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Doping&Antidoping: E ora buttiamo via UCI e controlli? - Aigle, pesanti complicità e credibilità ai minimi termini | Cicloweb

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Doping&Antidoping: E ora buttiamo via UCI e controlli? - Aigle, pesanti complicità e credibilità ai minimi termini

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Hein Verbruggen e Pat McQuaid, passato e presente dell'UCI © Cyclismas.com

Facciamo per un attimo finta che i rappresentanti dell'Agenzia antidoping americana e quanti negli anni hanno accennato a coperture da parte dell'UCI nei confronti di Lance Armstrong (ultimo dei quali il dottor Ashenden, ex collaboratore di Aigle) siano solo dei simpatici svitati che parlano a vanvera nell'attesa che tutte le loro rotelle tornino al proprio posto.

Facciamo, solo per un attimo, il prodigioso sforzo di credere che in tutto l'operato dell'Unione Ciclistica Internazionale ci sia solo buonafede, accompagnata dai più alti ideali di pulizia, correttezza, onestà nello sport.

Alla luce di tale presupposto, abbiamo quanto segue.

C'è un ente che si trova a gestire uno sport considerato "difficile", dal punto di vista del doping. Tale ente anni fa - diciamo all'altezza del 1998 - coglie la gravità della situazione in seguito non a propri studi o a proprie analisi e conclusioni sul ciclismo professionistico, bensì perché messo brutalmente di fronte alla realtà da operazioni della polizia francese, allorché la Géndarmerie scoperchia l'affaire Festina.

Pazienza, tale ente - lo chiameremo per comodità UCI - prende atto di essere stato un po' distratto ma promette di mettersi d'impegno per arginare il problema. Da lì in avanti, una sequela di misure sempre più stringenti: si allargano i test antidoping dalle sole urine anche al sangue, con l'introduzione - primo sport al mondo - dei controlli incrociati; si impongono i controlli a sorpresa, lontano dalle competizioni; si inventa a tal uopo il sistema ADAMS, che prevede che i corridori debbano continuamente dare la propria reperibilità all'UCI, anche quando sono in vacanza: l'ente entra pesantemente nella vita privata degli atleti, i commissari antidoping non guardano in faccia a niente e nessuno, fanno il loro dovere anche quando devono prelevare dei campioni da un corridore che sta organizzando il funerale del figlioletto (caso Van Impe).

Non è più necessario essere trovati positivi ai test per essere sanzionati, basta saltare tre controlli a sorpresa. Si allarga il fronte dei divieti, nell'elenco delle sostanze illecite entrano nuovi prodotti, ma soprattutto si colpiscono determinate pratiche: vengono vietate le infiltrazioni di qualsiasi genere, anche quelle di integratori. Vengono redatte liste di proscrizione contenenti nomi di atleti da tenere particolarmente d'occhio, e tali liste divengono di dominio pubblico. Nulla di strano, se consideriamo che uno stesso presidente dell'ente (Verbruggen) sostiene che può trovare positivo chi vuole e quando vuole, mentre un altro presidente dell'ente (McQuaid) non fa mancare riferimenti più o meno velati a questo o quel corridore, che poi puntualmente viene pizzicato all'antidoping.

Lo stato d'emergenza perenne dichiarato nei confronti del doping nel ciclismo fa sì che si passi sopra alle più elementari norme del diritto (a volte dei corridori vengono esclusi dalle corse sulla base di... sospetti), e al contempo crea un clima, o diremmo più una cappa, esasperata ed esasperante su questo sport. Ma i nuovi, severissimi controlli, funzionano: ogni tanto viene beccato un corridore di seconda schiera, ma in alcuni momenti, in particolare al Tour de France e in occasione di alcune guerre di potere tra l'UCI e gli organizzatori della Grande Boucle, vengono "fatti fuori" dei grandi nomi, da Vinokourov a Rasmussen a Landis.

I controlli funzionano, sì, ma non basta ancora, ci vuole uno strumento ulteriore, il Passaporto Biologico, ovvero una scheda personale per ogni ciclista professionista, che contenga i suoi dati clinici, biologici, chimici, insomma tutto ciò che possa concorrere a determinare la presenza di comportamenti illeciti (in presenza di valori sospetti). È l'ultimo stadio di una lotta che è passata anche dall'obbligo, per i corridori, di mettere anche il loro DNA a disposizione degli organi controllanti. Un progetto talmente importante, il Passaporto Biologico, che non può essere affidato a un ente terzo, ma che l'UCI gestisce in casa. Siamo all'optimum, il ciclismo ha fatto pulizia, solo pochi reietti insistono a sbagliare, ma per loro c'è sempre una squalifica in agguato, seguita da un paio d'anni di mobbing istituzionale, una volta che saranno rientrati in gruppo.

Però, al di là dei tanti buoni propositi e dei superlativi risultati raggiunti, qualcosa sfugge sempre. I casi di doping più clamorosi continuano ad essere buttati sul tavolo non dal nostro ente, ma da agenti esterni. Le polizie di questo o quel paese, alcune federazioni o alcuni comitati olimpici nazionali, le varie agenzie antidoping con cui in teoria l'UCI dovrebbe collaborare. Tutto il mastodontico e costosissimo impianto antidoping dell'UCI non basta e non serve a scoprire alcunché sui corridori coinvolti in Operación Puerto, ad esempio; addirittura lo scalcinato carrozzone sportivo italico arrivà là dove l'UCI non riesce ad arrivare (a Valverde, tanto per citare un nome; o ai clienti del dottor Santuccione).

