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L'intervista: Pettenella, gloria olimpica - Milano onora la memoria del pistard

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Giovanni Pettenella dopo l'oro nella Velocità e l'argento nel Km da fermo di Tokyo '64 © milanofixed.comManca ormai poco al via delle Olimpiadi di Londra 2012 e ripercorrendo i nomi italiani che si sono fatti maggiormente valere nelle celebrazioni sacre a Zeus è stato impossibile non soffermarci su quello di Giovanni Pettenella, detto il Vanni. Classe '43, veneto di nascita, milanese di adozione, in principio aiutante pollivendolo nel negozio di famiglia ad Affori, convertito al ciclismo per eredità sanguinea dato che il padre fu corridore per quattordici anni. Per conoscere meglio la storia di questo campione che tanto ha regalato all'Italia e forse troppo in fretta dimenticato abbiamo chiesto aiuto a suo figlio Marco, anch'egli per un periodo dedito ai pedali prima di dedicarsi ad altro.

Quale fu la scintilla che fece innamorare suo padre del ciclismo?
«Inizialmente sembrava che la sua strada fosse il calcio, difatti da ragazzino giocava come terzino nei pulcini del Milan nel vecchio campo della Lombardina, poi un po' per scherzo e un po' perché in famiglia si era sempre respirata l'aria di questo sport, fece una sorta di patto con mio nonno per cui se su tre gare prova ne avesse vinta una avrebbe avuto via libera per la nuova sfida; fece sua l'ultima, quella con arrivo in salita a Ronago, ma poi si trovò di fronte all’ostacolo che per iniziare a correre negli esordienti avrebbe dovuto essere nato nel 1942. Detto fatto, falsificò i documenti e firmò il primo contratto con la Bruzzanese Brill. Nell'anno del debutto ottenne dieci vittorie e nel '59 grazie all'ex pistard Giacinto Bandiera riuscì ad entrare nella Scuola Fausto Coppi del Vigorelli, esperienza che lo fece innamorare della pista e dello storico velodromo a cui rimase legato tutta la vita».

Quindi arrivarono i primi trionfi importanti…
«Sì, vinse moltissimo nei primi anni, tanto da aggiudicarsi anche trofei prestigiosi per il settore giovanile come il Gardiol e il Malinverni. Nel 1960, a quindici anni, conquistò il suo primo titolo italiano da allievo a Torino e venne selezionato come riserva in patria per le Olimpiadi di Roma. Nel '62 appena passato dilettante portò a casa l'oro nella velocità e l'argento nel Km da fermo agli Europei di Anversa, fu campione nazionale e partecipò ai Mondiali di Milano chiudendo quarto, quindi l'anno successivo in coppia con Sergio Bianchetto dominò nel campionato italiano tandem e ai Giochi del Mediterraneo disputatisi nella pista della Gavaccia di Napoli».

E poi il trionfale 1964…
«Inizialmente le cose non si erano messe bene perché al Mondiale di Parigi, nonostante i risultati, gli venne preferito Giordano Turrini, che poi deluse; per questo motivo decisero di chiamare papà per le Olimpiadi di Tokyo. Qui l'occasione della vita. Oro nella velocità davanti a Bianchetto nonostante fosse stato costretto a percorre tutto il primo giro in testa per aver poggiato la mano in terra in fase di surplace e argento nel Km da fermo, dietro di un'inezia al solo "gigante" Patrick Sercu anche a causa della rottura di un raggio della ruota posteriore avvenuta dopo aver urtato un sacchetto di sabbia alla penultima curva. Tra l'altro questa prova non avrebbe neppure dovuto affrontarla, ma il ct Costa un paio di giorni prima fece fare un giro da fermo a tutti, il tempo più basso sarebbe valsa la partecipazione alla competizione, lui da ottimo scattista qual era non si fece cogliere impreparato e vinse».

