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L'intervista: Moreno Moser, l'originale - Il trentino: «Quest'anno mi sento bene. Correrò il Giro e voglio ritrovare la vittoria»

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Moreno Moser scatta alla Cadel Evans Great Ocean Road Race © Bettiniphoto

Palù di Giovo: dove se non nasci campione, comunque ci vai vicino e sempre in sella ad una bicicletta. Moreno Moser, l'originale, sta tornando. Il figlio di Diego e nipote di Francesco è sulla buona strada, dopo un paio d'annate veramente storte. In Australia ha corso bene, al Laigueglia, seppure non al meglio, se l'è cavata. Pesa e soppesa le parole, Moreno; non parla a vanvera, riflette, cerca di trovare la maniera giusta in cui esprimere i concetti che ha in testa. E lo fa senza filtro, perché lui è l'originale. Sennò sarebbe uno qualsiasi. Di lui Paolo Slongo, che l'ha allenato nell'ultimo anno da dilettante e nel primo, stupendo, da professionista, dice: «È un mancino, un creativo che sembra distratto ma è una spugna. Pignolo e curioso, molto più colto della media degli atleti». Curioso e colto, autodidatta. Appassionato - tra le altre cose - di letteratura del '900, legge con piacere Pirandello così come Schopenhauer: «Ma Nietzsche è il mio preferito, anche se non nego che leggo anche Fabio Volo. Hai visto Italiano medio? Ecco, Maccio Capatonda dice che noi italiani vogliamo fare quelli impegnati, quelli colti, ma alla fine l'italiano medio ribolle dentro di noi. E infatti a volte mi do al trash». Capito perché Moreno Moser è un ciclista - un ragazzo - molto, ma molto originale?

Moreno, come stai?
«Mah... Piove, quindi oggi niente allenamento. Avevano previsto maltempo, mi sono organizzato di conseguenza».

Siamo ad una settimana dal Trofeo Laigueglia, dove hai chiuso tra i primi, 12°. E non stavi troppo bene.
«Sì, ho avuto un po' di febbre la settimana prima. Niente di tragico, ma qualche allenamento l'ho perso. Quindi sono comunque contento per come sono andato al Laigueglia perché ero lì, coi primi».

Durante quella giornata, che sensazioni provavi?
«Mah, stavo abbastanza bene, dai. L'ultima salita, la più dura - si chiama Colla Micheri, vero? - l'ho presa un po' indietro e sono arrivato in cima davanti. Ho provato anche a fare un timido attacco... Credo che se l'avessi presa un po' più avanti avrei potuto tentare un attacco più vero, diciamo. Poi la volata era un po' troppo veloce per me, preferisco le volate un po' più di potenza. Leggermente in salita, magari, non in discesa. Quelle lì sono volata proprio da sprinter, secondo me».

Nel 2012 quella volata l'avevi anticipata, scattando sul Capo Mele.
«Per forza. Quest'anno però attaccare sul Capo Mele era dura perché Niemiec ha fatto un ritmo che non permetteva di provare un'azione da solo. Quando l'ho vinta io, nel 2012, non l'abbiamo fatto così forte, c'era più gente che si guardava, e così...».

E magari guardavano un po' meno te.
«Ah quello sì, sicuramente».

Sin dall'Australia, però, hai dimostrato di stare molto bene. Alla Cadel Evans Great Ocean Road Race hai attaccato in salita.
«Stavo bene e s'è visto. Chi ha guardato la gara avrà avuto pochi dubbi sul fatto che stessi bene. Alla Cadel Evans Great Ocean Road Race l'arrivo era troppo lontano dalla salita. E poi c'era un altro problema: in tre, oltre a me, avevano compagni di squadra e quando i gregari si mettono d'accordo per tirare, non arrivi da solo. Quando ti succede è perché ce n'è dietro uno per squadra, magari un po' si guardano... Se uno deve solo lavorare, tira a tutta. Se deve tirare, ma pensando poi a fare la volata per sé, si risparmia».

