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Doping&Antidoping: 15 anni di guerra: ne è valsa la pena? - Il sospetto e il dubbio continuano a pervadere il ciclismo

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Malgrado 15 anni di guerra al doping, il ciclismo è sempre al centro del sospettoL'appassionato di ciclismo è smarrito. Smarrito come forse mai in passato, anche più dei giorni cupi delle positività in serie (in quei casi potremmo parlare più di sgomento che di smarrimento), l'appassionato di ciclismo non sa proprio più che pesci pigliare. Intanto sa dove pigliarli: in faccia.

È arrivato purtroppo, il giorno 14 luglio 2013, il momento in cui guardarsi allo specchio e dirsi: ha più senso seguire questo sport? E se sì, in quali termini, a quali condizioni?

Il bubbone è scoppiato nel momento in cui Chris Froome, vincitore in pectore del Tour de France, ha staccato Alberto Contador. Il vortice prodotto dalle sue gambe è parso a molti non realistico, e immediatamente è partita la ridda di allusioni, insinuazioni, veri e propri atti d'accusa. Poco importa la scoperta di dati di scalata del tutto in linea con precedenti esperienze su quella montagna. Poco conta sapere che Froome non ha abbattuto alcun record. Ancor meno rileva la valutazione sulle condizioni ambientali e climatiche (vento assente o al più a favore, calura non eccessiva). Non parliamo poi dei distacchi inflitti dal britannico ai suoi avversari, a leggere alcuni commenti si dedurrebbe che la maglia gialla abbia dato 5' al secondo, quando invece un Quintana non al meglio (stando alle sue stesse dichiarazioni) ha pagato solo 29", e un Contador incapace pure di tenere le ruote del bravo ma non eccezionale Nieve, ci ha rimesso solo 1'40". Nessuno si fa impressionare dal fatto che Joaquim Rodríguez abbia rimontato a Froome 30" nell'ultimo chilometro.

Non c'è insomma una serena valutazione delle reali condizioni in cui è maturata la prestazione - comunque eccellente - del capitano della Sky ieri. E non c'è per un semplice motivo: perché la fantastica progressione con cui Froome ha salutato Contador occupa tutti gli spazi visivi, critici ed emozionali degli appassionati. In altri tempi saremmo rimasti tutti affascinati da una simile fucilata, avremmo esaltato la bella (e innegabile) crescita di Chris negli anni, e avremmo salutato lui come un nuovo campione in grado di farci divertire anche nell'avvenire.

In quest'anno di grazia 2013, invece, siamo tutti - "innocentisti" e "colpevolisti" - coscienti che prima o poi la classifica di questo Tour de France verrà riscritta in maniera radicale. Ripetiamo la domanda cardine: ha senso?

Capita, guardando una partita di calcio, di mettere in relazione ogni errore a porta vuota con una possibile compravendita di partite e con implicazioni nelle scommesse clandestine? Da appassionati di sport dobbiamo darci una risposta. Se qualcuno guarda le partite con quest'ottica, alla lunga dovrebbe stufarsi e cambiare disciplina, e così probabilmente avviene. Perché invece nel ciclismo ciò non succede? Perché preferiamo martellarci gli zebedei assistendo a uno spettacolo che riteniamo - nel profondo - già falsificato?

La risposta è proprio in quel mulinello impazzito di Froome. Ovvero in come noi siamo portati a giudicare l'impresa oltre i limiti, sopra le righe, l'impresa che porta un'epoca nuova in uno sport. L'impresa, ovvero il senso profondo di una disciplina (tantopiù quella che "amiamo"). 15 anni di asfissiante campagna mediatica sul ciclismo visto come lo sport del doping per eccellenza ci hanno condotti a questo. Non crediamo più nella possibilità dell'impresa ciclistica, abbiamo tradito l'essenza di questo sport. Non tanto perché prima non sapessimo dell'esistenza dell'aiutino, quanto perché oggi crediamo che conti solo quello. Che non ci siano più gambe a spingere i pedali, ma cavie da laboratorio sottoposte a trattamenti fantasmatici.

