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L'intervista: Rio nel mirino di Cecchini - Elena tra strada, pista ed Olimpiadi 2016

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Elena Cecchini in azione in pista - Foto da Facebook«Non esagero se dico che Elena è uno dei migliori talenti in Italia». In una Montecarlo baciata da un sole quasi primaverile Giorgia Bronzini non aveva esagerato nel presentare Elena Cecchini, udinese di San Marco di Mereto di Tomba. Diciannove anni (è nata il 25 maggio 1992), modesta ma allo stesso tempo determinata, «perché la determinazione è fondamentale, specialmente nel ciclismo». Matura sulla carta dal Luglio scorso, matura nella testa come se fosse una veterana, non una ragazza che nel 2011 ha corso per il primo anno tra le élite. Una stagione che l'ha vista protagonista in maglia azzurra sia su pista che su strada, ai Mondiali di Copenhagen, dove ha aiutato Giorgia Bronzini ad ottenere il bis iridato. Nel 2012 Elena lascerà la Forno d'Asolo per la MCipollini - Giambenini - Gauss ma ad inizio dicembre rivestirà la maglia azzurra e correrà a Cali, seconda tappa della Coppa del Mondo su pista. Nella prima, tenutasi nel nuovissimo e spaziale velodromo di Astana, la talentuosa azzurra ha portato all'Italia un bel bronzo nella Corsa a Punti.

Che dici, ripartiamo da quella Corsa a Punti?
«Una gara corsa tutta d'un fiato, non ho guardato il tabellone nemmeno una volta. Sentivo Dino [il CT della Nazionale, Edoardo Salvoldi, ndr] che mi diceva di tener d'occhio Ah Reum Na, la coreana che alla fine ha vinto l'oro. Lui era più rammaricato di me, pensa che se non avessi avuto quell'inconveniente negli ultimi giri avrei vinto la corsa. Sinceramente non lo so. Sono arrivata in fondo davvero stanca, avevo dato davvero tutto. Credo che se si affronta una corsa a punti con la giusta concentrazione, e logicamente se ci sono anche le gambe, come minimo si va a podio. È quello che ho fatto, seguendo tutte le indicazioni che mi ha dato Dino. Ero così concentrata che quasi non ricordo molto della gara».

Addirittura.
«Sì, quando sono così concentrata successivamente non mi ricordo come si è svolta una gara. Ad esempio, dopo una volata, comunque sia andata a finire, è difficile che mi ricordi tutti i dettagli. Ecco, diciamo che la Corsa a punti di Astana è stata una full immersion».

Più felice per il bronzo vinto o rammaricata per l'oro sfiorato?
«Subito dopo la corsa ero molto contenta del terzo posto. Poi, ripensandoci insieme a Dino, ho capito che avrei potuto ottenere anche una medaglia d'oro. Se nel momento cruciale non fossero cadute davanti a me due ragazze ed io, per evitarle, non avessi fatto una mossa che mi ha slacciato lo scarpino, forse non staremmo a parlare di un bronzo. Però ormai è andata così».

Hai corso anche nella Velocità.
«Premetto che nelle discipline veloci c'è un livello impressionante. Per poter competere sul serio dovrei fare solo pista e, cosa non da poco, essere dotata fisicamente. Ad Astana, in tutta franchezza, Dino mi ha fatto correre la Velocità perché l'Italia potesse raccogliere più punti possibile in vista dei Campionati del Mondo. Farò lo stesso a Cali ed a Pechino».

Dunque non era un esperimento per l'Omnium.
«No, questa volta no. L'Omnium è una gara dura. Ci vuole tanta forza, fisica e mentale. E, per quanto mi riguarda, sono ancora poco competitiva nelle prove contro il tempo».

Elena con Rossella Callovi, amica e compagna alla Vecchia Fontana ed in Nazionale © www.vecchiafontana.itSi può sempre migliorare in vista di Rio 2016.
«Sicuramente dovrò lavorare per le Olimpiadi 2016 e ci proverò, anche se abbiamo una bella squadra ed in più ci sono delle giovani veramente toste che stanno arrivando dalle categorie cosiddette minori. Penso a Beatrice Bartelloni, a Chiara Vannucci, due ragazze davvero dotate, ed alla Confalonieri. Forte fisicamente e forte di testa. Ecco, Maria Giulia ha un ottimo approccio alla gara».

