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L'intervista: La signora del Giro e i suoi gioielli - Alessandra De Stefano e il nuovo Processo. E Andy...

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Alessandra De Stefano, anche nel 2011 sarà lei a condurre il Processo alla Tappa © BettiniphotoIn una Rai che, come già fatto fin qui per tutta la stagione 2011 (con sommo gaudio degli appassionati), offrirà una copertura a tappeto del Giro d'Italia, appuntamento centrale della stagione ciclotelevisiva, Alessandra De Stefano è uno dei personaggi chiave. La giornalista napoletana, alla conduzione del Processo alla tappa per il secondo anno consecutivo, ci racconta la sua carriera nel ciclismo, e soprattutto la sua grande passione per questo sport e i suoi protagonisti.

Partiamo da una domanda esistenziale: ma chi cazzo è Nuyens?
«[Risata fragorosa] Porca miseria, ragazzi! Una cosa mai successa in 20 anni, ma posso dire di non averlo detto? No, non posso... Lasciatemi spiegare, però: nelle corse belghe succede che, tra fiamminghi e valloni, ci sia un gioco a rubare le frequenze radio... Senza entrare troppo nel tecnico, dico che per ovviare a questa cosa, utilizziamo per la diretta del Fiandre dei microfoni molto potenti, da 6 watt. Io abitualmente, quando non sono collegata, tengo in tasca il microfono che uso per intervenire in diretta. Beh, nel finale del Fiandre se ne va via l'audio della telecronaca, nelle mie cuffie, per diversi minuti. Come tutti hanno potuto vedere, fino all'ultimo chilometro nessuno aveva notizie di Nuyens, che era stato praticamente invisibile. Avevo lasciato Cancellara, Chavanel, Boonen e gli altri a lottare, e al traguardo mi sento lo speaker urlare che vince Nuyens. Il senso della mia esclamazione era: "Da dove viene fuori Nuyens, dov'era finora?". Il microfono che avevo in tasca ha captato la mia frase, e questa cosa ha un po' fatto il giro del mondo... Sì, lo ammetto: era proprio mia quella voce!».

Una voce che accompagna le telecronache del ciclismo in Rai dal 1998.
«Siamo stati dei pionieri, quel lavoro prima non esisteva, iniziai addirittura non con un microfono ma col telefono cellulare. Mi sono resa conto che tutte le storie più interessanti vengono fuori in quei 300 metri che separano la linea del traguardo dai vari box. È l'unico momento in cui i corridori sono senza filtro, dicono con sincerità quello che gli passa per la testa. Già 300 metri dopo il traguardo, si alzano le barriere autodifensive; ma è in quella zona franca che abbiamo registrato le arrabbiature di Bettini, le lacrime del Petacchi tornato al successo, la felicità di Basso che annunciava la nascita del figlio e la sua vicenda con Simoni il giorno dell'Aprica al Giro 2006».

Che implicazioni comporta (e ha comportato) questa vicinanza coi corridori?
«Spesso dicono che tra me e loro c'è complicità, ma io respingo questa definizione, perché mi pare che il termine abbia un'accezione che considero negativa. Io non sono complice di niente e di nessuno, certo non posso negare un coinvolgimento umano in quello che vivo: ma mi sembra un atteggiamento naturale, il tenere il braccio a Pantani che piangeva dopo la vittoria al Mont Ventoux (e c'è stato chi ha pure negato quelle lacrime! Ma io c'ero e mi ricordo benissimo quella scena), o il tranquillizzare Belletti che tremava dall'emozione dopo aver vinto a Cesenatico, tanto da non riuscire nemmeno a parlare... L'essere testimone ravvicinata di tensioni e delusioni... Tutto ciò non fa di me una sorta di zia dei corridori (come vengo a volte definita), ma semplicemente non posso sopprimere quell'istinto di umanità che sfido chiunque a non provare in momenti di emozioni così forti e ravvicinate».