Il '65 fu l'anno del passaggio al professionismo…
«Prima fece il servizio militare e poi firmò il contratto con la GBC. In molti ricordano quel periodo come costellato di pochi successi, in realtà vinse otto competizioni su strada, due tappe alla Tirreno-Adriatico, 8° alla Milano-Sanremo del 1966 dove regolò la volata del gruppo e poi in pista trionfò in tantissime gare come il Gp Città di Roma, il Gp Città di Milano, quello di Copenhagen, ottenne il bronzo nel '68 nel Campionato Velocità di Roma e poi ci fu il famoso surplace di un'ora, tre minuti e cinque secondi nelle semifinali del Campionato Italiano che si stava svolgendo al velodromo Ganna di Masnago (Varese) e che portò il malcapitato Bianchetto a svenire per la fatica e la tensione».

Il surplace è sempre stato il suo marchio fabbrica.
«Sì, era davvero imbattibile! Neppure uno come Antonio Maspes è riuscito a sconfiggerlo. Mi raccontava che si allenava per ore al Vigorelli, addirittura faceva andare lì il guardiano per farsi slacciare le cinghiette dei pedali perché si appendeva alla rete in cima alla curva per evitare di cadere. Era molto attento alla tecnica e decisamente meticoloso».

Quando capì che era il momento di voltare pagina?
«Nel '72 decise di fermarsi e venne nominato commissario tecnico della nazionale dilettanti su pista per i giochi di Monaco insieme a Bianchetto, ma le cose non andarono bene soprattutto per motivi politici legati agli sponsor, per cui l'anno dopo, un po' per rivalsa, tornò in gruppo come indipendente alla Plasteco di Senago con cui rimase per due stagioni vincendo quasi tutte le gare su pista, ma non poté più vestire la maglia azzurra che aveva caratterizzato tutta la sua carriera fino a quel momento. L’addio definitivo è datato 1975. L'anno successivo a causa di un improvviso problema di salute di Maspes venne chiamato come ct per i Mondiali di Monteroni a Lecce. Qui portò al successo nell’inseguimento Francesco Moser, per cui aveva ideato un caschetto aerodinamico, Turrini all'argento nella velocità e Walter Avogadri al bronzo nella specialità dietro motori, ma malgrado ciò, compresa una lettera di encomio dalla Federazione, non venne confermato e nel '78 per i Giochi del Mediterraneo venne scelto come commissario della Libia. Dopo questa esperienza, che fruttò una medaglia nel Km da fermo, fu insignito della Legion d'Onore per essere stato il primo tecnico ad aver portato a certi risultati un atleta libico».

Come ha visto cambiare il mondo della pista la famiglia Pettenella?
«Mio padre mi ha sempre raccontato che già sul finire degli anni '60 la pista in Italia stava perdendo il suo appeal. Ebbe qualche sprazzo negli anni '80 con gente come Moreno Argentin, Guido Bontempi e Pierangelo Bincoletto, ma poi soprattutto a causa della mancanza di strutture, andò sempre più sfiorendo. Alla fine siamo gli unici con una grossa tradizione alle spalle a non avere un impianto chiuso; da qualche anno c'è quello di Montichiari che sta tentando di tirar su le sorti della nostra pista, ma non vengono disputate corse di grosso prestigio».

Attualmente chi vede bene di corridore italiano?
«L'unico è Elia Viviani, che ha iniziato a correre in pista da juniores ed è dotato di un buon colpo di pedale e un buon colpo d'occhio, purtroppo però segue la scia dei seigiornisti in stile Silvio Martinello e Marco Villa, ossia gente primariamente da ciclismo su strada. Ormai il pistard puro non esiste più e gli stradisti sono duri da convincere a provare la pista e questo è un vero peccato perché ne vediamo i benefici in Mark Cavendish che è in grado di vincere anche senza treno. Lui ha sicuramente il senso della posizione sulla bici e sa sfruttare bene le ruote. Se penso a Mario Cipollini che aveva bisogno di essere trainato fin quasi sulla linea a 75 orari, traslato negli anni '60 avrebbe vinto al massimo un paio di corse. Con gente come mio padre, Patrick Sercu, Marino Basso o Louis Bobet, scattisti con lo spunto gli ultimi 50 metri non avrebbe avuto molte possibilità. Comunque è un fatto di cultura del Paese, perché per i belgi e gli inglesi, ad esempio, la pista è un'attività complementare. Anche Eddy Merckx fu un pistard di prim'ordine, in particolare si distingueva nella Sei Giorni…»