Invece com'è stato il tuo approccio con il ciclismo?
«Avevo sei anni. È facile iniziare a pedalare quando hai padre, fratello e cugino che vanno in bici. Adesso anche mia cugina Silvia, che ha due anni in meno di me, corre nella Vecchia Fontana. Per quanto mi riguarda devo dire che c'è anche stato un anno in cui avevo preso un'altra strada: ginnastica artistica. Quando ho capito che non faceva per me non ho esitato a tornare in sella ad una bicicletta».

La tua prima gara.
«A Buja, con la "b" di Bologna. Conclusi nona, ma non fui la prima delle ragazze. Fortunatamente quella che vinse si ritirò alcuni anni dopo, stava quasi diventando la mia bestia nera... Da piccolina ero molto più cattiva di adesso e se non vincevo ci restavo proprio male».

La tua prima vittoria.
«La ricordo bene, era il 2004, si correva a Montereale. Quel giorno ho battuto tutti i ragazzi».

Cinque anni più tardi una stagione molto felice.
«Sì, il 2009 per me è stato un anno particolare. Correvo nella Vecchia Fontana e si era instaurato un bel rapporto con tutte le mie compagne ma in particolare con Rossella Callovi. Ai tricolori su strada di Imola lavorammo bene e finì che vinsi il titolo. Nemmeno il tempo di realizzare ed ecco la vittoria ai Campionati Europei di Hooglede. Un'altra grande soddisfazione, anche se subito non mi sono resa conto dell'impresa compiuta».

Quando l'hai capito?
«Dopo un anno ho compreso davvero cosa volesse dire essere Campionessa Europea. È stato un titolo che ha pesato - in senso positivo, chiaramente - sulla mia stagione da Junior second'anno. Tutti si aspettavano molto da me e quindi è stata un'annata difficile, soprattutto a livello mentale».

Campionessa Europea su strada 2009 tra Laura Van der Kamp e Pauline Ferrand Prevot © www.vecchiafontana.itProprio nel 2010 le tue prime apparizioni tra le élite all'Emakumeen Bira.
«Con la Nazionale. Alla prima tappa faccio subito bene, dodicesima di tappa e miglior giovane. L'Emakumeen Bira è stata un'esperienza massacrante ma splendida allo stesso tempo. La pioggia non ci ha dato tregua, i chilometraggi da élite ed i ritmi diversi da quelli delle Juniores hanno fatto il resto. Quando è finita la corsa ho pensato che il ciclismo proprio non facesse per me».

Perché?
«Troppo lontana dalle élite, sembravamo in due mondi completamente differenti, e probabilmente lo eravamo. Già l'Emakumeen Bira è una corsa dura di per sé, quell'esperienza è stata davvero dura. Però è servita molto, mi ha fatta maturare».

E lo scorso luglio è arrivata anche la maturità scolastica.
«Al Liceo scientifico, qui ad Udine. Esame superato a pieni voti, ma quanta fatica! Conciliare il ciclismo e la scuola è davvero difficile. Sono richiesti molti sacrifici. È dura, inutile negarlo. Però sono convinta che quando si ha tanta forza di volontà alla fine si ottiene ciò che si vuole».

E tu di forza di volontà ne hai da vendere.
«Bisogna averne. Poi da giovane è tutto più facile. Ad esempio, in una volata non pensi troppo ma ti butti e, male che vada, potrai rifarti alla prossima. Invece le atlete più esperte sono portate a far più calcoli, pensare che l'occasione per vincere una corsa appena perduta non tornerà più. I calcoli nel ciclismo vanno bene, ma fino ad un certo punto. Le migliori azioni spesso vengono dall'istinto».

Che tipo di corridore sei?
«Non sono una sprinter pura sebbene mi piacciano molto le volate e l'adrenalina che ti danno. Però me la cavo anche in salita. Mi sono resa conto che, soprattutto per noi ragazze, andare forte su tutti i terreni è fondamentale se si vogliono ottenere dei risultati. Andare forte in salita è stato anche più facile dopo che ho perso un bel po' di chili, complice la scuola, l'esame di maturtità...»

