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Il Lazio brilla con Figueras - Ma il Pro Tour strozza queste gare

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Hanno ridato al Giro del Lazio un palcoscenico più consono alle tradizioni della corsa; mancano un po' di attori, in realtà, ma d'altronde in un periodo così inflazionato di corse non c'è da attendersi qualcosa di diverso. Si corre quasi ovunque, e la collocazione agostana della prova laziale di certo non aiuta ad avere una maggiore partecipazione. Si dice che lo si è fatto per la gente, per favorire l'affluenza di tifosi ed appassionati: mentiremmo se dicessimo che non c'è stata una grossa miglioria, rispetto alla 71a edizione che terminò a Nettuno nel 2005, ma è altresì certo che una gara Hors Categorie come il Giro del Lazio non può contare la miseria di 104 partenti e 64 arrivati. Non può. Ne va del blasone.
Dicevamo del pubblico: tanto, tantissimo. Difatti ci si è anche un po' stupiti - dopo gli ultimi accadimenti - nel vedere così tanta gente sulle strade della "città più alta dei castelli romani". Si è avuta però la conferma/certezza che il ciclismo è una sagra paesana, è una festa folcloristica, una questione di costumi e di piazza. Nell'accezione più positiva possibile, certamente. Aggregazione, ed applausi per tutti. Dal primo all'ultimo.
Già, dal primo all'ultimo oggi è passato più di un quarto d'ora, quindici-minuti-e-trentanove-secondi, per la precisione, anche perché la corsa è stata veramente bella e combattuta. Un percorso vallonato, un arrivo posto su un'ascesa sicuramente non impossibile, ma tagliagambe. Una valorizzazione che ha portato la gente a riversarsi sulle strade del Giro del Lazio, ed ha spinto i corridori più in forma del momento (perlopiù italiani, però) a darsi battaglia per aggiungere al proprio carniere una corsa dal blasone consistente come lo è la corsa laziale.
Più di un quarto d'ora, si è detto, tra Figueras e Dyudya, in un ideale passaggio di consegne tra l'ultimo a scattare ed il primo a provarci seriamente, seppur con Cucinotta e Marinangeli. L'unico non italiano tra i primi 24 è Alexandr Arekeev, russo dell'Acqua&Sapone che ha terminato in nona posizione. Una rivincita del campionato italiano friulano, insomma. Spiace, c'è l'amaro in bocca, perché il Pro Tour sta massacrando le corse italiane (e spagnole) e continuerà a farlo, se qualcuno non interverrà. Gettare nella mischia di un calendario intriso di appuntamenti (da Camaiore al Matteotti alla Due Giorni Marchigiana, durante il Giro di Germania e tra Amburgo e San Sebastian) una corsa cardine come il Giro del Lazio è voler farsi male. E dispiace anche per tutti quei corridori presenti che si sentono sminuiti dagli assenti. Gli assenti han sempre torto, per carità, ma di certo l'ubiquità è una dote non comune. L'induzione all'assenza, quindi, è pecca più grave.
E tra i rimbrotti dovuti e la bella sensazione di una giornata soleggiata e fresca, come tradizione dei castelli romani, Giuliano Figueras si è preso una parte di storia di questa corsa: si è preso la 72a edizione del Giro del Lazio. A 4 km all'arrivo, Cunego in gruppo a fare da spauracchio, Giordani appena ripreso da un superlativo Commesso e un generosissimo Visconti (che lavorava per Celestino, ancora piazzato), parte il napoletano e fa il vuoto. Sette secondi che diventano dieci. Dieci secondi che diventano quindici all'ultimo chilometro. È solo Giuliano, nessuno lo insegue su quel bel drittone (De Gregori ci perdonerà la concessione). Completa l'opera iniziata al Brixia Tour, e lo fa da bravissimo corridore qual è.
Ed ottima anche la Lampre, che è riuscita ad ottenere bottino pieno da una situazione che era diventata piuttosto intricata: non tanto per la presenza di Mazzanti e Sella per la Ceramica Panaria, né per la coppia Garzelli-Paolini in casa Liquigas, ma quanto per la massiccia macchia giallo-bianco-blu proveniente dai cinque Naturino davanti (Agnoli, Gasperoni, Ratti, Giordani e Gentili). Anche la squadra di Santoni ha giocato bene le sue carte, provando l'attacco da media distanza con l'autoctono Giordani: come nel 2002, però, ultimi chilometri fatali all'atleta romano, ripreso e staccato. È mancata poi la gamba agli altri quattro portacolori del team marchigiano per il contrattacco, ma non è ovviamente uno sbaglio tattico, quello, anche perché Figueras non ha aspettato molto a partire ed il suo scatto ha fatto male.
Ci ha provato Anzà a riprendere Giuliano, ma Cunego gli si è subito incollato la ruota a mo' di stopper. Ed il viso di Damiano nel finale, sul podio, è stato davvero sintomatico: Figueras ha detto che il veronese gli ha fatto i complimenti dopo il traguardo, ed è ovvio e giusto, però il viso di Cunego diceva che lui, oggi, voleva vincere. Ed è stato bello vederlo. Bello vederlo motivato, anche un po' incazzato col destino se vogliamo, bello vederlo saltare su quei pedali ed andarsi a prendere il secondo posto con una bici di vantaggio su Sella ed almeno due su Bossoni (quinto a Camaiore, quarto a Rocca Priora: a quando il podio?), e con Garzelli, Celestino ed Anzà a chiudere il gruppetto dei primi inseguitori.
Bello perché un campione che ci tiene a vincere, quando sta bene, accarezza il cuore. Bello perché denota combattività e voglia. Certo, magari qualcuno potrebbe travisare e pensare che, in fondo, sia un po' ingiusto nei confronti di Figueras. Ma no che non lo è, e lo sa lo stesso napoletano. Il ciclista in fondo è un individualista, un egocentrico: lo sanno anche Cucinotta e Dyudya che, dopo un quarto d'ora e più dall'arrivo del campano in maglia blu-fucsia, si son presi la loro ennesima razione d'applausi, dopo quelli guadagnati con la fuga. Applausi, già, dal primo all'ultimo.
Però oggi è stato bello soprattutto vedere sorridere Figueras sul podio col pollice in alto: «Ciclisticamente parlando - sottolinea - oggi sono rinato». E allora fuori il fiocco blu.

Mario Casaldi    

 

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