E a proposito di questa competizione, come andava il Vanni?
«Se la cavava bene. Addirittura a settembre del 1966, fresco sposo, partì per una tournée in Australia di circa due anni dove riuscì ad ottenere nove vittorie tra Melbourne e Sidney. All'epoca lì la Sei Giorni era importantissima, si facevano anche le scommesse! Fu una grande scuola per lui perché si correva davvero con il coltello sotto la sella, ma la delusione per alcune dinamiche di gruppo che aveva visto in Italia l'avevano di fatto allontanato da questa specialità. Mi raccontava di patti di non belligeranza per cui il nome importante doveva sempre vincere, oppure nel '65 in occasione della Sei Giorni di Milano la squadra avrebbe dovuto essere suddivisa nelle coppie Pettenella-Post e Terruzzi-Faggin, invece poco prima Ferdinando, che correva assieme a Leandro alla GBC, annunciò il ritiro a fine stagione, per cui mio padre dovette correre con Faggin che, per non arrivare davanti al compagno di squadra, faceva apposta a perdere il giro, sbagliare cambio… Atteggiamenti che per il suo carattere poco incline ai compromessi non riusciva ad accettare».

Si può dire che il Vigorelli sia stata la sua seconda casa?
«Certo, il suo rapporto con quel velodromo è stato totale, era la pista della sua vita e la conosceva listello per listello come tutti i grandi pistard. Rimaneva lì fino a tardi per allenarsi, facendo diversi giri in senso antiorario, oppure guardandosi indietro in modo da imparare ad andare dritto senza perdere d'occhio gli avversari, guardare le ombre e sviluppare tutte le malizie necessarie per battere qualunque avversario. Ne fu per un periodo direttore ma poi col tempo e il declino della struttura che fu adibita alle corse per cani, il suo ruolo venne svilito. Riuscì pure a diventare dt della Scuola Fausto Coppi, lì tra i suoi allievi ha avuto nomi che poi sono diventati big come Francesco Moser e Giuseppe Saronni! Adorava lavorare con i ragazzi e amava affiancarli in pista durante gli allenamenti. Per tenere vivo l'interesse verso questa disciplina andava addirittura a reclutarli nelle scuole e negli oratori. Alla fine nel 1983, quando iniziò ad essere messo un po' da parte aprì il negozio di biciclette su misura che diventò il suo nuovo lavoro assieme a quello di ct regionale, mentre il compito di istruttore passò ad altri anche per questioni politiche, cosa che lo fece soffrire molto perché gli tolse la possibilità di aiutare i giovani a crescere. Quando il velodromo venne definitivamente chiuso, a seguito del crollo della tettoia dopo la forte nevicata dell’85, dentro di lui si spense qualcosa».

Suo padre rimase sempre un innamorato del pedale?
«Sì, fino all’ultimo abbiamo seguito le corse assieme e lui aveva una così grande capacità di "vedere la gara" che non sbagliava mai un pronostico. Era un ottimo osservatore e cercava di imparare il più possibile da tutti. Ha avuto anche la fortuna di esser sempre stato vicino a gente di un certo livello, sin da bambino. A casa ho una foto di lui, esordiente, e Gastone Nencini, poi vincitore del Tour de France nel 1960, con tanto d'autografo, corse con atleti del calibro di Rik Van Steenbergen, frequentò Rik Van Looy, lavorò a contatto con meccanici e massaggiatori che all'epoca erano anche dottori, ebbe un ct come Costa vincitore di 50 medaglie d'oro, mostri sacri da cui assorbì parecchio, tra l'altro quando era alle preolimpiche di Tokyo nel 1963 imparò dall’allenatore della squadra giapponese Sato a fare le volate su prato e la ginnastica isometrica, che serviva a concentrare tutte le forze in poco tempo tramite scariche nervose e che mi tramandò. Una sola cosa lo rammaricava molto. Il doping. Alla sua epoca si utilizzavano anfetamine, piuttosto che cardiotonici o vasodilatatori per spostare la soglia della fatica e aumentare la sopportazione al dolore, però alla fine se eri una schiappa rimanevi tale, invece col tempo si è iniziato a far uso di sostanze che agiscono a livello neuronale e muscolare, che trasformano il corridore facendogli correre non pochi rischi. Ora si cerca di superare i limiti e lo possiamo capire da certe prestazioni che si vedono fare; alla fine non si sa mai se il risultato di una corsa verrà confermato o meno dopo i test antidoping! Lui in questo tipo di ciclismo non si riconosceva più».

