Il Portale del Ciclismo professionistico

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I nostri Tourbamenti - Come reagiamo ai soliti giochetti?

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Dodici mesi fa c'erano Basso, Vinokourov, Ullrich e Mancebo, su tutti, che erano già a Strasburgo, avevano effettuato i canonici test antidoping dell'Uci (quelli effettuati anche alla vigilia di questo Tour, ed hanno dato 189 esiti negativi, come dodici mesi fa), ed erano pronti a prendere parte al Tour de France. Poi lo scoppio definitivo di Operación Puerto e quello conseguente della Grande Boucle, col pasticcio finale della positività di Landis (l'ultima sentenza deve ancora essere pronunciata) e della non-negatività di Pereiro Sio (più o meno la stessa storia di Petacchi, con esiti diversi).
Oggi, chi prenderà il via del Tour de France 2007 si trova già a Londra, cornice di partenza del "Grande Ricciolo" francese. Chi prenderà il via, già. Siamo costretti a scrivere questo, perché chi non firmerà l'ennesima carta straccia ideata dall'Uci (dove il ciclista deve impegnarsi a dichiarare che non è implicato in OP e non si doperà in futuro), da Londra non partirà. Dodici mesi fa ci violentammo per presentare come si deve un grande evento come il Tour, nonostante tutto, nonostante le starting-list cambiassero ogni sei, sette secondi. Quest'anno no, non abbiamo pazienza, né voglia, di inseguire e tentare di acciuffare un carrozzone così ingarbugliato, incasinato, arruffone, come quello confezionato da Uci ed Aso, rispettivamente il massimo organismo ciclistico internazionale e la società francese di organizzazione del Tour de France.
Dodici mesi fa pensavamo che, collegialmente, il ciclismo avesse toccato il suo fondo, o che comunque quel fondo non potesse essere lontano addirittura più di dodici mesi. Pensavamo che il Tour 2007 sarebbe partito con un dorsale numero 1 (invece si partirà con l'11, proprio di Pereiro Sio), indice che si fosse a conoscenza del vincitore da scrivere nell'albo d'oro di quella che, universalmente, è riconosciuta come la corsa ciclistica più importante del mondo, addirittura il terzo evento sportivo più seguito, dopo le Olimpiadi e i Campionati del Mondo di calcio.
Invece, no. Invece ci siamo dovuti rendere conto che il nostro ottimismo (che dodici mesi fa pareva pessimismo) è tuttora reso vano da una politica internazionale, interna (e non solo) al ciclismo, assolutamente e totalmente confusionaria. Rimettere insieme i pezzi dell'ormai annosa querelle tra Uci e Grandi Organizzatori (RCS, Aso e Unipublic in rappresentanza di Giro, Tour e Vuelta), punto da cui è partita tutta una tiritera inenarrabile e incredibile da raccontare, sarebbe un lavoro troppo lungo, e probabilmente neanche troppo centrato al vero problema odierno del ciclismo: il dilettantismo dei propri massimi dirigenti, e le lotte di potere che sono scaturite da determinati accadimenti.
Si sa, nel ciclismo (la voglia di scrivere: "nello sport professionistico" è tanta, ma siamo un sito di ciclismo, e tant'è...) c'è il doping. Bella scoperta, direte voi, e infatti non vogliamo mica dirvi che, aprendo il rubinetto di sinistra del vostro lavandino, l'acqua uscirà a temperatura più alta rispetto al corrispettivo rubinetto di destra. Mica siamo scemi, e sappiamo che non siete scemi neanche voi. L'Uci, l'Unione Ciclistica Internazionale, ha sempre combattuto in maniera molto blanda questo tipo di fenomeno, almeno fino ad un detto punto. Quella linea di confine è il Tour del 1998 e lo scandalo Festina, scoperto ovviamente non dall'Uci (che prima si limitava a penalizzare con dei minuti in classifica generale chi veniva trovato ai pochissimi controlli antidoping), ma dalla Gendarmeria francese, che aveva reso esecutivo il nuovo disegno di legge francese che voleva il doping come un reato penale; non più solo - dunque - un comportamento antisportivo.
