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Ciclismo in crisi: Italia, la risposta che non c'è - La FCI ha abbandonato il movimento a se stesso, RCS ripiega

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Renato Di Rocco e Pat McQuaid in una rara foto che li ritrae vicini © Bettiniphoto

Dall'analisi dei dati, condotta nell'ambito delle squadre (a questo link) e delle corse (a questo link), si è capito abbastanza chiaramente che l'asse portante del ciclismo si sta spostando dall'Europa "storica" verso est, sia esso un est vicino come quello dei paesi più orientali della stessa Europa, o sia un est estremo come quello di Cina e paesi "limitrofi".

Resta da capire che tipo di dinamiche sottendano a un simile spostamento, e soprattutto dovremmo immaginare verso quali scenari sta andando il ciclismo.

Punto primo: il ciclismo non può andare in una direzione troppo diversa da quella dell'economia mondiale. Si tratta di uno sport che ha alti costi gestionali, organizzare una corsa o gestire una squadra di vertice ha un prezzo molto elevato e quindi si comprendono facilmente le difficoltà che attraversano varie corse e squadre di un continente dal presente parecchio problematico come l'Europa. Quel che cambia sono le risposte che si danno a un tale avvitarsi, e ciò ci porta direttamente al secondo punto, che potremmo definire "metodiche di sopravvivenza".

Prendiamo in esame le nazioni guida della vecchia Europa, e scopriamo dai dati analizzati per due di queste nazioni che il Belgio gode di ottima salute e che l'Olanda non se la passa male. Sono due paesi in cui la "domanda interna" di ciclismo è talmente ampia che basta da sola a tenere in piedi un mercato che non disdegna momenti espansionistici (se il Tour o il Giro o addirittura la Vuelta partono periodicamente da questi paesi, un motivo ci sarà). Ma Belgio e Olanda si giovano probabilmente anche del fatto di non essere paesi organizzatori di un grande giro, fattore che li lascia relativamente tranquilli e al riparo dalle manovre politiche dell'UCI.

Spieghiamo meglio: è chiaro che il grosso della partita sui diritti televisivi che sta al fondo di tutto quel che sta avvenendo nel ciclismo da un decennio (almeno) in qua, si gioca proprio sul Tour de France e i suoi fratelli minori Giro e (a una distanza siderale) Vuelta. Sono Tour e Giro a movimentare i maggiori fondi e i maggiori investimenti (anche tecnologici), e quindi a vellicare la bramosia di chi vorrebbe fortemente avere voce in capitolo in questo meccanismo.

Che l'UCI abbia per anni usato l'antidoping come un grimaldello per colpire proprio la credibilità dei GT è ormai abbondantemente assodato; a un certo punto ad Aigle si è però capito che in gioco non c'erano solo i grandi giri e i loro organizzatori riottosi a seguire le direttive di Verbruggen, McQuaid e soci, ma l'intero baraccone a pedali. Quindi si è intrapresa con decisione una strada alternativa, agendo dove possibile sui calendari. L'obiettivo, confermato tra le righe da parecchie esternazioni di McQuaid sulla presunta negatività morale del ciclismo "latino", è sempre il solito: dividere e indebolire le fazioni resistenti per avere campo più o meno libero per esercitare il proprio potere.

Ecco quindi la frontiera americana, rappresentata dal Tour of California, messa di traverso rispetto alla storia del Giro d'Italia con una concomitanza tra le due gare tutt'altro che casuale, ma anzi creata in laboratorio, e ripresa successivamente anche sulla direttrice Vuelta a España-gare canadesi del World Tour. Non è ancora bastato: gli Stati Uniti vivono il ciclismo in maniera abbastanza autarchica per rappresentare una quinta colonna utile per drenare soldi (attività tra le più stimate a Aigle), da qui allora la necessità di trovare nuove aree di espansione.

