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Il Codice Diuretico - I corridori sempre più demonizzati | Cicloweb

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Il Codice Diuretico - I corridori sempre più demonizzati

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E va bene che parliamo di ciclismo, ma questa ennesima fuga in avanti è del tutto indigeribile. Ci risiamo: i gruppi sportivi, eterodiretti dall'Uci, si sono sognati l'ultima frontiera dell'antidoping: raccogliere il dna di tutti i corridori. Farlo in maniera subdola, non obbligando i ciclisti a sottoporsi al test, ma prevedendo delle sanzioni (tipo l'esclusione dal Pro Tour) nei confronti di chi non accetterà la norma.
Il tutto, nell'ottica di un inasprimento del mitico codice etico, che si è visto che nei suoi finti intenti non è servito a niente, ma anzi ha fatto danni enormi; e allora come procedere? Rendiamolo più duro, più severo: così continuerà a non servire a niente, ma farà danni ancora peggiori. Non c'è che dire: all'AIGCP (l'associazione dei gruppi sportivi) hanno le idee ben chiare. Fondamentalmente siamo allo scontro tra due potentati: quello formato dai team e dall'Uci, che da un sistema di privilegi com'è il Pro Tour hanno tutto da guadagnare, e quindi vogliono fare in modo di perpetuarlo a tutti i costi, anche se ciò dovesse significare il sacrificio di corridori e corse.
Dall'altra parte, gli organizzatori storici, quelli del Tour e del Giro e della Vuelta (e quindi delle annesse Roubaix, Sanremo, Lombardia, Liegi, Tours, Flèche, Tirreno, Nice, Lazio, eccetera, eccetera), che proprio non vogliono saperne di mollare il potere dato dal rappresentare da un secolo o giù di lì gli scenari del ciclismo più importante; e alcune federazioni nazionali forti (Italia, Spagna, Belgio, Francia).
In mezzo, come al solito, chi c'è? Loro, i corridori. La carne da macello che ancora una volta viene spesa con stupefacente leggerezza, ma ormai diremmo calcolato sadismo, per dirimere questioni che passano sulle loro teste, per strumentalizzare posizioni, per ricattare a manca e a dritta.
Partiamo da un presupposto che dev'essere chiaro: il test del dna non serve quasi a niente, nell'ambito della lotta al doping. Nell'immediato, potrebbe risultare utile per smascherare i donatori volontari che hanno affidato il loro sangue (in via diretta o indiretta) a Fuentes. Ma in pratica ciò non sarà possibile, perché la magistratura spagnola (titolare delle indagini di Operación Puerto che nel frattempo ha derubricato la posizione di tutti i corridori coinvolti, visto che a lei interessano i medici) non disporrà quei test, e quindi tutti a casa e buonasera.
Di che stiamo parlando, allora? Di un'ennesima, raffinata operazione di maquillage. Ogni tanto l'Uci (coi suoi sodali gruppi sportivi del Pro Tour) ha bisogno di rifarsi il trucco, perché si capisce che il doping continua a prosperare sotto la sua benevola ombra, e allora bisogna gettare un po' di fumo negli occhi degli spettatori. E oggi come oggi, cosa c'è di meglio del test del dna? "Porca miseria, nel ciclismo sono proprio all'avanguardia, prendono pure il dna a quei drogati dei corridori!". E l'Unione Internazionale, senza di fatto aver approntato nulla di concreto per limitare il fenomeno, vince un altro game nella partita dell'immagine.
Però a perdere è il ciclismo stesso, che continua a vedersela infangata, l'immagine. È ormai talmente chiaro che una manica di dirigenti incapaci stiano continuando a rimestare nel torbido per preservare la propria posizione predominante, e salvaguardare quindi i propri interessi economici, non curandosi di star al contempo affossando lo sport che dovrebbero reggere, che alla fine di una lunga notte, anche i corridori hanno preso posizione.