Al di là dei risultati, è parso di rivedere un Moser formato 2012. Cos'è cambiato in te?
«Sicuramente sento una grossa differenza nel mio fisico quest'anno, nel senso che comunque anche l'anno scorso, corse a parte, i giorni in cui sono stato bene, contando pure gli allenamenti, sono stati veramente pochi. Non so perché, sinceramente. La fiducia in se stessi ci deve essere, ma lo stesso vale per le gambe: e la fiducia arriva dalle sensazioni che si provano. Quest'anno invece sto avendo sensazioni totalmente diverse: ogni giorno sto bene. Cioè, ogni giorno potrei correre, capito? Quindi vivo il tutto meglio, sto amando il mio lavoro di più rispetto all'anno scorso. A me sinceramente è sempre piaciuto allenarmi: fosse per me starei a casa sempre ad allenarmi ed andrei alle corse alla domenica, come fanno i dilettanti. Però per come andavo l'anno scorso, onestamente m'era anche passata la voglia. Tanti hanno dato la colpa al fatto che non mi allenassi, che non facessi la vita: era totalmente falso, non avevo fatto niente di diverso rispetto agli altri anni. Solo che, sai, nel ciclismo, appena uno va piano, viene accusato di non fare il corridore. E magari a volte è vero, ma altre no. Nel mio caso non era vero e sono stato accusato parecchie volte ingiustamente. E questo un po' l'ho sofferto».

Pochi allenamenti e bella vita: non sono rimproveri nuovi per te, da due anni a questa parte.
«Ma no, il fatto è che per quanto andassi piano, facevo anche fatica ad allenarmi - a volte addirittura a rientrare a casa. Se oggi non mi allenassi, se andassi in bici solo la domenica, andrei più forte di come andavo lo scorso anno. Sto parlando di un livello differente, non riuscivo a tenere le ruote del gruppo, andavo più piano che se mi stessi allenando, questo intendo».

Possibile che non ci sia una spiegazione?
«Non lo so, può essere stato anche un susseguirsi di situazioni stressanti».

 

La preparazione: prima Slongo, ora Bartoli. Passando per Weber

Magari la pressione, le aspettative dopo la prima stagione da pro'.
«Un po' tutto. Credo che anche la pressione possa aver influito. Insomma, credo che nel ciclismo - ma in generale nello sport, quello di alto livello - entrino in gioco componenti che non sono così percepibili normalmente. Anche tante persone dello staff mi dicevano: È impossibile, se uno s'allena e fa la vita deve andar forte, è matematico. Ma probabilmente non era e non è così, perché comunque c'è un fattore mentale che è sicuramente importante. Ci sta che ci possa essere una stagione storta. Comunque quest'anno ho cambiato tante cose».

Per esempio?
«Adesso il mio preparatore è Michele Bartoli. Mi trovo bene con lui e credo che si riveda molto in me».

Secondo te, cos'ha Michele Bartoli che Sebastian Weber, che ti preparava lo scorso anno, non aveva?
«Sicuramente l'esperienza, senza alcun dubbio. Non dico che Weber non sia bravo, anche perché ci sono atleti che vanno veramente forte con lui. Tony Martin è preparato da lui. Davide Formolo è un'altro che va davvero bene. È solo che probabilmente per le mie caratteristiche e per quello che sono io, magari anche di carattere, non sono stato compatibile. Sicuramente Bartoli mi capisce di più, credo che comunque abbiamo caratteristiche anche abbastanza simili. Lui, come dicevo, si rivede un po' in me, come corridore, quindi mi sto trovando bene: sia per gli allenamenti che per la gestione dello stress. Lui crede molto nel divertirsi, tra virgolette, in bici: nel senso che devi uscire ad allenarti con voglia di fare».

Le principali differenze tra Bartoli e Weber?
«Sicuramente la questione del recupero: Weber non crede molto nel recupero vero. Nel senso che per lui, dopo tre giorni di lavoro il recupero è di tre ore. Con Bartoli faccio due giorni di lavoro - lavoro duro, sto lavorando molto più dell'anno scorso, anche come qualità - ma dopo c'è un giorno senza bici, senza niente. Per dire: dopo il Laigueglia ho fatto due giorni di recupero quasi totale».

Ti ha seguito anche Slongo, fin dall'ultimo anno da dilettante.
«Sì, con lui mi sono sempre trovato bene. Ha capito come funziona il ciclismo al giorno d'oggi. Nel senso che tante cose sono cambiate rispetto agli altri anni, rispetto ad anni in cui si andava con altre benzine. Secondo me i preparatori che stanno avendo risultati sono quelli che hanno capito che comunque magari i tempi di recupero sono diversi e cose così. Slongo è anche uno che riesce a comprendere molto bene il corridore. Ha capito che la componente stress può essere fondamentale».

