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Il lutto: Alfredo, Alfredo... - Martini ci ha lasciati. Ricordo di un uomo magico, insostituibile

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Alfredo Martini © Bettiniphoto

Qualcuno ha spiegato che non è mai una tragedia quando muore una persona anziana. È il naturale inseguirsi delle stagioni, degli eventi, delle vicende dell'esistenza. E allora perché questo senso d'assenza che in questa notte agostana ci coglie, ci sorprende, ci lascia ammutoliti? 93 anni, una vita piena di cose e di soddisfazioni, grandi soddisfazioni, enormi soddisfazioni, finché la carriera non arriva a trascolorare nel simbolismo, finché la figura umana non si ammanta di caratteri quasi sovrumani, a circonfondere una persona che, in fondo, non faceva altro che perseguire una propria coerenza, dall'inizio alla fine.

Alfredo, Alfredo...

È morto, Alfredo Martini. Anche se vorremmo tanto dirci che non è così, anche se vorremmo riservare nel nostro pensiero un posto per una prossima, ideale chiacchierata, o per una sua considerazione, anche solo per (si può dire?) abbeverarci alla fonte di chi per decenni era stato il ciclismo. IL CICLISMO, tutto maiuscolo.

Sapevamo che non stava benissimo, sapevamo che questo momento sarebbe arrivato, sapevamo che sarebbe giunto il giorno in cui mettere un punto e voltare pagina; e non sono tanti, questo tipo di giorni, non sono tanti gli attimi in cui ci si rende conto che un'epoca è finita, che le cose che sapevamo, nella maniera in cui le sapevamo, smettono di essere tarate per un determinato tipo di realtà. Diventano obsolete.

La realtà di Alfredo Martini vivo tra noi, una realtà oggi irrimediabilmente perduta, era quella della certezza di poter avere sempre e comunque un supremo grado di giudizio, una cassazione applicata al ciclismo, un appiglio a cui tenersi saldi nei momenti tempestosi, o anche solo una fonte di pareri avveduti, di conoscenza sterminata, di sensibilità.

Chi appartiene alla generazione di chi scrive, Martini l'ha già trovato seduto nell'ammiraglia azzurra: miliare, inamovibile, indiscusso. Anticipato da un carisma irriducibile, da un'umanità impossibile da reprimere. Martini era il ct, punto. E lo era non perché aveva un mandato federale, né perché aveva vinto già tante medaglie. Lo era perché rappresentava come nessun altro il movimento ciclistico italiano, al di sopra delle parti e delle parrocchie, interessato solo al bene comune, alle fortune del nostro pedale.

Molte gliene vanno ascritte, di queste fortune: sei titoli mondiali tra il 1975 e il 1997 (il tempo della sua lughissima gestione della Nazionale), sette argenti e sette bronzi. Avendo a che fare con squadre di primedonne che a volte non trovavano la quadra, ma quando ci si riusciva (grazie all'inesauribile lavoro di tessitura di Alfredo) era un gran bel ciclismo. Moser a San Cristóbal, Saronni a Goodwood, Argentin a Colorado Springs, Fondriest a Renaix, Bugno a Stoccarda e a Benidorm. E certo, in mezzo, alcuni rovesci, da Praga 1981 a Utsunomiya 1990, da Oslo 1993 a Lugano 1996... Sconfitte che però mai intaccarono la figura del ct, sempre pronto ad assumere su di sé il carico delle disfatte, anche al di là delle sue effettive responsabilità.

Rimase il ct azzurro anche dopo il passaggio di consegne. Scese dall'ammiraglia di un ciclismo in cui sempre meno poteva riconoscersi, quello delle radioline e delle nuove teorie sui picchi di forma, forse per un attimo si sentì superato dalla storia; ma rimase al suo posto, fedele alla missione di sempre, nel ruolo istituzionale e rappresentativo di responsabile delle nazionali e poi di Presidente Onorario della FCI, di fatto un padre confessore per i commissari tecnici che si sono succeduti dopo di lui. Da Fusi al prediletto Ballerini, da Bettini al figlio putativo Cassani, che purtroppo non potrà vedere in azione.

Nel nostro piccolo - Cicloweb non esisteva da neanche un mese - lo disturbammo per avere dei commenti sul Giro d'Italia, nel 2002. Non si pose neanche per un secondo il problema se accettare, e ci regalò i suoi pensieri (qui, qui e qui), dimostrando una disponibilità che ci lasciò senza parole. Lo incrociammo l'ultima volta un anno e mezzo fa, in una malinconica assemblea federale, che provava ancora e nonostante tutto a proferire parole d'unione per un movimento - quello ciclistico italiano - che per lui rappresentava la vita. Troppo più grande di chi quelle parole avrebbe dovuto metterle in pratica, Alfredo.

Lascia il ricordo di una carriera antica in bici, ai tempi di Coppi e Bartali, quando fu terzo a un Giro (quello del '50) e partecipò ai due Tour vinti da Fausto, di cui era grande amico. In ammiraglia le sue doti umane vennero esaltate, vinse uno storico Giro con lo svedese Gösta Petterson nel 1971, poi l'avventura azzurra che ne ha permeato gli ultimi quattro decenni di vita. Fino a quando ha potuto, ha continuato a seguire da vicino le corse, viaggiando molto, rispondendo sempre presente alle mille chiamate che gli venivano rivolte.

La sua traiettoria, da Firenze e dal 18 febbraio del 1921, a Sesto Fiorentino e al 25 agosto 2014. Un esempio che è durato per sempre. E che nessuno potrà sostituire.

Marco Grassi

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