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Giro d'Italia 2014: Il self-protagonismo del tifoso 2.0 - Una tendenza da frenare prima che degeneri del tutto | Cicloweb

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Giro d'Italia 2014: Il self-protagonismo del tifoso 2.0 - Una tendenza da frenare prima che degeneri del tutto

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I fotogrammi dell'incidente provocato da un tifoso a Manuel Bongiorno © Profilo Twitter Bardiani-CSF

Domanda: c'è un modo per coniugare la grande festa popolare offerta dai tifosi al passaggio del Giro sulle montagne d'Italia (ma non solo d'Italia) con la certezza per i corridori di non essere infastiditi o addirittura molestati e messi in difficoltà dal troppo calore del pubblico? Risposta difficile come l'equilibrio su cui poggia il rapporto tra ciclisti e appassionati in strada.

Un equilibrio fragilissimo, perché risulta chiaro che il corridore, nel suo massimo sforzo, proteso per il raggiungimento dei propri obiettivi agonistici, è più che mai esposto. Solo un patto non scritto tra ciclisti e tifosi permette la meraviglia di uno sport in cui il contatto tra chi è impegnato nella contesa e chi lo incita è così stretto, ravvicinato, praticamente simbiotico. Le classiche due ali di folla che si aprono al passaggio del minuscolo pedalatore arrancante in salita rappresentano una delle immagini più vivide del ciclismo, pensare di dover rinunciare a un simile spettacolo è doloroso. Ma a un certo punto occorrerà una riflessione.

Oggi, nella penultima frazione del Giro, un corridore in piena lotta per la vittoria di tappa (sul più che prestigioso traguardo in quota dello Zoncolan), è stato praticamente fatto fuori dallo sgangherato intervento di un tifoso. Lungi da noi l'intenzione di criminalizzare il gesto, fatto addirittura in buona fede: il soggetto, che indossava una maglia iridata, voleva dare una spinta a Manuel Bongiorno per "aiutarlo" nel finale di gara, quando il calabrese era al comando della corsa con Michael Rogers. Purtroppo, però, la spinta stava per buttare Bongiorno addosso all'australiano, sicché il corridore della Bardiani ha dovuto frenare, perdendo stabilità, dovendo sganciare uno scarpino dal pedale, insomma fermandosi.

Ripartire da fermo su quelle pendenze è già difficile; ritrovare il ritmo, poi, lo è ancora di più. E finché non ci si riesce, l'avversario se ne va e tanti cari saluti a casa (è proprio quello che è successo oggi, con Rogers avvantaggiato suo malgrado). Non criminalizziamo il gesto perché sarebbe potuto accadere a tanti come è accaduto a quel tifoso, visto che tanti sono quelli che hanno comportamenti non adeguati in questi frangenti. Le spinte ai corridori sono state molte, e ogni volta è per caso o per fortuna che non avviene un patatrac. Abbiamo visto addirittura la maglia rosa Quintana venire sbilanciato dal troppo affetto di un tifoso che spingeva.

E quante volte vediamo degli appassionati correre accanto ai corridori, e proviamo la paura che possano inciampare e buttare giù qualcuno? Come detto più su, un ciclista è un bersaglio fragile, non ci vuole molto per mandarlo a terra, per questo sarebbe necessario il massimo dell'attenzione e del rispetto.

Il problema è molteplice: a volte capita che alcuni tifosi siano visibilmente alterati dall'alcol ingerito nella lunga attesa del passaggio della corsa, ma è pensabile vietare a decine di migliaia di persone di consumare alcol nelle ore che precedono l'arrivo del gruppo? È pensabile perquisire tutti quelli che magari sono su una vetta dalla sera prima, togliere loro le bottiglie, ricondurli a forzata sobrietà? No, non è pensabile e in fondo non è forse nemmeno auspicabile (non siamo bacchettoni, su: nel concetto di festa popolare ci sta anche la bevuta in compagnia, da che mondo e mondo).

