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World Cycling: California dreamin', tutto è Rock per Canuti - Federico si prepara a correre per il terzo anno nella Rock Racing e ci racconta il ciclismo americano

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Federico Canuti in azione con la maglia della Rock Racing - Foto FedericoCanuti.com © Danny Munson

Vi ricordate la Rock Racing, la squadra statunitense che nel 2008 ingaggiò addirittura Mario Cipollini facendogli disputare il Giro di California? L'avventura del Re Leone durò lo spazio di una corsa, ma anche il team non ebbe vita lunga e a fine 2009 venne travolto da una lunga serie di problemi finanziari: quello che in pochi sanno è che nel mondo del ciclismo USA la Rock Racing esiste ancora ma a gestire le operazioni, il team e soprattutto il brand che c'è dietro di esso, non è più l'eccentrico americano Michael Ball ma l'italiano Roberto Tronconi.

Tra i corridori in rosa c'è anche il 30enne marchigiano Federico Canuti, ex di Colnago-CSF e Liquigas-Cannondale, che dopo essere rimasto senza squadra a fine 2013 è dovuto volare fino in California per poter continuare a correre: in questa nuova puntata della rubrica World Cycling ci facciamo raccontare da lui la sua esperienza in un ciclismo che non fa parte delle categorie dell'UCI e di cui poco si sa dalle nostre parti.

Da una squadra italiana del World Tour ad un piccolo team negli Stati Uniti c'è una bella differenza: come sei finito alla Rock Racing?
«Nel 2013 alla Cannondale ho avuto una stagione un po' sottotono a causa di alcuni infortuni e problemi fisici, quindi non ho potuto fare alcune gare e poi quando hai grandi capitani è sempre difficile mettersi in mostra: io non me lo aspettavo ma mi sono ritrovato senza contratto. Quando è arrivata questa proposta della Rock Racing di fare qualche gara negli Stati Uniti mi ha subito attirato: non c'ero mai stato e ho deciso di andare a provare e vedere com'era dall'altra parte dell'Atlantico».

E che mondo hai trovato?
«Un mondo completamento diverso da quello a cui ero abituato. Lì magari il ciclismo è meno importante e le corse non si vedono in televisione, ma sta comunque crescendo tantissimo anno dopo anno e ogni gara è praticamente una bellissima festa».

Il formato di gara che va per la maggiore sono i criterium?
«Sì, negli Stati Uniti piacciono molto i criterium e non si gareggia a numero di giri, ma a tempo: novanta minuti di gara e praticamente si va a tutta dal primo all'ultimo istante. Ci sono anche tante belle corse a tappe che di solito sono formate da una cronometro, un criterium e una road race, praticamente la gara in linea classica. Io preferisco le road race perché sono anche quelle più adatte a me come caratteristiche: i criterium solitamente sono per i velocisti, io sono riuscito a vincerne due ma solo perché sono arrivato da solo ed è veramente dura. Poi i criterium sono anche un po' più pericolosi proprio perché è una battaglia fin dall'inizio: l'anno scorso nella gara di Dana Point sono caduto, mi sono rotto una costola e ho riportato una lesione alla milza, infatti ho gareggiato poco proprio per questo infortunio».

A parte gli incidenti di gara, i percorsi come sono? Si corre in sicurezza?
«Le strade sono molto belle e la sicurezza per i corridori è veramente al top: tutto è chiuso bene e per quello che ho potuto vedere la polizia è molto rigida e severa nel far applicare le regole. Secondo me poi qui c'è anche più rispetto da parte degli automobilisti o comunque dei normali cittadini: in questi due anni mi sono fatto diversi amici negli Stati Uniti e ho un po' imparato a conoscere la loro mentalità, o le cose le fanno bene oppure proprio non le fanno. Dal punto di vista agonistico poi si trovano anche dei percorsi molto duri: i criterium sono per velocisti, ma le altre gare sono toste, io ho gareggiato solo in California e ho trovato tracciati davvero di ogni tipo, soprattutto quando magari ci portano nei Canyon più lontani dalla costa».

Per quanto riguarda gli avversari invece che livello hai trovato?
«Sicuramente non è il World Tour ma anche se si tratta di gare che non sono inserite nel calendario UCI la competizione non è male: spesso ci troviamo contro alcune formazioni Continental come la Hincapie Racing, oppure anche la Unitedhealthcare che addirittura è di categoria Professional, mancano solo le varie Garmin, Trek e BMC. Negli Stati Uniti il ciclismo è arrivato relativamente tardi e s'è sviluppato e si sta sviluppando molto velocemente: per questo motivo tanti ragazzi hanno iniziato ad andare in bicicletta che avevano già 18 o 20 anni, hanno un bel motore ma mancano quelle basi che magari qui da noi ti insegnano i direttori sportivi più esperti quando sei poco più che un bambino ma ti rimangono bene impresse per tutta la vita».

