiale in ottobre). L'attività innovativa nel caso della presidenza di McQuaid può quindi dirsi parecchio limitata (se non inesistente), essendosi preoccupato il chairman irlandese di rafforzare quanto disegnato, per il ciclismo, dal suo predecessore, di cui peraltro Pat era diretta emanazione: non a caso nei primi anni lo soprannominavamo Gabbo, come il pupazzo del ventriloquo dei Simpson (laddove il ventriloquo della situazione era chiaramente Hein, passato al CIO).
Contestualmente al portare avanti le politiche verbruggeniane, McQuaid si è impegnato a fondo, in questi anni, per imporre una gestione familistica dell'UCI, inserendo suoi parenti (fratelli o figli) in alcune posizioni chiave, a partire dall'organizzazione (attraverso la società Global Cycling Promotion) di alcuni eventi di nuova introduzione (ad esempio il Tour of Beijing).
Ma su queste due critiche (scarsa spinta innovativa, familismo sempre più esasperato), da un ambiente abituato a ingoiare qualsiasi rospo, si sarebbe soprasseduto, in sede di assemblea elettiva, se contemporaneamente si fosse visto un reale progresso del ciclismo, se si fosse sperimentata negli anni una situazione d'eccellenza a livello generale, se ci fossero davanti a noi prospettive serie di crescita. Tutto ciò non c'è, purtroppo.
Il buon esito della globalizzazione in atto
La globalizzazione, delle tre linee direttrici, è l'unico fronte su cui McQuaid può dire di aver vinto la sua battaglia. L'ha vinta assecondando spinte dal basso (provenienti dai paesi emergenti) e non inventandosi chissacché, ma bisogna ammettere che l'ha vinta. Se oggi anche l'Africa (rimasta l'ultima frontiera inesplorata) inizia ad avere suoi atleti nel World Tour (non parliamo di africani di matrice europea come Froome, e nemmeno di sudafricani abbastanza occidentalizzati - vedi i vari Hunter o Impey - ma parliamo proprio di africani provenienti da paesi poveri o dal Maghreb), significa che si è lavorato bene in questa direzione.
L'apertura ad Aigle del World Cycling Centre, in cui vengono preparati atleti affiliati a federazioni piccole o con poche risorse, ha dato, nel tempo, buoni frutti, e oggi diversi corridori promettenti (gli eritrei Teklehaimanot e Berhane o il tunisino Chtioui o l'argentino Sepúlveda, ad esempio, oltre a diversi pistard) sono diventati professionisti (e altri stanno per diventarlo) dopo essere cresciuti in tale centro.
Al contempo, abbiamo visto l'approdo al professionismo di una squadra africana (la MTN-Qhubeka, che ha pure vinto la Milano-Sanremo), mentre continuano ad essere presenti formazioni asiatiche (al momento solo la Champion System) e il Sudamerica muove i suoi passi (tramite la Colombia di Claudio Corti o l'Androni-Venezuela di Gianni Savio, per dire) secondo un approccio che è sì di vecchio stampo ma che comunque mantiene la presenza del continente nel professionismo, convivendo peraltro con un movimento locale ricchissimo di corse e squadre.
A livello di corse, al di là del World Tour sono sempre più le competizioni di buona levatura organizzate nei vari continenti: rispetto a 8 anni fa abbiamo più gare in America (il mese di agosto è oggi fortemente caratterizzato dalle varie prove statunitensi, e il Tour de San Luis in gennaio cresce anno dopo anno), in Asia (il bel Tour of Oman ha affiancato da tempo il più stagionato Tour of Qatar, e l'anno prossimo arrivano anche gli Emirati Arabi Uniti, in partnership con RCS Sport), e anche in Africa (l'Amissa Bongo è diventata appuntamento fisso, e qualcosa si muove anche nel Maghreb).
Lasciando per un attimo da parte le considerazioni tecniche, è sicuramente meritorio il lavoro di diffusione del ciclismo, così come l'avvicinamento di nuovi pubblici e l'accontentare platee che erano assetate di questo sport.
La suburra del doping
La vicenda Armstrong, esplosa indipendentemente dalla volontà dell'UCI (anzi, verrebbe da dire: malgrado essa), ha rappresentato un momento di rottura del patto di fiducia tra McQuaid e molti dei suoi sostenitori soprattutto anglosassoni. Prova ne sia la posizione della federciclismo statunitense, in passato grande elettrice di Pat, oggi traslocata armi e bagagli alla corte di Cookson, lo sfidante per la presidenza.