E considerando quanto i ciclisti siano sempre stati inani, imbelli, inermi, incapaci di un qualsiasi fronte comune per curare i diritti del proprio lavoro, si capisce quanto all'Uci la stiano facendo grossa. Ad Aigle sono riusciti a creare i presupposti perché i corridori si compattassero finalmente in nome di una sacrosanta battaglia: beh, diamo almeno atto a McQuaid di aver raggiunto un obiettivo che sembrava irrealizzabile. L'ha fatto senza volerlo? Pazienza!
Prima Bettini, poi Pozzato (che è nel sindacato europeo, quello malpresieduto da Moser) hanno alzato la voce: il dna non lo vogliamo dare. Paolino, in particolare, avrebbe tutto da perderci: la sua carriera è prossima alla fine, chi glielo fa fare di avvelenarsi la vita per una battaglia che darà i suoi frutti soprattutto per i colleghi più giovani? Glielo fa fare un'etica di molto superiore a quella che si respira nelle stanze del potere. Bettini è Campione del Mondo, è uno dei leader del gruppo, è rispettato, è ascoltato, ha il carisma per fare anche proseliti, per smuovere delle coscienze fra i suoi colleghi. È, in definitiva, l'uomo giusto da spendere per questo confronto; rappresenta l'immagine del ciclismo che pedala; e da diversi mesi dice cose sensate e giuste. Da diverso tempo Bettini prova a spostare il focus, nel ciclismo, dal doping ad altre cose realmente più importanti (la sicurezza stradale di chi pedala, per esempio).
Tanto giusto, come uomo, da essere strumentalizzato anche da quel marpione di Colombo, presidente del sindacato italiano, che dopo la sortita dell'iridato s'è svegliato dicendosi d'accordo (dopo mesi di silenzi e di immobilismo), e invitando Bettini nel consiglio dell'ACCPI. Di certo il livornese ci starebbe benissimo in quel consiglio, a patto però di non trovarci Colombo sulla poltrona di presidente.
A Bettini ha risposto anche Lefévère, piccatissimo nel suo ruolo di presidente dei gruppi sportivi. Dal belga, l'invito ad essere organici alla battaglia dell'Uci. Col cavolo! Non abbiamo usato il termine "organici" a caso: i gruppi sportivi vedono con terrore una crescita morale e pratica del movimento dei ciclisti, perché ciò metterebbe in crisi il loro ruolo di burattinai. E l'Uci si rende bene conto che è molto più facile controllare 20 squadre che non 500 corridori. Perciò, secondo l'assioma che abbiamo già verificato negli ultimi mesi, se l'Uci non vuole una cosa, evidentemente quella cosa è giusta per il ciclismo.
Noi, che in tempi non sospetti siamo stati i primi a urlare uno scomodo "Giù le mani dal DNA" (esponendoci a critiche da tanti che, sulle prime, non capivano), siamo orgogliosi del fatto che ora i corridori si siano finalmente sintonizzati su questa lunghezza d'onda. Ma ci rendiamo conto che la battaglia è ben lungi dall'essere vinta. Perché le squadre (e quindi l'Uci) hanno ancora dei formidabili fattori di ricatto dalla loro: in fondo, chi paga gli stipendi? E dobbiamo anche considerare che i ciclisti non sono tutti dei vincenti come Bettini e Pozzato, in gruppo ci sono anche una marea di onesti faticatori al minimo del salario, che hanno meno fantasia di gettarsi in una crociata.
Purtroppo i team non hanno alcuna intenzione di recedere dalla loro posizione di dominanza. Ci mancherebbe. Hanno messo sul tavolo una presunta loro responsabilità oggettiva, ricompresa nella nuova versione del codice etico: alla seconda positività in squadra, 1 mese di stop; alla terza, sospensione per tutto l'anno. Badiamoci bene: a parte il caso Phonak, e a parte i fumosi cascami dell'Operación Puerto, i casi conclamati di doping nei team Pro Tour sono una miseria. Pochissimi. Molti di meno rispetto alle categorie minori (Professional, Continental): quindi nel ciclismo di vertice ci si dopa di meno, vero?