Ossia?
«Fino a Luglio di quest'anno, quando ho sostenuto la maturità, ero sempre sotto stress. Studiavo, mi allenavo e studiavo ancora. Insomma, in un anno sono arrivata a perdere fino a dieci chili. Il problema è che li ho perduti tutti in pochissimo tempo, a ridosso degli esami. I massaggiatori mi hanno fatto notare che muscolarmente ero diventata debolissima».

Quindi sotto a lavorare.
«Sì, perché questa carenza di massa muscolare mi ha creato problemi notevoli, ad esempio, negli Europei in Portogallo. Durante i ritiri in pista faticavo tantissimo a svolgere i lavori sulla forza. Allora ho ricominciato a mangiare un po' di più e, correndo gare come il Tour de l'Ardèche, ho ritrovato il mio peso forma, intorno ai cinquantadue chili. Devo anche dire che all'Ardèche stavo veramente bene».

Infatti hai sfiorato il podio.
«E pensare che non avrei nemmeno dovuto correre lì...»

Davvero?
«Sì, all'inizio i miei programmi prevedevano che disputassi il Trophée d'Or. Poi, per un piccolo disguido con la squadra, sono stata dirottata sull'Ardèche. Mi giocavo un posto per i Mondiali di Copenhagen, dovevo assolutamente andar forte, anche perché Dino voleva dei riscontri da me».

In Francia ottieni due quarti posti.
«Esatto, ed una settima piazza il giorno prima dell'ultima tappa. Lì non ho preso il via, mi son dovuta ritirare anche se stavo bene. Il fatto è che mi ha chiamata Dino - il giorno dopo si sarebbe corso a Nove - e mi ha detto che se fossi andata forte mi sarei praticamente assicurata il posto per Copenhagen. Conoscendolo aveva già preso le sue decisioni ma doveva motivare ogni scelta».

E così corri a Nove.
«Corro, letteralmente. Arrivo a Nove alle 4 del mattino prima della gara, dopo un lungo viaggio in auto. Gara dura, non c'è che dire. Ad ogni giro la Luperini e la Guderzo attaccavano in salita. Non pensavo di stare così bene da restare in testa fino alla fine. Sapevo invece che allo sprint la più veloce era la Scandolara. Le sono arrivata alle spalle, ma se fossi partita un istante prima forse avrei vinto».

Una vittoria era comunque arrivata a Maggio.
«Già, alla Ronde de Bourgogne. Prima tappa, fuga con Marion Rousse ed Edwige Pitel, entrambe della Vienne Futuroscope. Infilo le due ma nella cronosquadre il loro team ci dà un distacco di 4"88. E per otto decimi di secondo perdo la maglia gialla e la corsa».

Poco prima della partenza del Mondiale di Copenhagen, il suo primo da élite © Ambrogio RizziInutile dire che a Copenhagen ti sei rifatta con gli interessi.
«Prima di partire Rossella Callovi, che a Geelong aveva fatto parte della Nazionale, mi ha detto di andare al Mondiale e vivere quell'esperienza sino in fondo, perché me la sarei portata dentro per sempre. Ero in camera con Giorgia. A tratti era tesa per la gara e dispensava consigli a me che ero la più giovane del gruppo. Dieci minuti dopo la trovavi ad ascoltare musica e ballare con le altre in un'atmosfera molto rilassata. La tensione c'era, per carità, ma stemperata da molti fattori. Ad esempio dalle interviste, anche se sono convinta che se a Copenhagen non ci fossero stati anche i maschi non avremmo ricevuto tutte queste attenzioni da parte dei media. Questo per dire a che livello è il ciclismo femminile».

Gara molto tattica, quasi noiosa.
«Dev'esser stato strano per Giorgia partire quel giorno pensando che la maglia iridata vestita per un intero anno poteva finire sulle spalle di qualcun'altra. Sappiamo com'è andata a finire ma alla vigilia pochi credevano in noi».