Quando una federazione internazionale fa della lotta al doping la sua bandiera, si può discutere sulle modalità e sulla reale efficacia di tale lotta, ma non si può, almeno sulla carta, accusare quella federazione da un punto di vista etico: chi potrebbe dire, a un primo esame, che è sbagliato contrastare il doping?
Se però le inchieste esterne all'UCI dimostrano che tale ente è fortemente colluso con personaggi che il doping l'hanno praticato e che hanno goduto di coperture dalle parti di Aigle, il castello di carte crolla tutto insieme, e il sipario strappato lascia intravedere la pelosità di certe svolte etiche e di certe crociate molto mediatiche e poco efficaci.
Anche perché poi, anni e anni di lotta apparentemente senza quartiere ci lasciano nella situazione di partenza, ovvero con molti dei campioni più acclamati che continuano ad essere coinvolti in vicende di doping, in un clima di sospetto generalizzato che non è mai stato dissipato, ma che si è semmai acuito. Del resto, nel momento in cui si scopre che l'UCI ha coperto Armstrong (ma lo stesso si può dire abbia fatto con Contador: la vicenda del clenbuterolo venne fuori da una soffiata giornalistica all'Équipe, mentre da Aigle si pensava di mettere la sordina alla cosa), come può il pubblico di appassionati continuare a credere che non ci siano anche altri corridori (o squadre) che godono di simili trattamenti di favore?
La lotta al doping, insomma, bandiera dell'UCI di McQuaid, si è risolta con un insuccesso sostanziale (anche se l'introduzione del Passaporto Biologico è una buona iniziativa, annacquata però da una discutibile gestione di questo strumento), unito a una clamorosa sconfessione politica di chi l'ha portata avanti (o ha detto di farlo).
Il tracollo del World Tour
Ancor più grave, dal punto di vista ciclo-politico, è quello che definiamo come il vero e proprio tracollo del World Tour. È ancor più grave perché se tutto il tuo ciclismo lo fai ruotare intorno a un meccanismo che alla lunga si dimostra funzionare poco e male, evidentemente le tue politiche sono sbagliate in nuce.
Ci si sarebbe dovuti aspettare che le magnifiche sorti e progressive del WT ci portassero oggi ad avere la fila, alle porte di Aigle, di squadre e organizzatori che spingevano per entrare nell'esclusivo club. Purtroppo siamo lontanissimi da un simile esito. Le uniche gare che in questi anni sono riuscite a entrare nell'élite sono prove di nuova nascita o comunque storicamente poco significative (il Tour Down Under, il Tour of Beijing, le due belle corse canadesi disputate nei giorni scorsi) che rappresentano paesi emergenti, il cui inserimento nel World Tour nega alla radice il concetto di merito.
L'errore di fondo da parte dell'UCI di McQuaid è stato pensare che il WT potesse vivere indipendentemente dal resto del movimento ciclistico, come se fosse un mondo a parte. Togliendo a tanti organizzatori l'ambizione di far crescere la propria gara fino a raggiungere l'eccellenza, e premiando invece criteri economici ed equilibri geografici, si è creata una cortina di ferro tra ricchi (pur se a volte incapaci) e poveri (anche se molto bravi).
Tale elemento emerge con ancora più forza se parliamo di squadre: qui il fallimento è totale, perché dalle 20 formazioni alla nascita del Pro Tour (2005), dopo essere opportunamente scesi a 18 (quest'anno fa eccezione, visto che sono state 19 per il reintegro, stabilito dal TAS, della Katusha inizialmente esclusa), ci ritroviamo alle soglie del 2014 non con un tot di squadre che dall'esterno spingono per entrare nella massima categoria, ma addirittura con la difficoltà di arrivare ad averne 18. Se non fosse stato per Fernando Alonso che s'è comprato la Euskaltel (anche se manca ancora l'ufficialità sull'intera operazione), avremmo avuto un WT a 17, l'anno prossimo.
