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Elezioni CONI: Un nuovo corso, cosa cambierà? - Malagò batte a sorpresa Pagnozzi; fuori Di Rocco

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Giovanni Malagò è da oggi il nuovo presidente del CONI © coni.it

Non è una notizia che riguardi direttamente il ciclismo, ma, come direbbe Moretti, non c'entra ma c'entra. Il CONI ha un nuovo presidente, nuovo in tutti i sensi, perché Giovanni Malagò (l'eletto è lui, 53 anni, uomo d'affari di Roma, presidente del Circolo Canottieri Aniene) rappresenta un nuovo capitolo nella storia del Comitato Nazionale Olimpico, rispetto agli ultimi 15 anni, vissuti sotto l'egida di Gianni Petrucci.

Quest'ultimo, che intanto fa anche il sindaco di San Felice Circeo, ha passato la mano (non trascurando di ritagliarsi un nuovo-vecchio ruolo in qualità di presidente della Federbasket, incarico ricoperto già dal 1992 al 1999), facendo la campagna per l'elezione del suo delfino (e per 20 anni segretario generale) Raffaele Pagnozzi. I pronostici della vigilia davano proprio quest'ultimo (familiarmente chiamato Lello) come favorito, e anche nettamente, stando ai rumors. E invece, con un colpo di scena che non è raro in elezioni come quelle dello sport italiano, basate sul sistema dei delegati (stavolta erano in 76 a votare), l'ha spuntata alla fine lo sfidante.

Colui che partiva con la necessità di rimontare, di costruire intorno al proprio nome un consenso che, evidentemente, alla fine non è mancato, visto l'esito delle votazioni (40-35 per Malagò), si è imposto. Tra espressioni di giubilo e di commozione da parte del romano nuovo numero uno dello sport italiano, e qualche mugugno del vecchio establishment (l'ex canoista Antonio Rossi, tra gli altri, ha parlato apertamente di doppio gioco da parte di qualcuno dei delegati), si è consumata questa importante fase di passaggio.

Si chiude un'epoca, e nell'attesa di capire in che direzione si muoverà il nuovo CONI, si può quantomeno tracciare un bilancio di quello vecchio. In rapporto al ciclismo ovviamente. Partiamo dal dire che la neoeletta Giunta sarà priva di un rappresentante ciclistico, in quanto Renato Di Rocco, presente nella precedente, non è stato rieletto: per un solo voto (33 contro 32) ha avuto la meglio Giancarlo Abete, presidente della Federcalcio, e lo smacco subìto dal presidente FCI (il quale negli ultimi anni aveva fatto sempre un vanto della sua presenza al CONI) è forse collegabile a qualche retroscena di palazzo: Di Rocco aveva annunciato l'appoggio a Pagnozzi (coi cui voti contava di rientrare in Giunta), ma il meccanismo si è inceppato, e non vogliamo pensar male per non fare l'ennesimo peccato.

Dicevamo del CONI di Petrucci e Pagnozzi, allora: è difficile immaginare qualcosa di peggio, per il bene del ciclismo, rispetto alla vecchia gestione dell'ente del Foro Italico. Proprio con l'avvento di Petrucci (anno di disgrazia 1999) iniziò la scientifica demolizione della credibilità del movimento, alla luce (o all'ombra) delle vicende doping. Si era, all'epoca, freschi reduci dallo scandalo del laboratorio dell'Acqua Acetosa (nel quale i campioni di urine dei calciatori non venivano controllati, ma gettati direttamente lì dirimpetto, nel Tevere), e bisognava riverginare il CONI. Lo si fece inventando la campagna "Io non rischio la salute", rivolta teoricamente a tutte le discipline, ma applicata - chissà perché - solo al ciclismo.

Subito dopo Pantani venne trovato con ematocrito alto al penultimo giorno di Giro d'Italia, e guardacaso il Pirata era proprio colui il quale ci aveva messo la faccia per contestare questo trattamento di favore per il ciclismo; niente paura, lo stesso Marco venne allora fatto oggetto di una sorta di persecuzione ad personam, finendo con l'incarnare il ruolo dell'unico dopato d'Italia (senza essere mai risultato positivo all'antidoping); prima delle Olimpiadi di Sydney 2000, tanto per dire, lo stesso Pagnozzi spostò le luci dei riflettori dai dati (abnormi) sul GH di un tot di azzurri, a quelli (del tutto normali) del sangue del Pirata. I media abboccarono, andando dietro al nuovo caso Pantani (basta fare una facilissima ricerca "Pantani Sydney" su Google per farsi un'idea della cosa) e lasciando tranquilli i futuri medagliati dei Giochi australiani.

Vecchi scheletri di capienti armadi, ma non è che negli anni più recenti l'amore tra Petrucci (e Pagnozzi) e il ciclismo sia sbocciato: l'ex presidente, che si sentiva tradito da Marta Bastianelli (positiva per un prodotto dimagrante!) e che pianse amare lacrime di coccodrillo sull'argento di Rebellin alle Olimpiadi di Pechino, "macchiato" da una positività per contestare la quale l'atleta chiese più volte di sottoporsi a un mai più svolto test del DNA. Ancora un paio d'anni fa gli alti lai petrucceschi si levarono a stigmatizzare il ciclismo, che ancora - a dire del presidente CONI - non aveva capito la direzione (di pulizia) da prendere.

Subito accolti, quegli strali, da Di Rocco, che li fece suoi lanciando una nuova campagna di terrore tra i corridori (risale ad allora la norma che vieta la nazionale a chi abbia scontato almeno sei mesi di squalifica per doping; regola poi incattivita l'anno scorso, con estensione anche agli indagati per casi di doping, e infine mitigata un mese fa, dopo l'assemblea FCI di Levico Terme, al termine della quale il riconfermato RDR fece un atto di bontà, eliminando almeno la retroattività della norma e riaprendo quindi le porte della Nazionale a gente come Basso e Petacchi).

Chissà, forse il fatto che non sia più in Giunta CONI renderà Di Rocco più svincolato da certe manovre forzose che si risolvono sempre in grandi danni per il ciclismo; resta da vedere come si porrà Malagò nei confronti di uno sport che necessiterebbe di un grande piano di rilancio. Cosa dobbiamo attenderci, allora, discorsi seri e sereni per il bene del movimento? Qualche contentino? O nuove mazzate? Lo scopriremo presto.

Marco Grassi

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