Mangiò comunque pane e bici fino alla fine con il negozio di via Semplicità…
«Assolutamente. Non aveva un grosso giro d'affari, ma lo riteneva lo stesso il suo mondo, pieno di ricordi, foto, poster, coppe e un gran disordine soprattutto sul suo tavolo di lavoro! Non buttava via niente, tanto che quando abbiamo chiuso a seguito della sua scomparsa nel 2010, ho aperto la cantina e ho trovato centinaia di borracce in alluminio e rottami di ogni tipo, tutte cose poi cedute alla Ciclofficina Balenga in zona Lorenteggio… La sua vita in negozio si concentrava tra il pomeriggio e il dopocena e ciò fu sempre motivo di battibecco tra noi due visto che l'ho affiancato per quattordici anni, perché secondo me così facendo si perdeva il cliente di passaggio. In realtà sapevamo bene che si trattava di un'attività senza futuro, al giorno d'oggi il lavoro artigianale non viene più capito e la gente ragiona per catalogo, presta più attenzione al colore che alla geometria del telaio. Ormai sono rimasti solo 4/5 grandi costruttori di biciclette al mondo e sono gli stessi da cinquant'anni, tutti gli altri sono solo venditori senza molte conoscenze tecniche. Mio padre invece era attentissimo ai dettagli, una vendita la faceva durare minimo un paio d'ore con tutte le verifiche del caso e poi per maggior sicurezza faceva fare un giro di prova per l'isolato al cliente; i suoi accorgimenti hanno anche aiutato a risolvere dei problemi fisici!»

È vero che la clientela era soprattutto straniera?
«Sì, il boom si è avuto nell'ultimo anno e mezzo con la moda della bici a scatto fisso senza freni tornata nelle grandi città, per cui ha venduto tutto quanto gli era rimasto dei suoi trascorsi in pista. Abbiamo avuto acquirenti da Londra, New York, Monaco e nel 2008 abbiamo spedito due telai da pista in Giappone, lì sono rimasti molto attaccati a mio padre, sono venute perfino persone che dopo aver letto la targa commemorativa dei vincitori delle Olimpiadi del '64 affissa nel nuovo stadio nato dopo l'abbattimento di quello storico di Hachiōji, hanno deciso di farsi fare la bici da lui. Ci teneva parecchio alla sua attività di costruttore, tanto che il suo sogno sarebbe stato quello di riuscire a mettere sul mercato un prodotto riconosciuto da tutti, in particolare dai giovani, ma ebbe poca fortuna e molte difficoltà a farsi rispettare. È noto a tutti che brevetti come i tubi a goccia ovalizzati, le ruote a razze, o le selle per la 100 Km dove si attaccava il cavetto come punto d'appoggio erano suoi. L'unico che non ebbe problemi a riconoscere i suoi meriti e a pagare fu Ernesto Colnago, per il resto dovette intentare diverse cause, cosa che lo afflisse parecchio e per questo mi diceva: "Puoi avere le idee più belle del mondo, ma se poi non hai i soldi per sostenerle rimangono solo idee…". Questo approccio così teso alla ricerca tecnica e al dettaglio era dovuto al fatto di essere cresciuto in pista dove si vinceva per mezza ruota e quindi bisognava sapersi ingegnare, dal depilarsi le braccia per aumentare l'effetto aerodinamico, ai caschetti, alla bici cromata che dava maggior rigidità al telaio e quindi un miglior scatto, ingannando pure l'occhio di chi era davanti, fino all'escamotage delle palline usate per il sorteggio nelle gare di velocità incise con l'unghia in modo da essere riconoscibili ed evitare di pescare quella che obbligava a condurre la gara allo start. Nello specifico proprio per le Olimpiadi fecero omologare dalla commissione giuria un casco ideato da papà con feltro pressato e cellofan del peso di 35 grammi anziché i soliti 5 ½ etti, che indossò pure Giorgio Ursi, poi secondo nell'inseguimento individuale. Rispetto all'attualità, allora correre era un'arte».