Ed ecco la Cina e l'estremo oriente: Global Cycling Promotion, società creata dall'UCI allo scopo (ufficialmente) di promuovere e sviluppare il ciclismo in tutto il mondo, e iscritta al registro delle imprese il 28 marzo di quest'anno, diventa ad esempio co-organizzatrice di una gara come il Tour of Beijing, nata per entrare direttamente nel World Tour. Senza qui soffermarci più di tanto sulla pesante presenza della famiglia McQuaid all'interno di questo circuito aziendale sorto in seno all'Unione Ciclistica Internazionale, preferiamo puntare lo sguardo sulla risposta proveniente dalla vecchia Europa dei grandi giri.

La Spagna, devastata più di altri paesi dalla crisi economica, è in un momento quasi catalettico, ed è alle prese con un movimento colpito duramente: meno corse, meno squadre, 40 corridori professionisti rimasti disoccupati dopo il ciclomercato 2011-2012. E la Vuelta entrata nell'orbita organizzativa del Tour de France.

ASO, società organizzatrice della Grande Boucle, vive al contrario un momento di grande espansione, se è vero che ha partnership sia con i californiani del Tour più famoso d'America, sia con i cinesi di Beijing; e quindi l'intreccio tra Parigi e Aigle emerge in maniera prepotente, dopo i dissidi degli anni scorsi. Di sicuro i francesi hanno agito, e bene, d'anticipo, andando ad affiancare la cosiddetta nouvelle vague del ciclismo col loro peso e la loro esperienza. Facile farlo quando si ha per le mani un marchio come il Tour de France, si potrebbe chiosare.

Più difficile inserirsi in certe logiche partendo dall'Italia rosa del Giro. Ma da qui al nulla emerso dal Belpaese negli ultimi 2 anni ce ne passa. La Federazione ha di fatto abbandonato a se stesso il movimento professionistico, rinunciando al ruolo di contrapposizione nei confronti dell'UCI che aveva (apparentemente, dovremmo dire oggi) caratterizzato il primo mandato presidenziale di Renato Di Rocco. Non solo, la FCI ha anche evitato accuratamente di porsi come elemento regolatore dei rapporti tra i vari attori del movimento italiano: non è mai stato attuato (né tantomeno pensato) un piano di rilancio delle gare nostrane, molte delle quali sono scomparse o navigano in cattive acque; né si è dato un supporto di sorta a squadre e atleti, anche se qui va riconosciuto che l'intervento sarebbe di più difficile attuazione.

Dal canto suo, la maggiore società organizzatrice italiana, RCS Sport, ha avuto un atteggiamento ambivalente negli anni in cui è stata retta da Angelo Zomegnan: da un lato disinteresse per le corse minori, in linea col pensiero del patron («contano solo i grandi giri e le classiche monumento, tutto il resto è un riempitivo»), e infatti abbiamo visto svanire Giro del Lazio e Milano-Torino, che facevano parte del bouquet dell'"azienda rosa". Ma al contempo il fiore all'occhiello di questo bouquet, il Giro d'Italia, si è indubbiamente rafforzato, sia dal punto di vista del brand che da quello prettamente sportivo.

Lecito chiedersi dunque cosa abbia spinto i vertici di RCS a disfarsi quest'anno di Zomegnan, al netto di ragioni di facciata che son suonate abbastanza pretestuose. E altrettanto lecito chiedersi quanto sia casuale il clamoroso abbassamento di testa di Michele Acquarone, direttore generale di RCS Sport, di fronte all'emergere del Tour of Beijing: è un fatto che nel 2012 il Giro di Lombardia subirà uno spostamento in calendario che sa un po' di onta nei confronti della grande tradizione della Classica delle foglie morte, ma che è stato presentato dallo stesso Acquarone come un elemento di rilancio della corsa stessa, una volta che ci si è resi conto che non conveniva imbastire un braccio di ferro con l'UCI relativamente alla concorrenza ottobrina della neonata gara cinese.

Dalla somma dei vari addendi che abbiamo enumerato, si evince una resa senza condizioni del ciclismo italiano nei confronti del potentato di Aigle e del lavorio nell'ombra di ASO. Una resa che oggi ci dà fastidio, ma che un domani, in assenza di qualche inversione di rotta, potrebbe rivelarsi interamente per quel che è, ovvero nefasta per l'intero movimento nazionale e per l'indotto: quante biciclette italiane si venderanno nel mondo tra 10 anni, se continua questo trend?

Marco Grassi

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