Ciclismo in crisi: Impressioni di ottobre - Una chiacchierata con Vegni e Colombo
Forse hanno in mente un passato che non ritornerà, forse un futuro di cui si fa fatica a capire i contorni. O forse, questi contorni, si comprendono sin troppo bene per poterli accettare e modificare. Amedeo Colombo, Presidente dell'ACCPI, è un signore sorridente, trasuda pragmaticità dalla sua dialettica e nell'eloquio è moderato. Mauro Vegni, a distanza di pochi metri, è impegnato al cellulare. Si libera e raggiunge l'amico Amedeo che, nonostante si sia appena goduto una gara divertente e ben organizzata come il Giro del Piemonte, è portato su prospettive ben meno rassicuranti e affatto liete. Quelle che riguardano il futuro del ciclismo.
Uno sport ed un pianeta in crisi. «La crisi economica non riguarda solamente l'Italia - afferma Vegni - ma il Mondo intero. Non è solo un problema del ciclismo ma il nostro sport attraversa un momento molto difficile. Le amministrazioni hanno sempre meno soldi e quei pochi vengono investiti più verso quanto concerne il sociale. Chiaramente noi, in qualità di RCS, soffriamo di più rispetto al passato».
Frasi già sentite da alcuni mesi, ma stavolta la situazione è davvero seria se per uscirne e per riportare in alto il ciclismo bisognerebbe, secondo Vegni e Colombo, «chiedere aiuto alla Banca Centrale Europea, vedere che intenzioni hanno i politici dei varii Paesi del Mondo». Una boutade, il riso amaro illumina per pochi istanti le bocche dei due, poi, tornando serii, ecco la ricetta di Vegni per una vera ripresa: «Bisogna ricominciare a produrre, a creare posti di lavoro e creare un circolo virtuoso dell'economia».
Così funziona nella vita come nel ciclismo, che di essa è parte. Ed il ciclismo, proprio come la vita, va avanti. Si evolve, vede entrare nuove realtà, il che non sempre è segno di progressi, di passi compiuti nella giusta direzione. In Italia, ad esempio, non si cresce, almeno da una decina d'anni. Anzi, talvolta si è costretti ad abbandonare.
Perché? «Tanti sponsor - sostiene Colombo, con un misto di rancore e rassegnazione - sono usciti dal ciclismo. Ad esempio, avevamo una grande multinazionale come Mapei ed ha abbandonato per colpa del doping nel nostro sport». Vegni si aggancia a quanto detto dall'amico: «Quello che è accaduto al ciclismo negli ultimi dieci anni, e come l'abbiamo gestito noi italiani - a mio modo di vedere non troppo intelligentemente - ha provocato l'allontanamento dei grandi gruppi». Che significa, detto in soldoni, che «in Italia, siamo sempre stati all'avanguardia su tutto, anche sulla lotta al doping. Questo però, anziché essere un fattore di merito, ha spinto molte aziende di nome ad investire in altri sport».
Mapei attualmente compare sulle maglie dell'US Sassuolo Calcio. Le aziende migrano verso altri sport o altri continenti. Gli Stati Uniti non ospitano certo gare da ieri ma sono entrati a far parte di un ciclismo che si continua - giustamente o meno - a chiamare d'élite solo negli ultimi dieci anni, appunto.
Il Nord America propone gare nate da poco ma da quasi subito entrate nel World Tour. Chi non vi è ancora, come il Tour of California, pare avere una strada spianata davanti a sé. Entrato in calendario nel 2006, grazie all'aiuto, se così si può chiamare, di AMGEN (azienda leader al Mondo per produzione di eritropoietina), si è via via sviluppato, sovrapponendosi in calendario al Giro d'Italia: a breve entrerà nel World Tour. Ovvero, come arrivare al top in sei edizioni (per altri, come il Tour of Beijing, è bastato molto meno, a dire il vero).
Data l'esperienza di RCS, ci sarebbe da essere furiosi per la sovrapposizione temporale attuata dall'UCI con la propria manifestazione principale, il Giro d'Italia, mentre per Vegni l'entrata degli Stati Uniti nel ciclismo «è naturale». Così come lo è l'arrivo imminente della Russia con il Tour of Sochi e l'espansione verso altre lande, leggasi Cina, «perché nel 2011, con le tecnologie e con i mezzi di comunicazione di cui disponiamo, dire Cina è come dire qua dietro l'angolo. Ecco perché non ci vedo niente di male in un ciclismo che va fuori dall'Europa. Eravamo abituati al ciclismo eurocentrico, ora non si corre solo qui da noi ma in tutto il Mondo».
Molta pacatezza nei toni, molta rassegnazione che si fa virtù nei contenuti di chi dice che Russia, America e Cina «entreranno» e non ci si può opporre «perché le squadre verranno obbligate ad andare a correre in quei posti ed in cambio riceveranno un bel compenso». Insomma, la mondializzazione del ciclismo è inevitabile e chi si oppone si fa danno da sé. Questo a beneficio dei pochi privilegiati, come è solito accadere.
Ma qui arriva il colpo di scena, come si direbbe. «Il ProTour - afferma Colombo - ha rovinato le squadre italiane. Ne sono entrate solo due e allora le altre che non hanno potuto prendervi parte si sono sentite defraudate. Chiaramente per lo sponsor che non vede la propria squadra disputare le maggiori corse al Mondo - Giro d'Italia, Tour de France, le classiche e via discorrendo - diventa difficile restare in gruppo per non poter gareggiare ai più alti livelli».