Suo padre fu anche un grande avanguardista…
«Sì, amava tutto ciò che era novità e aveva delle intuizioni anche fin troppo innovative. Ad esempio nel 1984 inviò una lettera all'allora assessore allo sport di Milano per avere la licenza del bike-sharing e quindi del concetto di noleggio per entrare in centro; comprammo una sessantina di bici dall'Atala di zona Lambrate in modo da avere qualcosa di concreto in mano ma non ricevemmo alcuna risposta; un paio di settimane dopo vedemmo cinque punti di deposito bici della Bianchi fornite da Masciaghi, che poi fallì diverse volte. Noi nel frattempo avevamo perso l'appalto e non se ne fece più niente».

C’è qualcosa di cui lo rimprovera?
«Umanamente non siamo mai stati molto uniti, da parte mia c'era quasi della soggezione, in più era sempre fuori casa il che non aiutava; poi quando ho iniziato a fare il ciclista ci siamo riavvicinati, mi ricordo che mi diceva sempre che ero bravo ma poco furbo a differenza di lui che le corse le aveva vinte all'80% con l’intelligenza! In seguito c'è stato il periodo del negozio, ma anche lì abbiamo avuto qualche scontro, lui in un certo senso era eccessivamente buono, poco doppiogiochista, cosa che lo penalizzò perfino nella sua carriera da ct e si fidava troppo mantenendosi fedele al motto che bisogna trattare bene tutti perché prima o poi se ne potrebbe avere bisogno. Io invece non sono mai stato così, per questo ognuno è andato per la sua strada».

In chiusura, il 14 marzo scorso finalmente il riconoscimento di Milano con la tumulazione al Famedio…
«È stata una cerimonia emozionante e di cui sono molto contento. Dopo la sua morte avvenuta nel 2010 non vi è stata alcuna iniziativa diretta da parte della città nonostante le circa 460 vittorie ottenute, quindi io e il mio ex direttore sportivo alla Pettenella Shimano Gianni Cuscito abbiamo deciso di preparare una relazione sulla sua vita, la carriera e il contributo che ha dato a Milano ed inviarla al Comune. La commissione del Famedio ha esaminato il tutto e posto al vaglio ma nel frattempo è caduta la giunta e quindi non se n'è saputo più nulla, poi con l'arrivo di Guliano Pisapia, appassionato di bici, abbiamo rifatto la richiesta. Inizialmente ci è stata proposta la sola iscrizione sulla stele, ma noi abbiamo rifiutato perché ci sembrava giusto continuare ad insistere per la tumulazione; in seguito ad una seconda analisi siamo riusciti ad ottenerla ed è stata una bella vittoria. Ora è lì vicino al suo amico Duilio Loi, anch'egli protagonista al Vigorelli negli incontri di box, ma soprattutto è più in alto di Maspes, che certamente non ne sarà contento! L'unico rammarico è che questo riconoscimento sia arrivato solo ora. Nella sua vita è stato sempre poco nominato e considerato, non tanto dai colleghi e dall'ambiente interno, quanto da quello circostante. Leggendo in questi giorni uno speciale sulle Olimpiadi pubblicato dall'Europeo ho notato che sulla parte dedicata a quelle del '64 relativa al ciclismo c'era la foto di Bianchetto e Angelo Damiano oro nel tandem, ma nulla su papà. Credo che al giorno d'oggi se un corridore portasse a casa da solo oro e argento gli verrebbe dedicata più di qualche pagina! Il suo errore è stato certamente quello di concentrarsi sulla pista, forse puntando un po' di più sulla strada, che offre particolare visibilità, avrebbe avuto maggiori riscontri anche economici. Oggi gli atleti che vincono ai Giochi prendono fino a 400 mila euro di vitalizio, a quel tempo mio padre invece si dovette accontentare di 500 che vendette subito e di un orologio d’oro. Diciamo che si correva per la gloria. Lui amava ripetere: "Mi sono rimaste molte botte ma soldi pochi"».

Chiara Rainis

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