L'abbiamo anche scritto nei giorni scorsi, ma lo ripetiamo: oggi un Merckx sarebbe impossibile nel ciclismo. Uno si profila all'orizzonte, forse (Sagan), ma per il momento è simpatico a tutti perché è un guascone che non ha ancora vinto troppe gare importanti. Appena compirà un salto di qualità (e lo compirà matematicamente, perché è ancora giovane e ha margini di miglioramento grandissimi), l'ombra del sospetto si addenserà sulle sue prestazioni. Forse gli conviene mascherarlo, quel salto di qualità (che potrebbe anche permettergli, tra qualche anno, di essere competitivo nei GT), per tenere lontane le malelingue.

Così come a Froome conveniva non staccare Contador, ieri, perché nello stesso momento in cui ciò è avvenuto, tanta parte degli appassionati reduci da 15 anni di caccia alle streghe (stavamo per scrivere: lavaggio del cervello) sono inorriditi.

Che senso ha avuto, per 15 anni, minare il nostro sport fino alle fondamenta? Che senso ha avuto se poi, alla fine della fiera, non ci ritroviamo un ciclismo pulito (eppure ce l'avevano garantito: cacciamo le mele marce e avremo un ciclismo a pane e acqua!), ma ci ritroviamo sempre a dover convivere con il sospetto? Che senso ha avuto se, "debellate" certe squadre-monstre del passato, oggi dubitiamo di qualsiasi cosa possa succedere ad esempio in una Sky?

Ciclicamente ci ritroviamo di fronte a una dinamica di costruzione e decostruzione della realtà. Nel ciclo "ascendente" ci dicono (mentendo) che il doping è ormai marginale, che non è più come un tempo, che prestazioni e risultati oggi sono molto più credibili di 20 anni fa; nel successivo ciclo "discendente" ecco nuovamente allusioni, dubbi, domande esistenziali, messa in discussione di tutto ciò che vediamo durante le corse. Ma anche questa è una visione falsa, bugiarda, menzognera, del tutto parziale.

Come se il ciclismo fosse la cosa più importante del nostro mondo, non riusciamo a vedere le cose con disincanto, non ci accontentiamo di gioire per lo spettacolo (quando c'è), non ci limitiamo a vivere questo sport per quello che è per il 99% di noi, ovvero uno svago, un diversivo, una parentesi giocosa nel grigiore della vita quotidiana.

E siamo indotti a vedere e giudicare come se non potessimo farci una ragione del fatto che una quota di doping, volenti o nolenti, e comunque vadano le cose, rimarrà sempre. È così difficile accettare una logica di riduzione del danno (ovvero: con un uso ragionato del passaporto biologico facciamo in modo che gli atleti non si facciano del male), e rinunciare una volta per tutte al giustizialismo, allo stillicidio, allo sparo alzo zero? A cosa ci ha portati tutto ciò? Se siamo arrivati al punto da non avere più un albo d'oro del Tour de France, tra condanne passate, presenti e future, come pensiamo che in questa maniera potremo alla lunga ottenere uno sport credibile? Proprio non ci sfiora la mente l'idea che dovremmo cercare una via alternativa nel tentativo di tenere il fenomeno del doping in qualche modo imbrigliato, nel momento in cui capiamo che non possiamo sconfiggere né tale fenomeno né tantomeno l'idea che esso si possa manifestare?

E allora continuiamo così, continuiamo ad assistere a spettacoli a cui non crediamo, a sentire erodere il sentimento di passione giorno dopo giorno, a vedere tutto con le lenti del doping (e non magari a pensare che ci possano essere nuove metodologie d'allenamento che esaltano determinate qualità; e non magari a pensare che alcune di queste qualità il Froome di turno ce le ha in dote). Un bel giorno ci ritroveremo con una scatola vuota, una bella scatola colorata ma del tutto priva di contenuti. Nel momento in cui non è più considerato umano e possibile andare oltre certi limiti fissati da celebri dopati del passato, lo sport è finito. Rimane il suo simulacro, oppure rimane un qualcosa di diversa natura, ma allora per piacere troviamogli un altro nome e chiudiamo per sempre la saracinesca su questo elemento minore delle nostre vite, che ci ha fatto sognare e divertire per tanto tempo, ma che oggi, ormai, non è più degno di essere ciò che è stato per 120 anni.

Marco Grassi

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