Con quale preparatore ti sei trovato meglio, finora?
«Mah, non lo so, sto ancora sperimentando. Sono solo, tra virgolette, alla mia quarta stagione tra i professionisti. C'è chi trova subito la sua strada e chi no. Ecco, io sto ancora cercando di capire qual è realmente la mia strada. Credo che la cosa più difficile, nella carriera di un corridore, sia capire come si deve allenare. Ci sono corridori che lo capiscono subito e corridori che lo capiscono a trent'anni. Io, sinceramente, sembrava l'avessi capito subito...».

Infatti, subito un 2012 con grandi vittorie. E poi?
«Dopo un anno così, di sicuro mi sono trovato ad essere molto atteso e ad avere una pressione addosso non indifferente. Ci siamo trovati a fare un calendario molto, molto importante. Tanti mi consideravano già come un corridore arrivato. Penso che, non lo so, Villella quest'anno è considerato un giovane, non gli si chiede niente ed ha già due anni in più rispetto a quando io ho vinto il Laigueglia».

Che ti piaccia o no, quel nome non t'avrà aiutato.
«Ma ho avuto risultati che non erano normali per la mia età, a prescindere dal nome. È come se uno del '93 quest'anno avesse vinto il Laigueglia, e un Polonia, quindi una corsa a tappe World Tour. E chi c'è del '93? Conti, forse. Tanti hanno pensato al nome ma la cosa mi fa un po' ridere: a prescindere dal nome, quello che ho fatto non era normale. Il nome può avere amplificato le cose, quello sì».

Arrivare tra i professionisti ed avere tali successi può essere stato una sorta di trauma per te?
«Sicuramente c'è una componente di questo tipo, perché se andassi in bici senza stress andrei più forte rispetto agli ultimi anni. Avrei un rendimento medio più elevato dell'anno scorso».

Nel 2012 eri il nuovo campione del ciclismo italiano, poi sei diventato un bollito. Oggi chi è Moreno Moser?
«Non so chi è oggi Moreno Moser. Credo e spero di avere il potenziale per essere, o quest'anno, o il prossimo, o magari fra tre, al top, insomma. A livello mondiale. Queste sono ancora la mie aspettative, non è che le voglio abbassare».

Vuoi crescere per gradi.
«In realtà mi alleno sempre prima delle corse per vincere, quindi spero che la crescita ci sia già quest'anno, ma posso aspettare. Ho ancora molti anni di carriera davanti a me».

Nell'immediato, dove ti vedremo in gara?
«Il mio calendario ormai è sempre di altissimo livello. Farò Strade Bianche, Tirreno-Adriatico, Milano-Sanremo, le classiche in Belgio, il Giro... Ormai penso che si debba correre nel World Tour, è questo il nostro sport. Andare a fare altre gare ci sta ogni tanto, però il ciclismo è il World Tour. E se sei in una squadra World Tour devi correre nel World Tour».

 

«Alla Strade Bianche sarò prima punta. Con Sagan, quanti rimpianti...»

Senza trascurare gare importanti, ma non World Tour, magari.
«Certo, certamente. Guarda, ti faccio un esempio. Il Garmin, ogni volta che fai un record di potenza, te lo segna. Ecco, dopo il Laigueglia di quest'anno ho superato il mio record di potenza: più del Down Under, più della corsa d'addio di Cadel Evans. Per farti capire che è una gara vera, l'abbiamo corsa veramente forte. Le ultime due salite al Testico le abbiamo fatte veramente a tut-ta! E cazzo, si son staccati veramente in pochi... Cioè quest'anno sto percependo in gruppo anche molta cattiveria. Si capisce che ci sono sempre meno posti, stagione dopo stagione».

Si lotta sempre con il coltello tra i denti.
«Esatto».

Sarai alla Strade Bianche, la tua ultima vittoria, nel 2013. Correrai come prima punta?
«Ma sì, penso che avrò il via libera dalla squadra, sicuramente. Credo di stare abbastanza bene e spero di giocarmela».

