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Il lutto: Addio a un gigante - È morto Fiorenzo Magni. Una vita leggendaria per il ciclismo

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Fiorenzo Magni nella cronoscalata del San Luca al Giro d'Italia del 1956 © www.bdc-forum.it

È morto Fiorenzo Magni, e tutti ci sentiamo di colpo più vecchi, più stanchi, più smarriti.

Succede quando il ciclismo perde uno dei suoi miti e muore un po' anch'esso, perché ad andarsene non è solo un uomo e un campione, ma anche una pietra miliare della lunga storia di questo sport, col suo carico di sapienza, coscienza, ricordi. E i ricordi di Fiorenzo affondavano nelle radici di quel che è oggi, riandavano a un'epoca in cui in bici battagliavano Coppi e Bartali, un'età dell'oro che giustamente mitizziamo, ma da cui ci sentiamo ora purtroppo più lontani, visto che un pezzo importante di ciò che ci legava a quell'epoca da oggi non c'è più.

Magni era un uomo che poteva rievocare un ciclismo leggendario non per averne letto sui libri o nei giornali, ma per esserne stato uno dei protagonisti assoluti. Quando lo ascoltavamo ripescare nella memoria, il nostro pensiero si colorava di bianco e nero e di immagini scolpite nella storia, e ora che un simile testimone del tempo non è più con noi avremo meno occasioni di conoscere, di rivivere, di riassaporare quel che in questi anni abbiamo avuto la fortuna di ritrovare negli occhi e nei racconti di un Monumento vivente come Fiorenzo.

Un uomo dall'autorevolezza rafforzata dall'età (aveva quasi 92 anni) e costruita su un carattere di ferro; una persona che si ergeva imperiosa su qualunque ragionamento ogniqualvolta prendeva la parola, o anche si limitava ad apparire circonfuso da un'aura di leggenda che creava nei suoi interlocutori un po' di soggezione; quella soggezione che però svaniva appena si aveva modo di parlare con lui, personaggio del suo tempo ma anche del nostro, "uno di noi" oseremmo dire, di noi che amiamo il ciclismo e palpitiamo per esso.

Aveva saputo ritagliarsi uno spazio fondamentale accanto a Fausto e Gino, aveva vinto tre Giri d'Italia (nel 1948, nel 1951 e - 34enne - nel 1955) inserendosi stabilmente in un albo d'oro di colossi, lottando altre volte per la vittoria (secondo nel '52 e nel '56 alle spalle di Coppi e di Gaul), e riuscendo a ottenere successi che sono stati il capolavoro di due gambe straordinarie al servizio di una mente superiore. Quella lucidità incredibile che gli permise, in epoche di classifiche segnate da distacchi grandiosi, di portare a casa la corsa rosa una volta per soli 11" su Ezio Cecchi, e un'altra per appena 13" sul Campionissimo, in una crepuscolare lotta (quella del '55) che segnò probabilmente il tramonto del ciclismo più eroico.

Quella lucidità che gli permise, anche, di fronteggiare l'amara delusione del Tour del 1950, allorquando, in maglia gialla, fu costretto ad abbandonare la Francia per un diktat di Bartali, che di quella nazionale era il capitano e che ritirò la squadra in seguito all'aggressione da lui subita sull'Aspin ad opera dei tifosi di casa. Per anni Magni ha serbato dentro di sé la sua verità su quella vicenda, parlandone sempre con grande pudore e mai osando macchiare la figura di Ginettaccio con considerazioni che magari sarebbe stato legittimato a fare. Un grande.

Un tenacissimo lottatore che vinse tre Giri delle Fiandre (da cui il soprannome di Leone delle Fiandre) e che ci ha lasciato una serie di immagini incredibili, prima fra tutte quella di sé che stringe tra i denti un tubolare attaccato al manubrio, nel Giro del '56, per resistere in qualche modo al dolore di una clavicola fratturata e mantenere per quanto possibile la posizione ideale in sella. Quel Giro, come abbiamo scritto più su, lo concluse al secondo posto alle spalle di Gaul, ma ne uscì come il vincitore morale agli occhi di tutti.

E un grande innovatore del ciclismo, fu Magni, il primo a capire che il futuro sarebbe stato nelle sponsorizzazioni non tecniche, il primo a mettere sulla maglia non il nome di una marca di bici ma di un'azienda altra: la Nivea del 1954 dischiuse le porte al ciclismo che sarebbe stato poi, un pianeta che letteralmente si apriva al mondo grazie all'intuizione e al coraggio di Fiorenzo.

Che fosse anche un ottimo imprenditore (di se stesso ma non solo) lo testimonia del resto anche il successo avuto nelle attività di tutti i giorni, una volta messosi a margine del ciclismo vissuto in strada, da corridore prima e da ct azzurro poi (dal '63 al '66). Seppe comunque dividersi tra l'impegno delle sue concessionarie d'automobili e una presenza importante nel nostro sport, di cui fu anche sindacalista (fu tra i fondatori dell'AssoCorridori nel 1946, e poi presidente dal '69 all'82) e dirigente proiettato nel futuro (fu anche presidente della Lega del Ciclismo Professionistico).

Gli ultimi anni li aveva dedicati con grande passione e oseremmo dire spirito di servizio al progetto del Museo del Ciclismo della Madonna del Ghisallo, un'idea che prese forma nel 2000 e che fu compiuta nel 2006, con l'apertura di questo importantissimo spazio in cui ritrovare testimonianze d'epoca (di ogni epoca) del nostro sport e in cui far sedimentare la memoria lungo il percorso ideale che dagli albori porta ai nostri tempi.

Ancora pochi giorni fa lo guardavamo con affetto nelle immagini della sua presenza alla presentazione del libro scritto su di lui da Auro Bulbarelli (Magni, il terzo uomo), non avremmo certo immaginato di doverlo ricordare così appena una settimana più tardi. L'unica parola che possiamo usare in chiusura, per riassumere il senso di questa giornata e di un'intera vita spesa per il ciclismo a tutti i livelli, è: grazie.

Grazie di tutto, Fiorenzo.

Marco Grassi

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