Una positività, comunque, può capitare, non è che si possa controllare sempre tutto; la seconda positività? Magari arriva, ma facilmente non nei primi mesi dell'anno, quelli più densi di attività, quindi diciamo che - per una questione probabilistica - fino a fine estate siamo a posto, e se anche ci sospendono per un mese a settembre, possiamo già ritenerci soddisfatti dell'andamento dell'annata. Una terza positività, poi, è quasi fantascienza, specie ora che - per l'appunto - la Phonak non c'è più.
Ma noi che guardiamo, pensiamo e poi scriviamo, siamo ancora più malfidati. E ci immaginiamo uno scenario fantascientifico. Leggete un po' (i dialoghi sono inventati, lo sottolineiamo a scanso di equivoci): si riuniscono Lefévère e i suoi, e McQuaid e i suoi (per il bene della FAMIGLIA del ciclismo, laddove a famiglia si può liberamente dare l'accezione cara a Mario Puzo). All'ordine del giorno questa questione che rappresenta il pensiero più pressante nella testa di Pat e soci: il doping? Ma quando mai! Semmai, il fatto che Tour, Giro e Vuelta - per motivi che ora non ci interessa indagare; comunque sempre di soldi si tratta - non vogliano più stare nel Pro Tour, svuotando così di contenuti tecnici (e, per l'appunto, soldi) la challenge dell'Uci.
Come reagire a tanto ribellismo? Colpendo quelli che sono i più fragili, i più facili da colpire: i corridori. Quei corridori che da sempre sono l'anello debole, quei babbei che non sono capaci di darsi un sindacato serio, e che vanno alla guerra ognuno da solo, e con le spade di legno contro i bazooka. "Alziamo - dice l'amico Pat - i toni della lotta al doping: mettiamoci dentro il dna, così la gente pensa che facciamo sul serio, anche se noi sappiamo benissimo che non serve a una cippa".
"I Basso e gli Ullrich e gli altri? Loro sono bruciati, e a noi fa clamorosamente gioco che siano bruciati: stiamo pur sempre parlando dei personaggi simbolo dei grandi giri!". Ecco! Come non averci pensato prima! Apriamo gli occhi insieme, gente: Heras vince la Vuelta e viene mandato ai piombi; Basso vince il Giro e viene vessato in un processo fantasma senza fine. "Caro Tour, noi siamo l'Uci, e se vogliamo ti togliamo tutta la credibilità". Come avrà mai potuto l'Uci togliere la credibilità al Tour? No dài, è impossibile. C'è un positivo... chi è il positivo? Chi è? Floyd Landis! Decapitato il Tour, non ha nemmeno un vincitore, non era mai successo!
Riflettiamo ancora insieme: da quanto tempo un vincitore di una grande classica non viene pescato con le mani nella marmellata, sì da togliergli la vittoria? Ma allora per correre le corse di un giorno non serve doparsi! Ci si dopa solo nei grandi giri! Grandi giri, grandi giri... "Non basta ancora, non basta ancora... Alain [Rumpf, direttore del Pro Tour, n.d.r.], che ci inventiamo ancora?". "Ma certo! Tagliamo i giri: tappe più corte, sì sì. Ma non solo: li minacciamo di ridurgli la durata, sì sì, li decurtiamo fino a 18 giorni!". Vale di più un Giro di 23 giorni, riposi compresi, o uno di 18 giorni? Rcs, Aso, Unipublic: a quanto ammonterebbero le perdite? Vi conviene proprio questo braccio di ferro?
L'Uci vuole dominare; e non si preoccupa di snaturare il ciclismo, in nome di questa volontà. Non si preoccupa di schiacciare i corridori, che sono nient'altro che pedine all'interno di questo gioco. Ripensandoci, anche Landis è nient'altro che un capro espiatorio. E i grandi giri, per com'è strutturato il ciclismo oggi, covano proprio al loro interno i macellai che devono colpire - tramite antidoping a soggetto - le bestie da soma in bicicletta.