Quant'è differente per te questa Strade Bianche, due anni dopo l'ultima vittoria?
«La situazione di partenza è completamente diversa: nel 2013 avevo fatto solo una corsa, Camaiore, e non mi aspettavo di avere una condizione così. Condizione che poi s'è rivelata abbastanza precaria, non era reale. Quest'anno arrivo dopo due anni senza vittorie, ma sinceramente con una consapevolezza di condizione maggiore. Questo perché sto avendo una costanza, non tanto di risultati, ma di condizione appunto, che non avevo negli altri anni. Però da qui a vincere ci passa un bel po'. In quegli anni lì, ripensandoci, mi è andato tutto bene perché quando stavo bene ho sbagliato poche volte. Succede spesso di star bene, molto bene, e non vincere. È stato anche il frutto di correre con un po' di ingenuità, senza pressioni, sicuramente anche del fatto del mio modo di correre: sono uno che comunque cerca sempre di sprecare il meno possibile. Credo di avere anche delle caratteristiche abbastanza vincenti. Però, da questo a vincerla...».

Nel 2013 avevi a fianco Peter Sagan, ora sarà un tuo avversario.
«Uno così lo vorresti sempre in squadra con te, questo è scontato. Sicuramente quell'anno ho vinto per buona parte grazie a lui. E sinceramente uno dei miei più grandi rimpianti è non essere stato competitivo negli anni che ho corso con Peter, perché potevamo fare veramente grandi cose. In un'annata in cui fossi riuscito a tenere, non dico lo stesso livello, ma molto simile alla Strade Bianche, credo che avremmo potuto fare dei disastri non indifferenti. Ci saremmo divertiti noi e penso anche chi guardava da casa».

 

«Sanremo? La vorrei vincere in solitaria. Nei GT non mi vedo competitivo»

Alla Tirreno-Adriatico farai la gamba per la Sanremo?
«No, fare la gamba no. È una cosa che voglio cambiare quest'anno, e che ho già cambiato: non voglio più andare alle gare per allenarmi. Voglio essere pronto prima, arrivarci già preparato».

Non hai fatto mistero di puntare alla Sanremo. Magari la preferivi con la Pompeiana, com'era stata disegnata.
«Per me sì, se ci fosse stata la Pompeiana non mi sarebbe dispiaciuto, ma intanto vorrei esserci nel finale, per un anno, prima di dire come vorrei che fosse il percorso. Due anni fa c'ero arrivato, avevo tirato per tutto il Poggio, fino a quando era partito Paolini».

In che maniera pensi di poter vincere?
«Non lo so, da parecchi anni non vincono i più forti e ci sono un sacco di momenti in cui la corsa può scappare. Se mi chiedi il modo in cui vorrei vincerla è arrivare da solo, scattando sul Poggio, però quello lo fanno in pochi. Quest'anno l'arrivo è cambiato, ma è più vicino alla discesa. Comunque anche un podio non sarebbe male».

Sul Fiandre sei sempre stato abbastanza scettico. Resti di quest'idea anche ora che ti allena Bartoli?
«Sì, non ho cambiato idea. Potrei sicuramente farlo ma intanto quest'anno devo iniziare a vincere le piccole corse, poi ricomincerò a pensare a queste cose qui. In questo momento sono discorsi un po' campati per aria».

Andrai al Giro, poi disputerai anche il Tour?
«No, il Tour no. Credo che correrlo precluda tutto il finale di stagione. Facendo il Giro, invece, si dovrebbe riuscire a mollare un po', perché poi nel finale di stagione ci sono delle corsette carine».

Tipo?
«C'è di tutto, dai: Mondiale, Lombardia, anche il Polonia è da considerare come seconda metà di stagione».

Grandi corse a tappe: sarai mai competitivo per la classifica?
«Non lo so, difficilmente mi vedo come un possibile uomo da classifica nei grandi giri. Credo che andrò per vincere delle tappe. Tutti si aspettavano una crescita da me: tanti dicono che nelle grandi salite si migliora con l'età, o discorsi così, no? Ok, ci sta che in questi anni io possa avere una crescita, ma non si sa fino a che punto. E d'altra parte non so quanto mi convenga migliorare sulle grandi salite. Penso che si debba migliorare quello in cui si è portati anziché stravolgere le cose per poi non fare progressi né qui né là».

Su quali tue caratteristiche pensi di poter e dover lavorare?
«Prima di tutto penso che non si possa stravolgere o migliorare più di tanto: uno le caratteristiche che ha sono quelle e, per esempio, per vincere la Sanremo non è che devi migliorare in volata. Devi arrivare allo sprint più fresco possibile. Io da fresco sono veloce, e anche tanto. Se riuscissi a portare i watt che faccio da fresco in un finale come quello, basterebbe, insomma. Il fatto è che, secondo me, bisogna cercare di andar più forte e basta, non cercare di cambiare, migliorare... Non credo tanto a queste cose».

