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Caso Agostini: Caro Salvato, sei fuori strada - L'ACCPI dovrebbe sapere che intransigenza e flessibilità sono incompatibili | Cicloweb

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Caso Agostini: Caro Salvato, sei fuori strada - L'ACCPI dovrebbe sapere che intransigenza e flessibilità sono incompatibili

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Stefano Agostini © BettiniphotoIl caso di Stefano Agostini, 25enne ormai ex professionista (militava nella Cannondale), squalificato per 15 mesi per essere risultato positivo ad un'infima quantità di una sostanza poco dopante (presente in una pomata usata per contrastare un'eruzione cutanea), sta facendo discutere il mondo del ciclismo - quantomeno quello italiano, soprattutto in seguito alla lettera aperta che il ragazzo ha inviato all'UCI e alla FCI (eccola).

È giusto - ci si chiede - che un caso come questo, in cui l'assenza di dolo pare conclamata, si concluda con una sospensione tanto pesante? È corretto che una leggerezza, ma diciamo pure una colpa, venga punita praticamente alla stessa stregua di un atto teso volontariamente a frodare le regole sportive? La risposta è sin troppo scontata, ed è rimbalzata da più parti, non ultima da una presa di posizione ufficiale dell'AssoCorridori, espressa tramite una lettera inviata a sua volta dal presidente Cristian Salvato all'indirizzo di Brian Cookson, numero uno dell'UCI.

Ecco il testo diffuso dall'ACCPI:
Sono convinto che dovremmo essere ancora più rigidi quando è evidente che un ragazzo abbia fatto ricorso al doping al fine di alterare le proprie prestazioni e falsare i risultati di una gara, ma, allo stesso tempo, dovremmo prevedere sanzioni più lievi, quando si riesca a dimostrare l'uso terapeutico di un farmaco e la buona fede dell’atleta, come avvenuto e riconosciuto dall’UCI in questo caso. Le nostre leggi vigenti, anche in caso di negligenza, prevedono sanzioni molto severe che possono portare alla fine di una carriera. A nostro parere e secondo i nostri associati questo non è giusto. Si tratta di una questione complessa, molto importante per gli atleti e l'intero movimento ciclistico. Vi chiediamo come UCI di verificare se sia opportuno modificare per il futuro le normative anti-doping in modo da disporre di sanzioni proporzionali agli errori per evitare che un ragazzo per una leggerezza sia costretto a dire definitivamente addio per sempre alle competizioni.

Cos'è che non ci torna, in questo scritto di Salvato? Una questione di fondo: ci pare che l'intransigenza nei confronti di chi "bara" e la flessibilità da usare con chi "sbaglia" siano incompatibili, nell'ambito dell'attuale linea di condotta delle istituzioni impegnate nella lotta al doping. Il mondo non è mai bianco o nero, ci sono mille sfumature di grigio che rendono molto difficile applicare le norme nella misura in cui piacerebbe a Salvato. Tanto per non perderci in chiacchiere e per andare subito al nocciolo del problema: come ci si sarebbe dovuti comportare, ad esempio, nei confronti di Contador, per la celeberrima vicenda del clenbuterolo?

In quel caso avevamo da un lato la possibilità che il campione madrileno avesse ingerito della carne contaminata; dall'altro, c'era invece la possibilità che quella sostanza nel suo sangue derivasse da pratiche non ortodosse (autoemotrasfusione). Come orientarsi, in situazioni limite come quella? Troppo facile dire che oggi il caso di Agostini sia chiaro: e se invece - ragioniamo per assurdo, s'intende - quel Clostebol trovato nei campioni biologici del corridore italiano fosse un coprente per altre sostanze più pesanti?

Lasciare discrezionalità (perché di questo si tratterebbe) ai giudici, in tal senso, significherebbe aprire il vaso di Pandora di centinaia di perizie, controperizie, scuse, alibi. Significherebbe, in ultima analisi, fornire a chi "bara" delle formidabili possibilità di difesa, laddove oggi le maglie sono invece tenute molto strette. E allargare queste maglie vorrebbe dire dare occasione a che qualcuno (magari quello con più soldi e di conseguenza con gli avvocati migliori) sconfessi le politiche dell'UCI.

Quelle politiche antidoping che noi - su queste colonne - abbiamo sempre avversato, invocando un antidoping diverso (meno sensazionalistico; non sanzionatorio ma preventivo; e soprattutto non colpevolista nei confronti dei corridori), ma che invece l'ACCPI, bontà sua, ha appoggiato in toto, come rivendica lo stesso Salvato nella sua lettera. E allora, caro Cristian, se questo è l'antidoping che voi volete e auspicate, un antidoping in cui non si è mai riusciti - nemmeno, e ciò è incredibile, in sede associazionistica - a far valere le istanze di chi pedala, sappiate che in esso non c'è ontologicamente spazio per la clemenza.

I ciclisti, in base ai regolamenti in essere, sono considerati colpevoli fino a prova contraria, e vicende come quella di Agostini, se possono far urlare all'obbrobrio gli amanti del(lo stato di) diritto, sono da considerare, nella visione manichea dell'UCI e di tutti voi, dei semplici danni collaterali.

Il ciclismo, posto di fronte a un bivio, ha imboccato da anni la strada della tolleranza zero (senza che però il problema sia stato estirpato: semplicemente il sistema si è adattato in maniera da sfuggire in modi diversi al nuovo regime di controlli. Insomma, qualche mosca che sfugge c'è sempre, e se ci guardiamo intorno sono tanti i conti che non tornano, situazioni che fingiamo di non vedere ma che prima o poi deflagreranno dolorosamente).

E ha sdegnato, invece (sempre il ciclismo), la strada del cambio di prospettiva sul fenomeno doping (ovvero: riduciamo il danno, piuttosto che lottare fino alla fine dei nostri giorni contro un avversario sempre sfuggente). Ora è troppo semplicistico ululare per il trattamento riservato ad Agostini: un trattamento che altro non è se non the dark side of our antidoping. Poche lacrime, e tiriamo avanti.

Marco Grassi

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