Non sono tantissime le donne nel ciclismo, anche se il numero fortunatamente cresce. Ti senti una sorta di apripista, in un ambiente forse un po' maschilista?
«A dire la verità non ho mai trovato tutto questo maschilismo, nel ciclismo. Forse perché mi sono accostata con umiltà a questo ambiente, non sono mai andata a fare la saputella coi meccanici, per dire... e ho sempre collaborato coi colleghi, non mi sono mai tenuta una notizia tutta per me. Tra l'altro non avevo certo in mente di svolgere questa professione: ho studiato storia dell'arte, avrei voluto fare la restauratrice. Ma poi iniziai a fare la cronista al Corriere della Sera, quindi entrai in Rai e quando si trattò di scegliere uno sport da seguire, tra calcio e ciclismo non ho avuto dubbi: mio padre mi faceva vedere il Tour de France in tv quando avevo 5 anni, per me questo è stato un approdo naturale. Anzi diciamo che più che sceglierlo, sono stata scelta dal ciclismo. E poi di fatto mi sono inventata un lavoro, e ci ho messo molto di mio. Ci sono tante possibilità che il ciclismo dà, ma non mi piace quando - spesso - vengono delle ragazze a dirmi "voglio fare il tuo mestiere, andare in tv": bisogna capire che il mestiere non è "andare in tv", ma fare il giornalista, esserci sempre senza formalizzarsi, essere pronti a qualsiasi evenienza, e soprattutto lavorare con scarpe basse e coda da cavallo, non con tacchi da 12 e minigonna vertiginosa».

Il giorno più nero: Madonna di Campiglio 1999.
«Già dalla sera prima c'era una strana agitazione, dappertutto erano capannelli, ma non quel normale tirar tardi. A dire il vero, il clima sul Giro era cambiato dopo il Processo alla tappa di Foggia, quando Pantani si scontrò aspramente con Tafi sulla campagna del CONI "Io non rischio la salute", coi controlli sul sangue previsti solo per i ciclisti e non per gli altri sportivi. Marco era il portavoce dei corridori che erano contrari a questo atto discriminatorio. La mattina di Campiglio io dovevo andare sul Mortirolo a fare un servizio coi tifosi del Pirata, ma di prima ora vidi Candido Cannavò che correva attraverso la piazza del paese. Dopo un po' sentii Andrea Agostini, che all'epoca era addetto stampa personale di Pantani, e lo trovai insolitamente disponibile (non sempre lo era, schiacciato dalle fortissime pressioni che quel ruolo comportava). Tutto molto strano, e infatti un quarto d'ora dopo iniziarono ad arrivare le notizie dall'albergo della Mercatone Uno. Andammo lì davanti, e dopo un po' vedemmo che Marco usciva accompagnato dai carabinieri, la mano sinistra fasciata. C'era un silenzio terribile, trovai il coraggio di chiedergli una dichiarazione per i tifosi. E - l'ho sempre detto, poi - i suoi occhi in quel momento mi fecero capire che la sua favola era finita così».

Puoi dirci qualcosa del tuo rapporto col Pirata?
«Molti sono diventati "amici" di Marco dopo la sua scomparsa... quando era in vita, neanche lo frequentavano. Anche perché lui era molto diffidente, non si apriva facilmente, ma sapeva riconoscere le cose fatte in maniera disinteressata. L'ho seguito tanto, anche negli anni "bui", e lui non lo dimenticò. Ricordo il Tour 2000, quanto si divertiva a punzecchiare Armstrong, ogni giorno ne inventava una, "Armstrong il figlio di quello che è andato sulla Luna...". Quando a Courchevel disse "Tornerò per vincere il Tour", ci credeva davvero. Poi proprio Armstrong fece di tutto per impedire a Pantani di partecipare ancora a una Grande Boucle».

Un altro giorno nero - anche se con risvolti meno tragici - fu Strasburgo 2006, apertura del Tour con Basso e Ullrich, tra gli altri, fermati dopo l'Operación Puerto.
«Non riuscii a far finta di nulla, se devo pensare che il codice etico l'aveva scritto uno come Manolo Saiz... ma allora di che etica parliamo?».

Ma perché, anche giornalisticamente, si fatica tanto a raccontare il doping in termini diversi dal "dagli al ciclista"?
«Molti sono convinti che basti inasprire le pene per risolvere la questione, ma non credo sia così semplice. Bisognerebbe piuttosto intervenire culturalmente, parlare con questi giovani. Ricordo sempre una frase detta da Vittorino Andreoli all'indomani della morte di Pantani, una frase in cui si interrogava sul saper vivere di questi ragazzi una volta scesi dalla bici. Ecco, non sento mai uno psicologo parlare di doping, non sento mai il tentativo di contestualizzare ogni storia, al di là dell'aspetto maramaldesco del corridore che cerca di barare. Non emerge mai la fragilità che è insita in determinate scelte, non si cerca mai di capire cos'è che muove e determina, anche culturalmente, questi errori».