 

«Nuova Cannondale, mi sto ambientando bene. E occhio a Hesjedal...»

Vecchio nome ma nuova squadra, nuova struttura. Come ti trovi con il team di Jonathan Vaughters?
«Tante cose sono diverse rispetto alla Cannondale di Amadio: percepisci subito che gli americani hanno una filosofia diversa. In tutto, quindi la differenza grossa è quella, ma non si rispecchia su una cosa in particolare».

Il gruppo italiano com'è stato accolto dalla base statunitense del team?
«Loro sono stati molto, molto accoglienti. Forse anche più di quanto noi lo siamo stati in passato con gli stranieri. Noi italiani cerchiamo di integrarci molto, più di quello che avrei pensato. È un ambiente davvero umano, non come uno lo può immaginare. Da fuori ho sempre visto la Garmin come un ambiente un po' freddo e super professionale. Un po' distaccato. Invece è un ambiente tanto tanto umano, simile al nostro. Sono stato un mese in Australia e con quelli che erano là ho legato un po' di più. C'era Ryder Hesjedal, Nathan Haas. È un grande gruppo, insomma».

Chi ti ha colpito di più, dal punto di vista atletico?
«Li ho frequentati ancora poco ma sono curioso per Ryder Hesjedal. L'ho visto molto bene in Australia. E poi c'è Daniel Martin, proprio forte. Il Laigueglia era la sua prima gara, non era stato benissimo, come me, ma è andato veramente forte. Comunque Hesjedal mi incuriosisce perché in Australia, per quello che ha fatto, per me andava forte. Ha un grosso motore e penso possa fare belle cose».

Vinse un Giro d'Italia, nel 2012, a base di scattini. Ti piace il ciclismo dell'ultimo chilometro?
«Su Hesjedal: magari il Giro no, non lo vince, ma farà bene dove correrà. E poi non dimentichiamo che in quel Giro non si difese solo, ma staccò tutti. A Pampeago, mi pare. Il ciclismo di oggi, dello scattino, per me va bene. Nel senso che con le mie caratteristiche, scatterei anche ai 750 metri. Però capisco anche che in certe tappe di montagna lo spettatore voglia l'impresa da lontano. Chiaramente, però, uno guarda solo come può vincere, anche perché quando vinci non è che poi ti vengono a dire che sei scattato agli ultimi chilometri... Nell'albo d'oro rimane chi ha vinto e basta».

La tua giornata tipo.
«Sveglia, tardi, tanto ho tutto il giorno per andare in bici. Magari alle 8:30, ecco. Se fa freddo cerco le ore più calde per allenarmi e parto anche alle 11. Poi se capita un po' di massaggi... E dopo e basta. Gioco alla Play, guardo la tv, oppure un film».

Sei un grande fan di Quentin Tarantino.
«Ma non solo, mi sto appassionando alla cinematografia anni '60. Mi piacciono un sacco Gassman, Sordi. E da lì a Tarantino il salto non è così grande. Vado a periodi con i miei interessi, come mi succede per le ragazze e come con la Reflex. Ultimamente mi sono preso una Reflex, questa macchina fotografica ultraprofessionale. Mi sono invasato con Photoshop: quello della fotografia è un mondo tanto affascinante, ricco di spunti e mi dispiaceva rimanere estraneo a quest'arte».

 

«Freddo sì, non menefreghista. E mi piace imparare, in ogni campo»

Tu sei un tipo freddo, diciamo pure glaciale. Ma sotto sotto?
«Quando non vado come voglio non è che m'incazzi, c'è sempre chi sta peggio. Ci rimango abbastanza male, questo sì. Il mio essere glaciale è stato spesso interpretato come menefreghismo. Da tanti, anche in squadra, ma non è la verità. Hanno pensato che non mi stessi chiedendo nemmeno come mai andassi piano, che la prendessi così come veniva, tanto se non andavo era lo stesso... Questa è la mia tranquillità apparente, ma che si pensino certe cose di me dà molto fastidio, invece».

Ti piace molto imparare, non solo nel ciclismo. È così?
«Sì, cerco sempre di capire quello che mi sta intorno, in tutto. Cerco di avere una cultura di base in ogni campo».