Sui perché si sia scelto proprio il Tour, come punto di partenza, qualche idea ce la si può anche fare: come già detto, il Tour è il terzo evento sportivo più seguito e la cassa di risonanza è enorme; il ciclismo è uno sport gratuito per gli spettatori, e soprattutto in Francia è quasi sport nazionale, alla pari con il rugby; i tifosi, anche quelli più "rumorosi", di ciclismo non sono affatto teppisti né rivoltosi, e non si rischiava nulla di particolarmente grave per l'ordine pubblico; ed anche perché ci sarà stata qualche imbeccata sulla pressoché certezza di trovare delle sostanze dopanti all'interno del plotone, mica vogliamo nasconderci né giustificare nessuno.
Insomma, il Tour '98, e la Francia, hanno aperto una nuova strada, hanno fatto giurisprudenza. Evidentemente, i francesi, avendo avuto certezza, dopo vari tentativi di canalizzare il doping grazie al monopolio (difatti alcol e sigarette, che fanno male tanto quanto il doping, se non di più, non sono vietati da alcun Paese, proprio perché gli Stati ci guadagnano, grazie a quelle vendite), di non potervi riuscire (per via di profonde infiltrazioni criminali nella sfera del doping, in primis, e per lo strapotere delle ditte farmaceutiche in seconda battuta), ha deciso di bandirlo, di renderlo reato.
E qui il problema, per il ciclismo, s'è fatto serio, perché tutta la generazione di "grandi vecchi", quelli cresciuti a pane&anfetamine, o a tarallucci&simpamine, sapevano, erano coscienti, che nel ciclismo ci fosse doping, ed aver reso una pratica così diffusa e vissuta in maniera così facilona, nel ciclismo come negli altri sport (presente, tanto per citare un caso, i caffè "corretti" di Herrera all'Inter?), addirittura un reato, ha gettato nel panico e nella confusione tutti quei "grandi vecchi", nel frattempo divenuti dirigenti molto importanti del ciclismo mondiale, assolutamente impreparati ed inadeguati al ruolo.
Eccolo, dunque, il dilettantismo del ciclismo, e le lotte di potere che ne sono scaturite. Chi aveva un minimo di preparazione manageriale, nel ciclismo, s'è reso ricco e potente, ed ha impoverito tutto il movimento. Eccola l'Italia, che ha subito seguito la Francia nella legge sul doping, innalzare Ceruti (ex presidente della Federciclismo) e Squinzi (patron Mapei, ora passato alla Nazionale italiana di calcio), ed affossare - con buona grazia del Coni - Marco Pantani, il simbolo della rinascita ciclistica italiana nelle grandi corse a tappe. L'uomo che appena 10 mesi prima di quel 5 maggio '99 aveva salvato il Tour e Leblanc (altro ex corridore, manager dilettante, divenuto nel frattempo potente), l'uomo che era tornato a far sognare il mondo del pedale, non solo italiano, con la doppietta Giro-Tour nel 1998, escluso dal Giro '99, che stava nel frattempo dominando per un ematocrito alto, un tipo di test che appena 7 mesi dopo sarebbe stato disconosciuto dagli esperti dell'antidoping, visto che l'ematocrito fine a sé stesso, se non confrontato con l'emoglobina, dice assolutamente niente sull'eventualità di assunzione di Eritoproietina, la famigerata Epo che ha sconvolto il ciclismo di fine anni '90 (ora, invece, aspettando [?] il doping genetico, il cavallo di battaglia è il Gh, ormone della crescita introvabile ai controlli).
Era il sensazionalismo italico a voler dipingere il mitico Marco Pantani come il "dopato d'Italia". 7-Procure-7 alle calcagna, una persecuzione giudiziaria e mediatica che non ha avuto pari, neanche quando, in altri sport (presente, tanto per citare un caso, il processo alla Juventus, al medico sociale Agricola e all'amministratore delegato Giraudo, con i calciatori, tra cui alcuni Campioni del mondo di Germania 2006, fare la figura dei fessi?), era molto più palese il ricorso a pratiche dopanti.
È toccato poi, tra le Nazioni ciclisticamente evolute, al Belgio, con Frank Vandenbroucke (che ancora oggi entra ed esce dal professionismo con la stessa facilità con cui entra ed esce da cliniche psichiatriche, anche lui indagato da tante procure) e Johan Museeuw, seppur post-carriera, "utlizzati" come specchio per le allodole. All'appello mancavano Spagna e Germania, Paese, quest'ultimo, che grazie al fenomeno (sportivo e mediatico) Ullrich, ed in maniera minore Zabel, è cresciuto moltissimo nell'ultimo decennio.