Hai parlato di due criterium vinti, che altri risultati sei riuscito ad ottenere?
«Nel 2014 ho vinto un criterium a Los Angeles e ho fatto due quarti posti alla Redlands Classic e alla Sea Otter, vicino a Laguna Seca, ma ho corso poco per via dell'infortunio. Quest'anno invece ho vinto un altro criterium a Irvine e il Grand Prix di Ontario, in più ho fatto secondo in una gara in Messico e decimo alla Boulevard Road Race».

Tu, corridore italiano con una grande esperienza alle spalle, come sei visto in questo mondo?
«I miei compagni di squadra mi chiedono molti consigli, gli sembra impossibile avere la possibilità di pedalare e allenarsi assieme ad un corridore che ha fatto il Tour de France e il Giro d'Italia: li vedo proprio contenti e motivati, come dicevo prima magari c'è poca cultura ciclistica ma c'è tanta voglia di imparare. I tifosi li ho trovati molto informati e preparati, apprezzano molto la figura del corridore europeo che si mette in gioco in America e si presenta al via delle loro corse con serietà e professionalità. In corsa invece gli avversari non mi fanno sconti come in fondo è normale che sia, mi tengono sempre sotto controllo, mi marcano quasi a uomo».

Hai parlato dei tuoi compagni, la squadra come è organizzata?
«Sono tutti americani e poi ci sono io unico italiano, non so se il prossimo anno si aggiungerà qualcun altro. Io non sono fisso lì in California durante la stagione, ma vado a periodi di un mese circa per fare le corse e poi torno a casa, il tutto anche per quattro o cinque volte. Diciamo che sono un "ciclista a gettone" perché di solito mi chiamano per le gare e le iniziative più importanti perché faccio un po' da uomo immagine della Rock Racing. L'anno scorso avevo una base fissa ad Irvine (a sud di Los Angeles, ndr), l'anno prossimo a gennaio invece io e la squadra abbiamo organizzato un training camp per amatori a Malibu: parteciperanno sia americani che alcuni italiani visto che Rock Racing ha anche una squadra amatoriale in Italia; negli Stati Uniti è molto diverso anche il mondo degli amatori, sono più tranquilli e rispettano il vero significato della parola, non è come in Italia dove tanti purtroppo si credono di essere dei professionisti. Per le corse non abbiamo ancora fatto programmi precisi, ma penso che farò qualcosa a marzo e poi di nuovo a maggio».

Il ciclismo europeo ti manca?
«Mi manca da morire, il Giro, il Tour, le grandi classiche, sono tutte corse insostituibili e ogni corridore vorrebbe farle sempre: sono veramente due mondi molto diversi uno dall'altro. Come guadagno non posso lamentarmi, più o meno siamo sui livelli di una Professional e non ci sono mai stati problemi, ma anche se sono passati due anni io spero ancora di riuscire a trovare una squadra che mi dia la possibilità di rientrare e la scelta di andare negli Stati Uniti è stata fatta anche per tenermi in forma e motivato, pronto a cogliere eventuali opportunità. In passato qualche contatto l'avevo avuto, ma purtroppo ormai sono troppi i corridori che vengono ingaggiati perché portano uno sponsor e questo ha fatto sì che il livello si abbassasse molto: io nella mia carriera mi sono sempre meritato tutto, sono convinto che se domani nascesse una squadra Professional ingaggiando solo i corridori che ora sono senza contratto sarebbe più forte di molte altre».

Ai tanti corridori che ancora stanno cercando una squadra consiglieresti di provare un'esperienza all'estero?
«Se ne hanno la possibilità, senza dubbio. Ma non è semplice ed è un bel rischio: è un grande passo, un altro mondo. Ma soprattutto bisogna essere anche fortunati di avere i contatti giusti al momento giusto: ad esempio negli Stati Uniti non è semplice entrare magari in una Continental, perché sono molti nazionalisti e giustamente, dal loro punto di vista, preferiscono dare spazio ad un giovane americano che possa crescere. Però, come detto, se si presenta un'opportunità io consiglierei di tentare».

Visto il suo passato, c'è la possibilità in futuro di vedere di nuovo le maglie della Rock Racing nel ciclismo UCI?
«In futuro sì, ma ora è presto per dirlo. So che si sta lavorando per trovare qualche sponsor soprattutto lì in California per provare a fare almeno una Continental, è difficile però parlare di tempistiche: di sicuro non avverrà prima del 2017».

Sebastiano Cipriani

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