Non sei certo un ciclista ignorante: la conoscenza rende il ciclista migliore?
«Credo non molto fino ad un certo livello. Il ciclismo si basa sull'ignoranza a livello medio, ma se guardi i grandi campioni, sanno tutti cos'è che stanno facendo. Non lasciano niente al caso. A volte l'ignoranza può anche pagare: chi non sta lì a cercare di capire, chi non si fa le seghe mentali, a volte può rendere di più rispetto a chi cerca di capire tutto. Credo che mediamente i ciclisti siano tutt'altro che stupidi. È che a volte diversi atleti che non si fanno le seghe mentali vanno meglio».

 

«Parlo tanto? E meno male! Non riesco a dire delle cose banali»

Dopo l'esplosione del primo anno da pro' hai rilasciato una marea d'interviste, sei finito su ogni copertina possibile. Anche su quella di Famiglia Cristiana.
«E non sono credente. Non credo a nulla che non si possa spiegare con la scienza. Sia la religione, sia gli oroscopi, o quelle che leggono le mani, le carte. Ho parlato tanto: per fortuna, direi! Cos'è che volete ancora, ciclisti ignoranti che dicono sempre le cose giuste? Se ascolti certe interviste, e non solo nel ciclismo, vedi che tutti dicono sempre la frase giusta, quello che va detto. Non voglio essere un tipo così, anche perché sinceramente le critiche da quel punto di vista lì non mi sfiorano. Faccio fatica a fare un'intervista banale e dare risposte banali. È più forte di me».

La passione per la musica la coltivi sempre. Suoni, giusto?
«Sì, ultimamente l'elettrica. Autodidatta eh. Credo che farei fatica ad eccellere nella musica, dovrei studiare con qualcuno. Senza basi a livello ritmico, a livello teorico, si fa poca strada. Io suono la chitarra così, cerco di fare qualche assolo, ma con scarsi risultati».

Dipingi anche.
«Diciamo che so disegnare. A volte bene, a volte male, ma qualcosina faccio. Ero molto meglio quando andavo a scuola, passavo tutte le ore a disegnare: tendenzialmente sul banco... Ho perso quell'attitudine, ultimamente».

Nel 2013 ti chiesero cosa pensassi della politica, di Grillo e del Movimento 5 Stelle: ti dicesti soddisfatto. Oggi come risponderesti?
«Che è un bel Movimento. Sicuramente restituire i rimborsi elettorali e gli stipendi è stato l'unico segno tangibile che ho visto nella politica italiana. Già per questo il M5S va premiato, poi sono gli unici che sono rimasti sempre coerenti. All'interno hanno degli ottimi elementi. C'è uno che si chiama Fico, forse... Sì, Roberto Fico. Ecco, lui è un grande».

Una delle loro parole chiave è onestà: trasponendola al ciclismo, ti batti e ti sei battuto per un ciclismo pulito.
«Sì, però non basta dirlo. Credo che negli anni ci siano stati troppi che dicevano di correre puliti, quando poi... Io credo che un ciclista debba sì dire di esser pulito, oltre a dimostrarlo ed a vincere. Quanti dicevano di essere puliti e però nessuno li ricorda perché sono passati? Io credo che Vincenzo Nibali sia un ottimo rappresentante per chi corre pulito. Anche Froome, mi pare, non ha mai avuto problemi».

 

«Il mestiere del ciclista mi fa paura. Cassani? Attende un mio segnale»

Da dilettante avevi smesso per un periodo, ti faceva paura il mestiere del ciclista.
«E mi fa ancora paura: siamo sempre lavoratori precari, con dei contratti di solito biennali. E diciamo che a 35 anni, quando la gente comincia a lavorare, noi smettiamo, trovandoci in un mondo che non conosciamo. Quindi è per questo che mi fa paura la vita del corridore».

C'è un corridore che ammiri più di tutti?
«Il mio preferito è Philippe Gilbert. Quelli come lui corrono e vincono con la classe».

Quest'anno dove e quando ti vedremo davanti?
«Tutto l'anno, spero! Per ora, come ho già detto, voglio riprendere a fare risultati veri, non ho una corsa in particolare come obiettivo».

Prima hai citato il Mondiale: pensi che il percorso di Richmond possa essere adatto a te?
«Ma sì, penso proprio di sì, anche se non sono così maniacale da studiarmi già adesso il percorso. Comunque sì, potrei fare bene».

E con il CT Davide Cassani hai parlato?
«Ultimamente no, ma ci siamo sentiti tempo fa e credo stia aspettando dei segnali da me».

Francesco Sulas

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