Torniamo alle squadre: McQuaid, ormai si è capito, ha il modo per sfiancare i grandi giri. Ma ha anche bisogno di alleati. "Voi ci appoggiate in questa lotta; quelli del Tour sono stati così scemi da innescare l'Operación Puerto nel ciclismo, e ora noi cavalchiamo l'onda, svuotando di protagonisti e di credibilità i riottosi giri, squalificandogli i vincitori, impedendo ancora ai favoriti di correre. Voi ci appoggiate contro i GT e - necessariamente - contro i corridori; e noi vi garantiamo che a 2 positività non ci arrivate, se non per casi estremi; e a 3 nemmeno col binocolo".
Fosse stati voi in Lefévère, che cosa avreste fatto o detto? Dopotutto lo scenario non sarebbe pessimo per le squadre: rischiando il minimo, danno l'assenso alla prosecuzione della spettacolarizzazione della lotta al doping: ogni tanto vien fuori un pesce grosso, un protagonista di Giro o Tour o Vuelta, così si dimostra che l'Uci combatte le pratiche illecite ai massimi livelli, utilizzando per di più il dna (solo in teoria, perché in pratica non servirà mai), e non guardando in faccia a nessuno; i corridori (quelli dei grandi giri) continueranno ad essere il marcio del ciclismo, mentre le squadre non saranno di fatto mai sospese.
I direttori sportivi continueranno a sapere che i loro ragazzi si dopano, ma non interverranno; esattamente come l'Uci (che però si riserva di intervenire ad orologeria, quando serve). Il sistema continuerà a spingere i corridori al doping, e se qualcuno viene preso nella rete, pazienza, the show must go on. Capite? Rischiano, continuano a rischiare solo loro, gli scemi in bici, mentre ad Aigle i massimi sistemi del ciclismo saranno impegnati a contare i bigliettoni.
Un esempio? L'ultimo fenomeno dell'antidoping è Paolo Dal Lago, presidentissimo Liquigas, che dice che "dobbiamo adottare tutti gli strumenti necessari per ripulire questo sport"; il dna, quindi. Se PDL volesse realmente adottare gli strumenti necessari eccetera eccetera, potrebbe iniziare dal suo team, limitando i voli transoceanici.
Un altro esempio? Lefévère, il paladino dell'antidoping, si tiene ben stretto tra i collaboratori Johan Museeuw, nel doping fino al collo quando correva, come da indagini della magistratura belga.
Un altro esempio? A Saiz l'Uci ridà la licenza per correre nel Pro Tour.
Occorrono altri esempi? No, non occorrono.
Occorre invece che i corridori facciano fronte comune, che non si prestino alla farsa del dna, che dicano basta alla loro demonizzazione.
Occorre un sindacato serio (e quindi senza i Colombo e i Moser) che li tuteli, e non l'ennesimo Consiglio Europeo che si riunirà per la prima volta solo DOPO che saranno state prese le decisioni definitive sull'imposizione del test del dna.
Occorre un sindacato che lotti a tutto campo, senza quartiere, ricorrendo ovunque possibile, contro questo schifo.
Occorre che il doping venga combattuto in modo diverso, più trasparente, e nell'ottica di una riduzione del danno: una battaglia possibile, invece di una guerra senza quartiere impossibile.
Occorre che i direttori sportivi, che sono uomini di strada e non di poltrona, si schierino coi corridori, e non coi presidenti.
Occorre che tutti noi appassionati continuiamo a gridare con quanto fiato abbiamo in gola: "GIÙ LE MANI DAL DNA!!!". Appoggiamo Bettini, appoggiamo Pozzato, appoggiamo ancora e sempre Ivan Basso, appoggiamo chi appoggia i ragazzi, e quindi appoggiamo Di Rocco e quelli che vogliono un'Uci diversa. Appoggiamo noi stessi, appoggiando il ciclismo: lui, proprio lui: ne va del nostro amato, amatissimo ciclismo.

Marco Grassi

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