La Spagna ci ha lavorato nel 2006, alla legge antidoping che è entrata in vigore dal gennaio 2007, e proprio a metà dell'anno scorso, a fine maggio, c'è stata la retata nell'abitazione e negli studi madrileni di Eufemiano Fuentes, ginecologo con la licenza di dopare sportivi, che ha sconvolto, ancora una volta, il (solo) ciclismo: ciclisti, e poi - a quanto diceva Fuentes - calciatori, intere squadre di calcio, atleti, tennisti, cestisti, pare addirittura piloti di Formula Uno.
L'unico organismo internazionale a chiedere lumi alla Spagna ed alla Guardia Civíl? Ovvio, l'Uci! Ed ecco che i codici affibbiati alle sacche son diventati cognomi reali: Basso, Ullrich, Mancebo, Vicioso, tutta la Liberty Seguros di Manolo Saiz, mezza Comunidad Valenciana di Belda, e poi altri, tanti altri. 58 ciclisti, si diceva e si dice, con tanti (Valverde? Pereiro Sio?) che sono stati subito coperti, mentre altri (Basso ed Ullrich su tutti) son serviti all'Uci prima per perpetuare la propria lotta con gli organizzatori dei Grandi Giri (Basso era l'ultimo vincitore del Giro d'Italia e si apprestava a tentare la doppietta, con il teutonico Jan che era il suo grande rivale, avendo già vinto il Tour del '97, prima dell'ottennato Pantani-Armstrong, quest'ultimo difeso più volte [nel '99 il primo caso, a fine carriera il secondo] dall'Unione Ciclistica Internazionale), e poi ad addirittura tre Paesi per dimostrare la loro inflessibilità verso la lotta al doping: la Spagna, che ora ha una legge antidoping, ma che non ha sacrificato (anzi, pare abbia coperto tutti i maggiori: da Valverde al tennista Nadal, dal pilota Alonso a Pereiro Sio) alcun proprio rappresentante; all'Italia, che essendo federazione in lotta con l'Uci, aveva molti interessi nel far notare le crepe dei controlli antidoping del massimo ente ciclistico internazionale, e far valere la propria - in opposizione - ferrea disciplina e massima competenza, addirittura scomodando Petrucci, Torri, il Coni e la Procura antidoping dell'organismo olimpico italiano; la Germania, che adesso discuterà la legge antidoping nel proprio Stato e che, con le confessioni di Zabel, Henn, Bölts, Riis (danese, che correva però nel Team Telekom), ed ora Jaksche, si sta sverginando, un po' quello che è successo in Italia dopo il "bubbone" Pantani, e tutte le varie accuse/ammissioni iniziate da quel punto.
Ecco dunque la situazione attuale del ciclismo mondiale, alla vigilia del suo appuntamento centrale che è il Tour de France: l'Uci, due settimane fa, ha detto che sta seguendo una decina di "men in black" (ma che corsi di comunicazione fanno ad Aigle?) che, a loro dire, si mimetizzano in allenamento per sfuggire ai controlli a sorpresa; la stessa Uci ha chiesto reperibilità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, 365 l'anno, a tutti i ciclisti del Pro Tour, praticamente una libertà vigilata; per Petacchi è stato appena chiesto un anno di squalifica per abuso di Ventolin (che contiene salbutamolo, un beta-2-agonista che, se assunto in maniera massiccia, perlopiù via endovenosa, aumenta la capacità bronchiale), più o meno la stessa non-negatività che permette a Pereiro Sio di correre senza alcun battito di ciglia da dodici mesi a questa parte, o allo stesso Piepoli, trovatosi nella stessa situazione dello spezzino all'ultimo Giro d'Italia, di "farla franca" solo perché è tesserato con la Federazione Ciclistica Monegasca.
