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Sicurezza: Salviamo i ciclisti, la marea monta - Il tema diventa sempre più d'attualità

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Un momento della tavola rotonda organizzata da RCS © velorution.gazzetta.it

Io non vado in bicicletta. Non ci vado da qualche anno. Eppure la bici ce l'ho, ma è là, in garage, tenuta abbastanza al riparo da ragni e polvere (ma non così tanto come si dovrebbe). Sembra strano che una persona che passa tanto del suo tempo a seguire il ciclismo a sua volta non vada in bicicletta ma non è sempre stato così. Anni fa ci andavo e mi piaceva ma ora ho paura. Ho avuto la non tanto brillante idea di provare a recarmi al lavoro in bicicletta. Mi dicevo: «Lavori a 5 km da casa è imbarazzante che tu voglia usare sempre l'auto». E così è andata, ho provato la grande esperienza di fare il tragitto da casa al lavoro con la mia bicicletta da città ed è stato un vero incubo: nonostante pedalassi a pochi centimetri dal ciglio della strada le auto ed i camion mi passavano vicinissimi, a velocità molto più elevate di quelle richieste su quel tratto (50 km/h) e lo spostamento d'aria era impressionante. Da allora la mia bicicletta è tenuta in ordine in garage.

Purtroppo questa situazione mia personale non è un fatto isolato, né la mia reazione un caso raro. La pericolosità delle strade non è un'idea immaginaria di qualche invasato che odia i mezzi a motore, è un fatto misurabile con dati precisi: 2.500 ciclisti morti ogni anno sulle strade italiane (38 incidenti al giorno) lo stanno a dimostrare. Siamo in guerra.

Un'espressione volutamente forte ma la verità è questa e non ci possiamo nascondere né prendere giustificazioni di sorta. Fino a quanto potremo andare avanti con la paura che le persone che conosciamo escano in bici e non tornino più a casa? Da quanti anni sentiamo la solita retorica politica del "qui bisogna fare qualcosa" e poi non si fa mai niente? Per poter cambiare le cose occorre l'impegno di tutti e il coraggio di metterci la faccia, come ha fatto il Times.

L'importante quotidiano britannico, dopo la morte di una propria collaboratrice mentre si recava al lavoro in bicicletta, ha messo in moto (passateci il bisticcio) una campagna per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla salvaguardia dei ciclisti. Sì, perché non si tratta semplicemente di spingere la politica a creare delle norme o delle strutture che tutelino il ciclista, serve un completo cambio di mentalità nelle persone, che passa per prima cosa dal rispetto per tutti gli utenti della strada.

Purtroppo noi fruitori dell'automobile (dico noi perché, come detto, io non vado più in bici...) abbiamo pensato che, siccome paghiamo il bollo auto, siamo i padroni della strada: "Eh guarda che io ho pagato!". Eppure la benzina a 2 euro al litro dovrebbe averci fatto ormai capire che l'automobile è morta. Un'invenzione di 150 anni fa ormai antiecologica e antieconomica che, arrampicandoci come sugli specchi, facciamo ancora passare come simbolo delle persone vincenti (basta osservare che in uno stacco pubblicitario ci sono almeno 3 spot sulle auto).

Se il momento propizio non è questo, allora non si sa quale potrebbe essere. La crisi petrolifera ha messo in discussione tutto il nostro sistema di mobilità: è davvero arrivato il momento di passare a trasporti più economici ed ecologici, come appunto la bicicletta. La maggior parte delle persone si sposta per andare al lavoro in un arco di 10 km e lo fa sempre in auto, ma 10 km sono una distanza percorribilissima anche con la bici se solo si potesse pedalare con la dovuta sicurezza.

Sicurezza che non significa solo piste ciclabili (sarebbe assolutamente impossibile immaginare in Italia ogni strada accompagnata da una pista ciclabile) dove far circolare i ciclisti come fossero criceti o animali dello zoo, ma programmi veri al disincentivo dell'automobile (le accise sui carburanti sono uno di questi?), come i centri storici delle città chiusi al traffico (Londra l'ha fatto, chiudendo completamente il transito in Trafalgar Square), l'eliminazione dei parcheggi in città e il controllo a tappeto delle soste nei tratti riservati alle biciclette, perché si sa che in Italia una pista ciclabile è in realtà una fila per il parcheggio.

Venerdì mattina alla tavola rotonda di RCS, a cui ha preso parte anche il promotore della campagna britannica City fit for cyclist, Kaya Burgess (era presente anche la moglie di Pier Todisco, giornalista della Gazzetta dello Sport morto mentre si recava al lavoro in bici), si è parlato a lungo di tutti questi temi. Tante proposte, tanti dati, ma quando si passava la palla alla politica - in questo caso l'assessore Maran di Milano - sempre lì a giustificarsi. Qui non si tratta più di giustificarsi, si tratta di operare e basta, perché non ha senso che ogni giorno piangiamo ciclisti che non tornano più a casa per poi perseverare nella domanda: «E adesso che cosa facciamo?».

Se si vuole, si può fare!

Laura Grazioli

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