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Caso Armstrong: Come se ne esce? Senza questa UCI - McQuaid e i suoi hanno perso ormai ogni credibilità

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Pat McQuaid, presidente dell'UCI © BettiniphotoUn altro vaso di Pandora, l'ennesimo di questi ultimi 15-20 anni di ciclismo, è stato scoperchiato, ma stavolta il fragore è così grosso che rischia di sommergere, zittire tutte le voci che in un altro momento si sarebbero levate per puntualizzare, specificare, difendere, distinguere, ma che stavolta (a parte le uscite a vanvera del nostro Di Rocco) si mostrano molto più prudenti.

Vedremo, valuteremo, ci riserviamo di. Questi i balbettii che l'UCI, esattamente posizionata nell'occhio del ciclone, ha saputo produrre in risposta alla valanga di documentazione che l'USADA ha messo a disposizione del mondo, dopo averne fatto l'uso che ormai tutti sappiamo, e cioè essersi basata su questo materiale per incastrare Lance Armstrong ma non solo lui.

Non solo il texano, perché non basta un uomo solo per mettere in piedi un'industria del doping come quella che emerge essersi sviluppata alla corte di Johan Bruyneel (dalla US Postal alla Discovery Channel alla RadioShack) e ancora prima, sin dai tempi della Motorola. Non basta un uomo solo e non basta nemmeno un gruppo di persone seppur fidate e motivate; per tenere in piedi una simile struttura occorre che ci sia un intero sistema compiacente, stratificato su tutti i livelli.

Se quello che l'USADA (l'agenzia antidoping statunitense) ritiene provato e accertato sarà verificato e confermato tra eventuali successivi processi e ricorsi, ci troveremo di fronte alla pietra tombale sul ciclismo che abbiamo conosciuto e vissuto dagli anni '90 fino a oggi.

In fondo e a ben vedere, dalle carte non emerge nulla che un osservatore attento non potesse aver già immaginato, intuito, dedotto da anni. Solo che ora avere la conferma di tante speculazioni fatte nel tempo colora tutto di una tinta nuova, perché adesso i sospetti diventano definitivamente certezze. Il sistema di coperture con cui l'UCI ha retto il gioco di Bruyneel e Armstrong non è più un'ipotesi di fantaciclismo come poteva essere fino a pochi mesi fa, ma assume contorni chiari e non più liquidabili con le classiche frasi di circostanza.

Crolla metaforicamente (nell'attesa del crollo materiale, quando le accuse diverranno condanne) tutto l'apparato che da Hein Verbruggen a Pat McQuaid ha retto il ciclismo mondiale in questi ultimi tre lustri. Dopo questa vicenda l'UCI non ha più l'autorità morale per gestire alcunché, questo è e dev'essere chiaro, perché l'ente che doveva essere il supremo garante dell'equità e della trasparenza nel nostro sport si è in realtà venduto al miglior offerente, garantendo impunità in cambio di potere ma anche di denaro (le donazioni di Lance alla stessa UCI, ufficialmente per lottare contro il doping...).

Una tendenza che ad Aigle era già sin troppo chiara, laddove applicata alle evoluzioni del calendario internazionale (i cinesi ci offrono tanti soldi per una gara World Tour? Facciamo la gara World Tour in Cina; gli emiri del Qatar ci riempiono di quattrini per organizzare un Mondiale nel deserto? Organizziamo un Mondiale nel deserto...), e in spregio ai valori (si può ancora usare questo termine o è una bestemmia?) consolidati del ciclismo, quelli che affondano le radici in un secolo e passa di storia, anzi di Storia con la maiuscola.

Venduti, anzi svenduti per un piatto di lenticchie, perché questo sono i miseri milioni di euro ricevuti da McQuaid e soci al cospetto dello sperpero di risorse apparentemente intangibili ma del tutto reali, perché se tu sostituisci a un albo d'oro comprendente Merckx, Van Steenbergen e Hinault (mettiamo dei nomi a caso) un albo d'oro comprendente nessuno (perché la corsa è nata ieri), tu stai togliendo oggettivamente valore al prodotto che dovresti gestire.

Tutta questa politica sportiva arraffona trova finalmente un sospirato altolà. Non è così che si fa, per il bene del ciclismo.

Così come non era così che si doveva fare la lotta al doping negli anni del regno di Armstrong. Tra sommersi e salvati, non si può fare a meno di pensare a quanto Marco Pantani sia stato vessato e umiliato mentre al texano veniva concesso tutto il margine di manovra possibile e immaginabile. Uno schema che si è ripetuto (in maniera meno cruenta) ogni volta che è emerso un possibile capro espiatorio, una mela marcia da buttare via per mantenere il cesto (apparentemente) pulito: Riccò si fa l'autotrasfusione col sangue conservato in una sacca in frigo e rischia di morire, è un pazzo, è un idiota, è un kamikaze, è indegno anche di fare una gran fondo, è il male assoluto; poi si scopre - dalle deposizioni di Bertagnolli - che quella pratica era tutto sommato abbastanza diffusa in gruppo.

Ma non vogliamo qui parlare di Riccò né rimpiangerlo, ci piace però sottolineare quanto la percezione del pubblico sia potentemente influenzata da media che su ogni singolo fatto, su ogni singolo evento, ripetono a pappagallo le versioni di regime. Quelle versioni che oggi vengono pietosamente sbugiardate.

E allora, come se ne esce? Come ci si lascia alle spalle uno scandalo che devasta il ciclismo più di ogni altro (perché mina la fiducia che qualcuno poteva ancora conservare nelle istituzioni)?

Semplice: se ne esce con un tutti a casa, perché la radiazione di Armstrong e Bruyneel, bracci armati di un regime canceroso, non basta, oseremmo dire "non serve a niente". È infinitamente più importante che la frana porti con sé i vertici dell'UCI, quelli che hanno depredato moralmente e materialmente uno sport che, se gestito in maniera illuminata, sarebbe ancora un magnifico spettacolo (senza la necessità di mandare per forza i suoi alfieri a respirare lo smog pechinese...).

Deve cadere McQuaid e con lui tutta la compagnia di giro di cui si è circondato in questi anni, devono piombare rapidamente nel passato questi personaggi che, lo ripetiamo fino alla nausea, hanno curato più i propri interessi che quelli del ciclismo.

Una nuova UCI, profondamente riformata, potrà poi riacquisire la credibilità per organizzare un antidoping nuovo (e non bucherellato come quello fin qui sperimentato), che si basi sul passaporto biologico e soprattutto, sotto l'egida e con la garanzia di un ente terzo, eviti le derive giustizialiste che in questi anni - come si vede dal lavoro dell'USADA - servivano a creare quella cortina fumogena al cui riparo poi gli amici degli amici potevano fare quel che loro pareva.

A margine del tutto, l'USADA che tiene fuori l'UCI dalle indagini (per impedire insabbiamenti e depistaggi), cui fa eco il pm di Padova Roberti che fa lo stesso con la procura antidoping del CONI, sono segnali forti che dicono quanto sia affidabile la macchina della giustizia sportiva con cui ci siamo abituati ad avere a che fare. Nella ricostruzione sulle macerie odierne, un piano di ristrutturazione andrà pensato anche su quel fronte. Chiudere gli occhi, ormai, è una cosa che non si può più fare.

Marco Grassi

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