Lotte di potere, dicevamo, e dilettantismo dirigenziale. Lo stesso che permette al Cpa (Associazione Ciclisti Professionisti Europei), presieduta da Moser (ex corridore, manager dilettante, che ha assunto una posizione di potere per meriti sportivi, alcuni dei quali in concorso di merito [allora lo era] con il professor Conconi, uno scienziato, tuttora attivo, che dopava [lo stabilisce un tribunale, mica noi] gli atleti, ed era finanziato dal Coni, lo stesso ente che ora squalifica Basso e Petacchi, tanto per dirne due non a caso), di far firmare ai ciclisti che sabato prenderanno il via da Londra per correre il Tour de France, una dichiarazione, anzi, una dichiarazione mascherata da autocertificazione, di "pulizia": "Io, taldetali, assicuro davanti alla famiglia del ciclismo, a Dio, ai miei compagni, ai tifosi, che non mi dopo e non mi doperò". Questo, a grandi linee, l'incipit ideato dall'Uci. La pena? Oltre alla squalifica, la detrazione di un anno di stipendio, l'anno della positività. A chi andranno i soldi? Che domande, all'Uci! Dei geni, se non fosse che non ci troviamo in una commedia di Woody Allen, ma ci troviamo nella vita reale, vera, con soldi in ballo, carriere che scricchiolano, e dirigenti incapaci e in malafede che non vedono l'ora che qualcuno finisca in un fosso per saltargli sulla carcassa, ballargli sulle costole un po' di tip-tap, e magari sedersi su sedie più importanti di quella che scaldano ora, grazie a quel balletto così ben confezionato.
Ecco perché, a malincuore, ma mica tanto in fondo, visto che il ciclismo non inizia e non finisce col Tour de France e con gli uomini, visto che luglio ci offre il Giro d'Italia femminile e una corsa italiana che merita visibilità come il Brixia Tour, la Grande Boucle 2007 la seguiremo con un occhio solo: microscopio al lumicino, commenti di tappa e poco altro; niente diari dalla corsa, niente focus con personaggi esterni, niente approfondimenti. C'è il Tour, e lo sappiamo; non possiamo snobbarlo completamente, perché il nostro dovere è raccontare, e - mica ci nascondiamo - non ci converrebbe neanche far finta che il Tour non esista. Anche perché, poi, alla fine, il Tour, noi di Cicloweb.it, ce lo guarderemo comunque.
E ci incazzeremo anche quando Klöden non scatterà dietro Evans perché la Maglia gialla è già di Vinokourov, quando Boonen anticiperà di un soffio Bennati in un arrivo in volata (uno dei tanti), quando Rogers a cronometro farà cadere il mondo ed arriverà ad un soffio dal vincerlo, questo Tour de France. Lo faremo, perché a noi il ciclismo piace.
Però dobbiamo e vogliamo far sapere ai McQuaid, ai Verbruggen, agli Adorni, ai Prudhomme, ai Leblanc, ai Torri, alle Melandri, ai Lissavestky, ai Fonseca, ai Moser, ai Colombo, ai Lefévère, ai Riis, agli Stanga, ma anche agli Jaksche, ai Basso, ai Di Rocco, a tutti i firmatari di quell'ultima carta straccia (il Codice Etico proprio non ha insegnato niente, eh?), che noi, noi di Cicloweb.it, alla storia del "Tour più controllato della storia", alla favoletta del "Tour più pulito degli ultimi anni", alla cantilena noiosa del "finalmente quest'anno avremo un vero vincitore", noi, noi di Cicloweb.it, proprio non ci crediamo, anzi, ci facciamo sopra una sonora risata.
Finché i ciclisti saranno i soli a pagare, sia nel ciclismo, sia sul palcoscenico dello sport in generale, l'antidoping e tutte le sanzioni corrispettive, non saranno, né potranno essere considerate, giuste. Finché il ciclista sarà il dopato e gli altri sportivi saranno i campioni, finché il ciclista sarà reo di doping e i medici sociali dei team professionistici, così come i team manager e direttori sportivi, saranno considerati verginelle, allora l'antidoping sarà una bufala, sarà una bomba ad orologeria fatta scoppiare nei momenti più indicati per spostare determinati pesi politici (presente l'inchiesta Oil for Drugs del 2004, tirata nuovamente fuori nel 2007, soltanto dopo la vittoria del Giro d'Italia di Di Luca e il podio di Mazzoleni, entrambi implicati in suscritta inchiesta?), sarà un palliativo, uno specchio per le allodole, sarà soltanto fumo gettato negli occhi dei tifosi, soprattutto.
E noi, a quei tifosi, ai tifosi del ciclismo, ai lettori di Cicloweb.it, diciamo che questo gioco non lo facciamo. O cambiano le cose, o cambia il nostro impegno.

Mario Casaldi

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