E invece...
«Dino ci aveva detto di lasciar lavorare le altre squadre, infatti durante i giri del circuito siamo state tranquille, a volte scherzavamo tra di noi. Tutti hanno paura delle italiane al Mondiale anche se in realtà non combiniamo molto durante l'anno. Però ormai tutto il Mondo sa che in quella gara arriviamo davanti. E alla fine, sul podio, sì, mi sono commossa».

Dopo Colavita inizia una nuova avventura.
«Correrò con la MCipollini, una buona mescolanza tra atlete esperte e neoprofessioniste. Personalmente, a parte le prove di Coppa del Mondo su pista, spero di poter fare bene al Nord. Sono corse che mi affascinano molto. Vedremo i programmi con Luisiana Pegoraro, il nostro direttore sportivo. Una delle migliori nel suo campo, almeno in Italia».

Vi siete già conosciute?
«Mi ha telefonato a metà ottobre e mi ha subito detto: 'Ho un carattere difficile ma spero che ci troveremo bene insieme'. Io so che i conti si fanno alla fine di una stagione e che anch'io, nonostante tutti dicano che ho un carattere magnifico, ho le mie valvole di sfogo. Tra donne non è facile andare d'accordo, specie se due personalità forti si scontrano, ma per progredire è fondamentale trovare dei punti d'incontro».

Cosa ti ha lasciato l'esperienza con Franco Chirio al primo anno da élite?
«La Forno d'Asolo è una squadra in cui mi sono trovata benissimo. Addirittura Franco, dopo che era sfumata la partnership con Colavita e che le atlete di punta, a partire dalla Bronzini, erano andate altrove, mi ha proposto di restare come prima punta. Non me la sono sentita, sono ancora troppo giovane e voglio fare esperienza».

Ci pensi alle Olimpiadi?
«Noi giovani avremo Rio 2016. Nel 2012, a Londra, farò la spettatrice ed è giusto che corrano Bronzini, Cantele, Guderzo e Baccaille, come immagino accadrà. Hanno quest'opportunità ed è legittimo che la sfruttino».

Chi sei giù dalla bici?
«Una studentessa di Lettere, sono iscritta al primo anno. Il mio autore preferito è Paulo Coelho, proprio in questo periodo sto leggendo il suo ultimo romanzo, Aleph».

Perché proprio Lettere?
«Mi piacciono le materie umanistiche e non c'è l'obbligo di frequenza, che per allenarsi non è cosa da poco. Molti miei professori del liceo dicono che avevo tutte le carte in regola per entrare in altre Facoltà, ad esempio Ingegneria, ma ho preferito studiare delle materie che so che mi piacciono».

I tuoi hobby?
«Mi piace uscire con gli amici, ascoltare musica ed ho una passione sconfinata per la pittura. Recentemente sono stata ad una mostra a Ferrara. Ma non chiedetemi di dipingere, in quello sono davvero una frana»

La solita modesta.
«No è proprio così. In compenso non sono niente male nella scrittura. Un giorno un giornalista di Udine mi ha chiesto di scrivere un articolo su me stessa. Secondo lui ho un futuro, chi lo sa...»

Per te il ciclismo è davvero una parentesi.
«Occuperà ancora dieci, quindici anni della mia vita. A trentacinque anni penso che smetterò di correre. Il ciclismo non è tutto, specie per noi donne, specie per ciò che ci dà. Dopo vorrei restare nell'ambiente ma non come Giorgia [Bronzini, ndr], che sa già che quando smetterà farà la ds. Il mestiere del direttore sportivo è difficile, impegnativo. Bisogna essere ben preparati, insomma».

Di solo ciclismo si vive?
«No, soprattutto nel femminile. Infatti è strano sentire tante ragazze dire che di mestiere fanno le cicliste quando magari non percepiscono un centesimo di stipendio. Ci vorrebbe un cambiamento dall'alto, a livello Mondiale. Anche all'estero sono convinta che si fa molta scena, per così dire, ma non sono messe molto meglio rispetto a noi. Basta vedere la Garmin: come materiali è avanti anni luce ma hanno dovuto dimezzare il budget del femminile. Se non sei una Teutenberg o una Arndt, o se non fai parte di un corpo militare, è praticamente impossibile tirare avanti soltanto con il ciclismo».

Francesco Sulas

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