Un sindacato che funziona - Cioè l'AIC di Campana. Intervista
Versione stampabile Chi scrive ha il mito del basket NBA come organizzazione e gestione di uno sport, e sogna un David Stern (il commissioner - ovvero chi guida praticamente in tutto e per tutto - dell'NBA, appunto) anche nel ciclismo. Ma senza andare necessariamente oltreoceano, se alziamo lo sguardo al nostro italico orizzonte, troveremo anche qui esempi da cui imparare e - possibilmente - da perseguire.
L'AIC, Associazione Italiana Calciatori, è nata nel 1968 e in 40 anni è cresciuta fino a diventare una delle organizzazioni più potenti del calcio italiano (e - di conseguenza - mondiale). Sergio Campana è il suo storico fondatore e presidente, e lui intervistiamo per sentire se le dinamiche di sindacalizzazione del suo sport possono essere esportate nel ciclismo, che - sia permessa la chiosa - dovrebbe anche imparare (laddove fosse il caso) dal calcio, e non solo invidiarlo.
Ci parla un po' dell'AIC e di quello che ha fatto e fa?
«Lunedì scorso abbiamo festeggiato il quarantennale della nostra attività. Se siamo durati tanto, evidentemente qualcosa di buono l'abbiamo realizzato, partendo dallo status giuridico del calciatore e dal suo rapporto con le società, e arrivando a migliorare anche la struttura stessa del calcio in Italia, a livello di Federazione e Lega. Nel 1968 il calciatore era un cane sciolto, non era nessuno, era un oggetto in mano alle società, che ne facevano quel che volevano; e non aveva alcun diritto riconosciuto, da quello alla previdenza e al trattamento di fine lavoro, a quello di voto in seno agli organi dirigenziali di questo sport. Oggi è parte attiva nel governo del calcio, e quel che è più importante, anche le altre discipline, sulla scia del nostro impegno, hanno attuato simili riforme».
Quali sono state le battaglie (vinte) più importanti?
«Ricordo che le nostre prime rivendicazioni riguardarono il contratto collettivo e la previdenza. Per dire, negli anni '60 c'erano contratti che prevedevano un taglio dello stipendio fino al 40% se un calciatore non disputava almeno 24 partite di campionato. Non faccio l'elenco di quelli che stranamente chiudevano il torneo con 23 partite all'attivo, ma erano tantissimi. Per la questione previdenziale, mi recai con Fulvio Bernardini, rappresentante degli allenatori, dal ministro del lavoro Coppo. Mi disse: "Caro Campana, lei avrà i capelli bianchi e i calciatori non godranno di questi diritti". Dopo due anni i capelli li avevo ancora biondi, ma l'AIC aveva vinto la battaglia».
E poi come dimenticare la celebre lotta per lo svincolo dei giocatori...
«Feci una denuncia a un magistrato perché il calciomercato era più che altro un mercato delle vacche. I calciatori venivano comprati e venduti e non avevano alcuna possibilità di rifiutare un trasferimento. Il pretore di Milano Costa Viola bloccò addirittura il mercato, io personalmente mi presi dell'irresponsabile o del folle, eppure dopo un anno e mezzo, nel 1981, venne finalmente abolito il vincolo e venne riconosciuto il diritto a un contratto a tempo determinato che non incatenasse il calciatore».
Com'è riuscito a farsi seguire dai calciatori attraverso tutte queste battaglie sindacali?
«Fondamentale è stata la discesa in campo dei più forti, che ci hanno messo la faccia. Rivera, Mazzola, Bulgarelli, De Sisti, erano in ritiro con la nazionale quando mi chiamarono per propormi la presidenza dell'AIC. I "gregari" hanno poi seguito i campioni, e questa dinamica è proseguita fino a oggi, perché qual che è importante è che l'impegno dei big va a favore della stragrande maggioranza di atleti che non si arricchiscono. Dietro alle poche centinaia di professionisti che hanno contratti da capogiro, ci sono migliaia di giocatori - diciamo a partire già dalla serie B - che faticano a prendere lo stipendio. Ecco, i campioni si sono sempre impegnati non per i propri interessi, ma per quelli dei più poveri».
Voi siete arrivati addirittura a fermare la serie A con uno sciopero. È utile varare forme di protesta così drastiche?