Colpa della crisi economica? Per certi paesi può anche essere vero (è il caso di Italia e, Alonso a parte, Spagna), ma per altri ciò non è plausibile. La colpa è nei costi enormi che si trova a fronteggiare un team WT, non tanto per il prezzo della licenza in sé (75mila euro, anche se sono richieste fidejussioni molto esose e tutta un'altra serie di balzelli, a partire dalle tasse richieste per il Passaporto Biologico), quanto per la necessità di mettere insieme una corposa rosa di atleti, visto l'obbligo di partecipare a un gran numero di gare. I budget delle formazioni World Tour ammonta a svariati milioni di euro, e ciò al fondo di tutto si risolve in un prezzo da pagare per avere la certezza di fare il Tour de France, non altro.
Chi è nel WT andrà alla Grande Boucle, questo e solo questo giustifica la grande spesa da parte di molte delle 18 squadre della massima serie. Non c'è, non è stato creato un sistema che incentivi a livello sportivo l'entrata nel World Tour, non c'è la prospettiva, per le squadre Professional, di approdare all'élite per meriti sul campo, e ciò si riverbera in una netta perdita di appeal, negli ultimi anni, di tutto ciò che non è WT. Le corse fuori dal club, e in particolare molte di quelle con una lunga storia alle spalle, boccheggiano, faticano a mettere insieme startlist dignitose, e in molti casi finiscono col chiudere i battenti.
Al di là di questo, un sistema di promozioni e retrocessioni non è stato messo a punto se non (parzialmente) quest'anno, quando pare ormai tardi - per la gestione McQuaid - per rianimare il carrozzone. E pure la classifica individuale del World Tour, un fritto misto che comprende corse a tappe e in linea, ma solo alcune (quelle del WT, ovviamente), è praticamente ignorata dai più, e di sicuro non ha l'appeal che avevano la vecchia Coppa del Mondo (limitata alle classiche più importanti) e pure il vecchio ranking UCI (che teneva conto di tutte le corse del calendario internazionale). Tutti sanno che Cunego fu l'ultimo numero 1 del ranking UCI o che Bettini ha vinto qualche Coppa del Mondo, ma quanti sanno chi è al comando del World Tour in questo momento? Quanti sanno chi l'ha vinto in questi anni?
Insomma, dopo 8 anni di Pro Tour e poi World Tour ci ritroviamo col pensare che questo sistema sia stato un'occasione fin qui grosso modo sprecata (anche se ha avuto qualche ricaduta positiva: la startlist del Giro d'Italia è senza dubbio migliorata, dal punto di vista della qualità, dopo l'introduzione di tale sistema). Doveva rendere il ciclismo tutto un ambiente ricco e dorato (più vicino alla Formula 1), ma ha in larga parte fallito. Come si può pensare che il suo principale propugnatore in questi anni, McQuaid, possa ritenersi esente da responsabilità? Come si fa a non vedere nelle difficoltà del World Tour il simbolo di una presidenza che non ha mantenuto le promesse che aveva fatto?
Gli altri scenari, dal ciclodonne alla pista al fuoristrada
Fuori dal corpus delle tre linee direttrici delle politiche di McQuaid, non mancano altri motivi di malessere nei confronti di quanto fatto dall'UCI in questi anni. Si è fatto poco per aumentare il livello e la partecipazione nel ciclismo femminile, così come nel ciclocross (che a tratti pare un'attività limitata al Belgio, con pochi inserimenti di altre nazioni), mentre la MTB gode (almeno in apparenza) di ottima salute.
La pista, poi, è entrata in una brutta spirale, e ha visto addirittura decurtato pesantemente il programma olimpico (malgrado la presenza, nella stanza dei bottoni del CIO, di Verbruggen), al contrario di quanto aveva promesso lo stesso McQuaid. Proprio la pista è invece un elemento forte dalla parte di Brian Cookson, lo sfidante per la presidenza UCI, il quale viene da una federazione, quella britannica, che sul ciclismo degli anelli ha costruito le sue maggiori fortune in questi ultimi lustri.
Ma a squalificare ulteriormente l'azione dell'ultimo McQuaid non è la pista, non è la difficoltà evidente del World Tour, e non sono nemmeno le magagne venute fuori in campo doping. La debolezza attuale di Pat emerge con prepotenza nel momento in cui vengono a galla i vari tentativi di piegare l'assemblea elettiva alle proprie bisogna, con metodi borderline o proprio fuori dalle regole. Non si parla più di programmi, non è all'ordine del giorno, per quel che riguarda l'irlandese, una seria proposta politica per il rilancio del ciclismo. C'è solo la volontà, ormai scoperta e palese, di controllare i 42 delegati che venerdì 27 eleggeranno il nuovo presidente.