Quale motivazione ti spinge a raccontare ancora questo sport?
«Cerco di essere testimone e non giudice, e cerco di vedere sempre la persona dietro all'atleta. E di credere, a quella persona. Mentre vorrei tanto non vedere più certa gente circolare nell'ambiente del ciclismo. Ma mi consola il fatto che i giovani che si stanno affacciando ultimamente al professionismo mi sembrano più consapevoli rispetto ai loro colleghi di qualche anno fa».

Parliamo invece di soddisfazioni professionali: qual è stata la più grande della tua carriera?
«Difficile rispondere! Alcune giornate indimenticabili, come la tappa di Courchevel di Marco, o tutto il Giro del '98... E poi il fatto di aver conosciuto una persona come Eddy Merckx».

Un nome che ci porta dritti dritti al Processo alla tappa. Che edizione sarà?
«Intanto cercheremo di mantenere i toni pacati dell'edizione 2010 (ci sta la polemica, ma odio la televisione urlata); speriamo di poter avere i corridori a lungo a disposizione su quello che sarà un vero e proprio palco. Ci saranno più servizi, avremo tanti ospiti illustri che racconteranno il loro rapporto col ciclismo, ci saranno naturalmente dei rimandi ai 150 anni dell'Unità d'Italia, ma affronteremo anche tematiche prettamente tecniche (terreno già battuto l'anno scorso quando parlavamo di alimentazione, o del lavoro dei meccanici); in più, cercheremo un contatto più diretto col pubblico, ci sarà anche Paolo Belli che farà cantare e ballare tutti. E poi Savoldelli, il nostro "teleobiettivo", a cui non sfugge niente di quello che accade in corsa. E infine Merckx, per l'appunto: un uomo di grande educazione e integrità, altro che Cannibale! Un vero signore, lo ammiro profondamente, chi meglio di lui potrà darci spunti di riflessione interessanti?».

Un "colpo di teatro" messo a segno da Bulbarelli: com'è cambiato il vostro lavoro da quando lui è diventato vicedirettore di RaiSport?
«Auro è immenso, lo definisco il "Mahatma" del ciclismo. Segue tutto, anche ogni singolo fotogramma dei servizi: qualche settimana fa, in un pezzo dedicato alla tripletta di Gilbert, ci è "scappato" di mettere un'immagine (2 secondi appena!) di Rebellin vincitore della Freccia del 2009, non del 2004 - quando fu Davide a fare la tripletta sulle Ardenne. Auro vede il servizio e mi manda un sms: "Hai fatto ringiovanire Rebellin di 5 anni!". Uno stimolo continuo, se tutti facessero così avremmo una qualità stellare. Anche se devo ammettere che per me è stato quasi un lutto perdere il compagno d'avventura di tanti anni... A volte abbiamo anche discusso su punti di vista divergenti, ma poi la sera si andava sempre a cena insieme, non ho mai visto uno capace come lui di fare squadra».

Quale sarà il tuo prossimo passo, dopo il Processo?
«Come dice Bugno, vedremo... Ci ho messo 12 anni per passare dalle interviste al traguardo alla conduzione del Processo, non penso che ne aspetterò altri 12 per "cambiare pelle" un'altra volta. Intanto sta per uscire - a giorni - un mio libro, di ciclismo ma non solo (non posso dire di più, al momento!)».

Puoi però senz'altro dirci qualcosa sul grande amore della tua vita. E parliamo naturalmente di Andy Schleck...
«Sì, ammetto anche questo, amo Andy!... Scherzi a parte, anche se Francesco e Davide (Pancani e Cassani, ndr) ci mettono il carico da 11 prendendomi in giro, devo ammettere che mi piace come corridore e come persona: è molto educato, molto riservato, mi ha colpito sin da quando lo conobbi nel 2006. Non me lo invento io il fatto che al suo pullman ci fossero 500 persone e a quello di Contador 3... Anche se Alberto è bravissimo, si concede poco, mentre Andy dà sempre qualcosa di sé ai tifosi. Poi la questione del Port de Balès, quando Contador disse di non essersi accorto del guaio meccanico di Andy: ma come ha potuto dire una cosa del genere, quando era evidente il contrario? Forse anche da lì è nato questo mito sul mio amore per Andy, e pazienza: in un mondo da sempre diviso in fazioni, coppiani e bartaliani, moseriani e saronniani, vorrà dire che io sarò la prima schleckiana. Del resto questi sono poi quegli amori che alimentano la passione per il lavoro che si fa: e visto che non sono la telecronista, diciamo che mi è concesso sbilanciarmi un po'!».

Marco Grassi

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