«Quando si è acquisita una buona credibilità come organizzazione, lo sciopero basta minacciarlo. È capitato varie volte, poi si è sempre giunti a un accordo. In un'occasione ci trovammo a casa del presidente federale Matarrese alle 20 del venerdì che lo sciopero era confermato, e alle 21 avevamo trovato una soluzione. Nel '96 invece scioperammo davvero per il fondo di garanzia per i calciatori senza stipendio (in particolare quelli di società che falliscono) e per l'abolizione del parametro. Ricordo le pressioni politiche a tutti i livelli nei miei confronti, ricordo un'assemblea infuocata, ricordo un appassionato intervento di Vialli, e ricordo che dopo lo sciopero ottenemmo quanto chiedevamo. Però ripeto che questa credibilità che abbiamo acquisito non si risolve in richieste corporativistiche, ma in lotte che tendono a migliorare il calcio, a partire dal settore giovanile, proseguendo con la limitazione dell'utilizzo di giocatori stranieri, finendo con l'impegno per rendere più giusta ed efficiente la giustizia sportiva».
In tutto ciò i media vi hanno appoggiato o boicottato?
«Ci hanno sempre dato una grande attenzione, e per questo li ho anche ringraziati nel mio discorso di lunedì. Certo, all'inizio specialmente abbiamo ricevuto critiche e ostilità (pilotate dall'alto, parlo di FIGC e politici), venivamo definiti "il sindacato dei nababbi"; prima della nostra prima riunione, Sandro Mazzola venne chiamato dal direttore della Gazzetta che cercò di dissuaderlo dicendogli che se noi andavamo avanti, provvedevano loro a boicottarci».
Come si comporta l'AIC in caso di positività di un suo associato?
«Abbiamo fatto sempre un grande lavoro di informazione, c'era molta superficialità in merito, tanti parlavano di intrugli pronti ad aspettarli a fine allenamento (e loro li bevevano, ovviamente). Abbiamo fatto chiarezza in questo senso, certo l'attività agonistica esasperata non aiuta a evitare il ricorso a sostanze - lecite o illecite che siano - che aiutino il recupero. Comunque credo che il fenomeno nel calcio sia limitato, oggi più di ieri; del resto abbiamo anche fatto tanto per l'introduzione dei test incrociati sangue/urine, e siamo nella commissione di ricerca sulla SLA predisposta dalla Federcalcio».
Ma tecnicamente e praticamente, cosa fate quando un vostro atleta viene testato positivo all'antidoping?
«Mettiamo subito a disposizione i nostri avvocati e tutti gli strumenti difensivi del caso, e vigiliamo perché vengano rispettate regole e procedure (per esempio riguardo alle controanalisi). In futuro vorremmo giungere al risultato di non veder divulgati i nomi dei positivi prima delle controanalisi».
I calciatori si avvalgono poi effettivamente dell'aiuto dei vostri avvocati?
«Quasi sempre sì; addirittura alcuni si lamentano pure, se non vengono assolti (cosa che a volte è impossibile), ci accusano di non aver fatto il massimo».
Lei chiederebbe una misura come la radiazione per i suoi associati, in caso di doping?
«Non sono tipo da far demagogia. Alla prima positività è giusta una sanzione rigorosa, ma non definitiva; se ne può parlare alla seconda positività, ma ricordo che gli sportivi sono lavoratori subordinati, e impedir loro di fare il loro mestiere andrebbe contro le leggi che regolano il mercato del lavoro. Credo che un ricorso dell'atleta alla magistratura ordinaria sarebbe accolto, per questo - molto pragmaticamente - non trovo l'idea della radiazione realmente utile e applicabile».
Nel ciclismo invece tali proposte nascono proprio in seno al sindacato.
«Mi pare che nel ciclismo la dignità dell'atleta sia stata (e continui ad essere) più volte violata. Arrivo a dire che c'è in atto quasi una persecuzione nei confronti di questo sport, forse qualcuno vuol dare esempio di rigore e sport pulito e si accanisce sui corridori».
Sembra la descrizione dell'attività di WADA e CIO... Secondo lei i calciatori accetterebbero il regime di controlli a cui sono sottoposti i ciclisti? Accetterebbero, per esempio, di dare la loro reperibilità anche quando vanno in pizzeria con la famiglia?
«Non abbiamo mai preso in considerazione questa cosa, la trovo inconcepibile e irrealizzabile; se venisse proposta stia tranquillo che l'AIC e io in prima persona reagiremmo molto duramente».
È così difficile far passare il concetto che la ricchezza e la popolarità non prevedono come contrappasso la rinuncia a fondamentali diritti?
«Sì, è difficile. Tuttora è complicato far passare l'idea che il calciatore sia un lavoratore subordinato (per esempio il rapporto con le società non è oggetto di studi giuridici), soggetto a limitazioni e regole (un orario di rientro la sera, il non poter fare determinate cose come andare in moto). È difficile convincere la gente che lo sportivo è un lavoratore come tutti gli altri; eppure la verità è proprio questa».