Ricapitolando: è giusto, «naturale» o quantomeno inevitabile che Paesi dalla storia ciclistica modesta (quando va bene) entrino nel giro che conta perché il ciclismo non è solo in Europa. Ammettiamo che ciò non sia giusto: non importa, le squadre sarebbero obbligate ad andare a correre in «quei posti», ricevendo una lauta ricompensa. Condivisibile o meno, il ragionamento una sua logica ce l'avrebbe. Ora salta fuori che il ProTour fa male al ciclismo e alle squadre italiane. A quelle squadre che, escluse dal massimo circuito ciclistico, vedono i loro sponsor non raggiungere obiettivi e, conseguentemente, buttarsi in altri campi.
Qualcosa non torna. O si è d'accordo su un ciclismo mondiale in tutto e per tutto o non lo si è. Tirando ancor più le fila, si vorrebbe avere un circuito mondiale con squadre europee e, possibilmente, più compagini italiane. La teoria non va d'accordo con la cruda realtà, che vuole corse più forti economicamente prevalere su Classiche d'epoca (decidete voi se il valore tecnico, o semplicemente il grado di coinvolgimento, di un Tour of Beijing possa essere pari a quello di un Giro dell'Emilia o di un Lombardia) e squadre dalle casse gonfie avere la meglio (ossia migliori palcoscenici) su formazioni escluse da un club in cui solo chi può permetterselo entra. E nemmeno sempre.
Ecco, il neofita a questo punto affermerà: "Saranno tutti top team". Niente affatto, secondo Amedeo Colombo. Spesso si parte con budget che non permettono di correre nel World Tour. A tal proposito non è di molti giorni fa la voce secondo cui il nuovo colosso australiano GreenEDGE, 28 corridori già acquistati e un pass per l'ingresso nell'Olimpo (se così si può chiamare) praticamente certo, è alla ricerca di nuovi sponsor (lo troverà, ma fareste entrare spedita nel World Tour una squadra così?). Un progetto abizioso, con un settore maschile e femminile, che deve andare a cercare partnership per poter sperare di partire. Per non parlare di Highroad, gruppo preso a modello da tutti nell'ambiente del ciclismo, che nonostante vanti più di 500 vittorie all'attivo ed un fresco Campione del Mondo non è riuscita a trovare uno sponsor per il 2012.
Tornando alle parole di Colombo egli afferma che «c'è un gruppo di squadre che vuole stare nel World Tour per forza, senza avere un budget adeguato. Ma per forza non si fa niente». La conseguenza più diretta di questo «voler star lì per forza» è che i corridori spesso non ricevono lo stipendio, o lo ricevono con grande ritardo. E così le piccole squadre, come le piccole corse, muoiono per far spazio a tigri di carta, che dopo poco tempo, a volte è solo questione di mesi, si fondono con altri colossi (o presunti tali). Pena: la chiusura, delle squadre così come delle manifestazioni.
Soltanto guardando in casa nostra troviamo una miriade di corse scomparse, di cui buona parte è o era gestita da RCS. Di quest'ultima facevano parte: Giro del Lazio, Milano - Torino, Giro della Provincia di Lucca, Primavera Rosa (per intenderci, la Sanremo femminile). Anche il secondo organizzatore d'Italia, Adriano Amici, ha comunicato che entro due anni il G.S. Emilia chiuderà i battenti.
Vegni e Colombo ascoltano, riflettono, ribattono. «In Italia esistono comunque corse come la Milano-Torino o il Giro del Veneto». Dettaglio: nel 2011 non solo la Milano-Torino non si è disputata ma neanche il Giro del Veneto. Quanto al Giro del Lazio, morto dal 2009, parla il laziale Vegni: «So cos'era il ciclismo nel Lazio trent'anni fa, so cos'è oggi. Sapete qual è stata la crescita del movimento? Nessuna, zero! Non si vuole investire, i movimenti non crescono e non si riescono ad organizzare le corse».
Qui potrebbe entrare la Federazione e risollevare le sorti di queste corse, di queste squadre. Vegni e Colombo, prontamente ribadiscono che «anche la FCI ha i suoi problemi in questo periodo, mancano i fondi. Bisogna aiutarsi l'un l'altro, non fare un triangolo composto da corridori, organizzatori e Federazione». Squadre che si fondono o scompaiono, corse che muoiono, stipendi non pagati, incapacità manageriale, mancanza di investitori.
Ci sarà pure una soluzione, un modo di uscire da questo circolo vizioso. Il sospiro del pur non arrendevole Vegni e la risata amara del pacato Colombo la dicono lunga sui tempi di ripresa del malato chiamato ciclismo. E l'esagerata diplomazia, metodo efficace in buona parte delle situazioni, pare trasformarsi in asservimento, in resa incondizionata.
«In fondo - concludono quasi all'unisono - ci sarà pur sempre il calcio in primo piano ma il nostro sport ha una sua unicità: non chiede il biglietto, basta scendere in strada per vedere i corridori passare». È così: a volte scendiamo in strada e vediamo il gruppo sfrecciare davanti a noi, sibilando e facendo vento per pochi secondi, altre vi è il silenzio tombale, o il frastuono delle automobili. Sul muro un semplice annuncio funebre recita: "Milano-Torino, 1876 - 2007". La scritta muta con il passar delle stagioni, via via che voltiamo i fogli del calendario. La sostanza è sempre la stessa. E la rinascita lontana anni luce da qui.