Non serve, l'antidoping UCI, a smascherare i tanti che continuano a frequentare il luciferino dottor Ferrari, ci si deve mettere la procura di Padova per provare a capirci qualcosa; adesso, dall'USADA, apprendiamo con sgomento l'ultima notizia.

Mentre l'UCI per anni vigilava in maniera ferrea, per non far sfuggire nemmeno una mosca tra le maglie dell'antidoping, e si mostrava inflessibile oltre ogni limite con atleti di piccolo cabotaggio (colpirne 1 per educarne...), beh, mentre avveniva ciò c'era un corridore, proprio il più in vista di tutti i corridori, che non occasionalmente, o saltuariamente, o per sbaglio, ma in maniera continuata e organizzata si dopava per vincere non una corsa che potesse passare inosservata, ma addirittura il Tour de France!

In pratica, come se un ladro rubasse la tiara al papa durante l'Angelus, e come se lo facesse non una sola volta, ma per 7 mercoledì di seguito, senza che nessuna delle guardie svizzere si accorga di nulla. Il minimo che si possa fare in questo caso è chiedersi a cosa servano tante guardie svizzere, a cosa serva transennare tutta Piazza San Pietro, se poi qualcuno può impunemente rubare la tiara al papa non una, non due, non tre, ma 7 volte consecutive.

Ma, e qui iniziamo a uscire dal presupposto di base (ovvero il dogma della buonafede da parte del nostro ente), vi immaginate lo sgomento della folla quando si scoprisse che il ladro della tiara è in realtà amico del papa, cena spesso con lui, gli fa dei regali, a volte paga pure lo stipendio alle sue guardie svizzere? Difficile da capire, difficile da credere. Eppure è proprio quello che è successo in questi anni tra Lance Armstrong e l'Unione Ciclistica Internazionale.

Il texano, nell'arco della sua traiettoria sportiva, ha goduto di coperture, in seno all'UCI, su cui oggi si fa luce. L'USADA parla di una positività occultata al Giro di Svizzera del 2001; in passato era diventato famoso il caso di una positività occultata nel '99 al Tour (si parlò di una pomata antidolorifica e si minimizzò la cosa). Vedremo nelle prossime settimane se e come le voci diventeranno carta che canta.

Avremo la conferma che l'UCI, che tuttora - per bocca dei suoi massimi esponenti, su tutti Pat McQuaid - si concede il lusso di offrire patenti di verginità a questo o quel corridore, o addirittura a questo o quel movimento (la mafia latina di Italia e Spagna contro la scienza e il progresso pulito della Gran Bretagna...), ha il peccato originale di aver permesso che alcuni suoi affiliati, portati peraltro in palmo di mano in qualità di esempi di pulizia e rettitudine, avevano il permesso di fare come pareva loro, avevano un salvacondotto che li poneva al riparo da ogni addebito, mettendoli nella posizione di fare i moralisti e bacchettare gli sporchi bari.

L'UCI ha tollerato, coperto, forse addirittura incentivato (si sa che faceva comodo una bella entratura nel mercato americano) un sistema che prevedeva pratiche dopanti di squadra, e l'ha fatto ai massimi livelli del ciclismo mondiale. Oggi che qualcuno (l'USADA) la richiama alle sue responsabilità, la stessa UCI fa di tutto (ricorso al TAS?) per chiudere la bocca di chi le chiede conto, e per tornare a gestire tutto da sé, mettendo eventualmente il silenziatore a ciò che andava, va e andrà silenziato.

Scusate, ma a noi questo sembra uno scandalo inconcepibile.

Anche nella migliore delle ipotesi, quella idillica che abbiamo tratteggiato sopra, ci troveremmo a dover giudicare un ente del tutto incapace, malgrado enormi sforzi, di esercitare il proprio controllo nel campo dell'antidoping. E dovremmo giudicarlo severamente, quell'ente, e decidere di disfarci di chi lo regge.

Ma qui siamo ben oltre il paese delle meraviglie sempre tratteggiato dalle dirigenze del ciclismo ("ci sono poche mele marce") e purtroppo troppo spesso rilanciato con (diciamo) superficialità da troppi media. Il Sistema esisteva, esiste, commentiamo oggi fatti di 15 anni fa, così come tra 15 anni commenteremo i fatti di oggi. A meno che non succeda un piccolo miracolo: che tutti quanti apriamo gli occhi, che rifiutiamo le spiegazioni di comodo, che rinneghiamo le invariabili conclusioni di ogni vicenda doping, che smettiamo di criminalizzare all'eccesso l'atleta, il singolo "che sbaglia" (ancora: l'esempio Schwazer), e che iniziamo ad alzare lo sguardo al vero marciume che ammorba il ciclismo, e che veste in giacca e cravatta, viaggia sempre in prima classe, cura i propri privatistici interessi, e non ha a cuore il bene di questo sport. Non ce l'ha proprio minimamente a cuore.

Marco Grassi

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