Da diverso tempo si è però aggiunta in maniera sempre più massiccia un'altra tendenza, favorita dall'esposizione televisiva: farsi vedere a casa, farsi notare da tutti (vestendosi - o svestendosi - in maniera bizzarra: oggi abbiamo apprezzato - tra gli altri - un ragazzo in abito da sposa, un panda, Batman, un orripilante Borat, un gruppo di gaudenti vestiti solo di una gonnellina da tutù, e via di questo passo...). L'attitudine al travestimento - non neghiamo nemmeno questo - ha comunque un che di simpatico, strappa a volte dei sorrisi o delle vere e proprie risate (quando si vedono comparire certi soggetti, sfidiamo chiunque a rimanere serio), ed è anch'essa, in fondo, un elemento del colore, del folklore, di ciò che accompagna la corsa.

Questa tendenza è stata infine consacrata negli ultimissimi anni dal diffondersi dell'uso di smartphone e social network. Nella spasmodica ricerca di un retweet, di un "mi piace", di una condivisione dei propri contenuti, la testimonianza diretta dal cuore della corsa è senz'altro vincente: tifoso 2.0, fatti un "selfie" con un corridore in gara, o caduto, o stremato dalla fatica, e stai certo che otterrai su internet l'attenzione che cerchi. Il problema è che le manovre per ottenere il fatidico "autoscatto in corsa", o il video da lanciare subito su YouTube, sono molto pericolose per l'incolumità dei corridori.

Non è infatti scontato che - magari in condizioni alcoliche - questi appassionati riescano a fare due cose contemporaneamente (correre senza far danno, autofotografarsi), e c'è il rischio che qualcuno interferisca con il regolare svolgimento della gara. Ieri sul Grappa un ragazzo appostato in curva (ma in mezzo alla strada) per fare una foto a Urán ha obbligato il colombiano a un improvviso scarto. Quel correre esagitato a due centimetri dai corridori, tenendo un qualsiasi apparecchietto elettronico in mano, provoca grande paura e fastidio a chi pedala e teme che l'inciampo del tordo di turno possa provocare una caduta.

Anche qui, torniamo al discorso di prima: che fare, vietare gli smartphone sul percorso di gara? Obbligare tutti i tifosi ad applaudire anziché fotografare o riprendere? Transennare chilometri e chilometri di strada in montagna? Disporre un battaglione di alpini che faccia da cordone umano per tutta la lunghezza di una salita?

Come ben si comprende, la soluzione non può essere cercata in misure repressive o troppo dispendiose per chi organizza una tappa. L'unica risposta sempre valida è l'appello al buon senso di chi va a seguire le gare. L'invito a empatizzare coi corridori, il far capire che da tifosi ci si deve per un attimo trasformare in ti-fossi: "Ti fossi trovato tu nella situazione di Bongiorno, come ti saresti sentito?". Spingere ancor più, nelle dirette televisive, il messaggio che le mani devono essere tenute a posto, che non si deve spingere chi sta faticando, che si deve il più possibile rinunciare ad atteggiamenti di protagonismo che interferiscano con la corsa.

Molto più facile a dirsi che a farsi. E allora provare a sensibilizzare almeno qualcuno dei tanti: tifoso appassionato, accanito ma rispettoso, sii tu latore del messaggio presso i tuoi "vicini" di strada che invece si lasciano andare. Incoraggiare il pubblico più attento a spendersi presso quello più disattento, per portare avanti una moral suasion pacifica che riporti tutti alle proprie responsabilità (sì, responsabilità) di tifosi: incitare, gioire, applaudire, fotografare, ma non mettere in atto comportamenti potenzialmente pericolosi.

C'è per forza, nel fantastico pubblico del ciclismo, chi comprende bene questi temi. È a queste persone che forse bisognerebbe rivolgersi, per convincerle a sensibilizzare chi ha un approccio più rozzo ed egoriferito alla materia; a spendere due paroline, in maniera garbata, per far capire a chi è un po' esagitato che certi comportamenti possono causare danni grossi. "Convinci un altro tifoso ad essere rispettoso come te": sicuramente ci saranno addetti al marketing che troveranno una formula più sintetica ed efficace per esprimere questo tipo di messaggio, ma l'unica via percorribile ci sembra veramente questa: spingere a una diffusione della cultura del tifoso che parta dal basso. Pensiamoci per il prossimo Giro, la questione - se lasciata degenerare - potrebbe portare grossi problemi al movimento ciclistico; e diciamo che questo sport proprio non sente il bisogno di ulteriori guai.

Marco Grassi

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