Gli ultimi vagiti di un regime alla canna del gas
Impresa difficile, quella di controllare i delegati, nel momento in cui da sempre più parti emergono voci a sostegno di Cookson e contro McQuaid. Ultimi di una lunga lista (che comprende anche lo stesso Verbruggen, che si è detto ufficialmente disinteressato del destino di Pat), i 14 delegati della UEC (Unione Ciclistica Europea), che saranno chiamati ad appoggiare Cookson dopo il voto dell'assemblea della stessa UEC, nei giorni scorsi. La speranza di Pat è che, nel segreto dell'urna, qualcuno di questi tradisca il mandato e si vada a unire a quelli (in larga parte africani e asiatici) che invece sono dalla sua parte.
A monte di tutto, però, c'è una pregiudiziale grande quanto una casa: quella che riguarda la legittimità della candidatura stessa di McQuaid. Il ragazzo, negli ultimi mesi, non ha ricevuto il necessario appoggio da parte della sua federazione (quella irlandese), e successivamente ha visto ritirato anche quello della sua seconda federazione (quella svizzera, presso la quale è affiliato per motivi di residenza).
A questo punto i termini per la presentazione delle candidature (con relativo appoggio della federazione di riferimento) erano scaduti, ma McQuaid ha ricevuto ex post l'appoggio di altre federazioni che con lui c'entran poco (quella thailandese e quella marocchina), le quali si basano su una proposta di emendamento allo Statuto UCI presentata dalla federazione malese: tale proposta (peraltro palesemente illegittima a livello di regolamenti UCI) vorrebbe che per un candidato alla presidenza possa bastare anche l'appoggio di due federazioni esterne. Solo che per tale emendamento (che sarà votato sempre nell'assemblea UCI) varrebbe il principio di retroattività, proprio per rendere valida la candidatura di Pat.
Come non bastasse, le federazioni di Turchia e Barbados hanno presentato nei giorni scorsi un'ulteriore proposta, secondo cui il presidente uscente, proprio per il fatto di essere in carica, avrebbe il diritto di candidarsi senza alcuna "nomination" di singole federazioni. Anche questa norma, negli intenti di chi l'ha proposta, sarebbe applicabile sin da questa elezione. È facile leggere in filigrana la longa manus di Aigle e del clan di McQuaid dietro a queste proposte che sembrano gli ultimi disperati tentativi di restare a galla, da parte di chi al momento (e ancora per 10 giorni) detiene il potere.
Le cose che avvengono nei palazzi spesso sfuggono alla logica delle persone semplici, quindi non possiamo dare nulla per scontato o per impossibile: ci sta anche che McQuaid riesca nel suo ardito progetto e ottenga la rielezione, per quanto ciò possa sembrare inattuabile (qualche mese fa lo temevamo di più, ora fortunatamente la situazione si è evoluta). Di sicuro le vie d'uscita per Pat si sono ridotte al minimo, dopo che lui è stato scaricato dalla federazione irlandese e da quella svizzera, senza riuscire a trovare per tempo uno scoglio a cui aggrapparsi.
Per la prima volta, tra l'altro, avremo l'elezione di un presidente UCI tramite la votazione di un emendamento, e non la votazione diretta alla carica: se venerdì 27, infatti, gli emendamenti malesi, turchi e della federazione delle Barbados verranno bocciati, la candidatura di McQuaid non sarà ammessa, e rimarrà in corsa il solo Cookson, che sarà di fatto presidente prima ancora di essere eletto.
Se invece uno di questi emendamenti verrà approvato dall'assemblea e la candidatura di Pat (illegittima dal punto di vista del diritto ed esposta quindi a un ricorso al TAS) considerata ammissibile, diventa difficile pensare che quella stessa assemblea voti poi contro l'irlandese nella sfida col rivale britannico. E anche in questo caso, quindi, si potrà dare per assunto che l'assemblea si sia espressa in favore della riconferma di McQuaid ancor prima che si voti per il nuovo presidente.
La speranza degli appassionati è che la vicenda si risolva in prima istanza, e che quindi la candidatura di Pat venga respinta e che l'UCI si ritrovi da subito con un nuovo presidente, senza dover sottostare all'attesa di un giudizio del TAS. Non si può perdere tempo perché il ciclismo, al di là dei discorsi di facciata e d'immagine (che non ricaverebbe certo lustro da una querelle giudiziaria per la presidenza), ha bisogno urgente di voltare pagina.