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Doping: Rossignur! Questa non ci voleva - Analisi di un terremoto in divenire

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Enrico RossiMentre il ciclismo, grazie a controlli sempre più invasivi negli ultimi anni, può dirsi di aver - se non debellato - limitato quasi a 0 il doping, stranamente i NAS scoperchiano nuovi calderoni da cui emerge un traffico di sostanze vietate che non si è mai interrotto nel tempo.

L'ultima operazione della lunga serie si chiama in codice Cobra-Red, un codice da templari, proprio, chi mai potrebbe leggervi in filigrana i nomi Riccò-Rossi? Fatto sta che intorno al modenese si è fatta la solita cagnara, e poco importa che stavolta Riccardo, a quanto emerge dalle prime risultanze delle indagini, sia vittima e non colpevole.

I fatti. Giovanni Camorani, preparatore di Riccò, ricevette oltre un anno fa degli strani SMS firmati Cobra Riccò o Richi R., nei quali gli si chiedevano sostanze dopanti. Constatato che il numero da cui provenivano i messaggi non era di Riccò, e che non ci fu modo per Camorani di contattare direttamente il mittente, il preparatore si rivolse ai carabinieri. I quali, da quell'utenza telefonica (che pare intestata a un cinese), hanno messo in piedi l'inchiesta che in questi giorni ha portato all'arresto di Enrico Rossi, cognato di Riccardo, e di altre 5 persone.

Le accuse sono di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze illecite. In base alla teoria degli inquirenti, suffragata da intercettazioni telefoniche e ambientali, Rossi sarebbe stato il collettore di grandi quantità di sostanze dopanti, acquisite per mezzo di un farmacista e di un'infermiera romani, e di un ex corridore colombiano, Nicolas Vanegas, pierre oltre che collaboratore in prova (da due anni) della Dea Pubblicità, l'agenzia che procura le inserzioni alla Compagnia Editoriale (quella di Bicisport, per i 3 che non lo sapessero).

Ora, a parte l'aspetto divertente della vicenda, che si esaurisce nel coccolone che sarà venuto al povero Sergio Neri (fondatore e direttore di BS e della C.E.), il quale immediatamente ha diffuso un minacciosissimo comunicato stampa, pieno di riferimenti a codici, articoli e commi di legge, per sconsigliare a chicchessia - pena la querela! - di ipotizzare collegamenti tra lui e questo colombiano che nemmeno sa chi sia (si rilassi, Sergio: non l'abbiamo mai pensato!!!); a parte quest'aspetto, dicevamo, resta una vicenda che pare ancora al primo stadio, e che promette ulteriori dolorosi risvolti, visto che ci sono altre 35 persone coinvolte nell'inchiesta e denunciate a piede libero. E tra queste ben 6 professionisti, il che ci dice che la storia avrà mille strascichi e ricadute sul movimento italiano.

Un piccolo terremoto, insomma, che sta per stravolgerci, e che per ora, a quanto pare, coinvolge Riccò per l'appunto solo come vittima di un tentativo di screditare il suo nome. I toni sono purtroppo quasi da tragedia greca, per lui, che si vede circondato da indagati: oltre al cognato, anche Vania Rossi (fidanzata di Riccardo e sorella di Enrico) è iscritta nel registro, e anche i genitori dei due fratelli ciclisti. Siccome al momento è bene non ipotizzare alcunché all'infuori di quanto già reso noto dalle forze dell'ordine (il Resto del Carlino ha pubblicato alcune intercettazioni telefoniche di Enrico che tra le altre cose parla apertamente degli effetti positivi su di sé di determinate sostanze), ci limitiamo ad uno sguardo d'insieme.

Non possiamo non rileggere alcuni episodi del passato con occhi diversi, per esempio: come dimenticare la battuta di Riccò sul cognato quando, a inizio 2010, si seppe della positività (poi smentita dalle controanalisi) di Vania? (Per gli smemorati: «Adesso tutti penseranno a me, e nessuno al fratello»). E come non chiedersi se nel divorzio del modenese dalla Ceramica Flaminia (in cui milita Rossi - ora sospeso - e che però non è in alcun modo coinvolta nell'inchiesta) non ci fosse qualcosa di più di "semplici" questioni economiche e contrattuali?

Al fondo, come accennavamo in apertura, il disastro dell'antidoping, che si picca di scoprire tutto ma poi dalle sue larghe maglie passa questo mondo e quell'altro, a partire da ciò che ci dicono inchieste come quest'ultima dei NAS, per finire con le decine di sostanze non detectate nei test. Peccato che la comunicazione ufficiale sia improntata a un ottimismo del tutto destituito di fondamento e si basi sui casi eclatanti che negli anni scorsi hanno inchiodato le carriere di alcuni dei più forti ciclisti del gruppo.

Al contempo, si scopre che più che il deterrente di pene smisurate (2 anni, 4 anni, la radiazione, il taglio della mano...) o di controlli che non rispettano in alcun modo il diritto alla privacy (e non solo quello) dei corridori, o della gogna mediatica che si scatena dopo una positività eccellente, potrebbe fare il progetto del passaporto biologico: il motivo è che tale misura ha un risvolto assente nei controlli classici, ovvero la tutela della salute dell'atleta.

Lo farebbe, quel di più, se non venisse usato come la solita clava in mano all'UCI (che fa e disfa a suo piacere), ma venisse interpretato come un elemento di servizio per monitorare lo stato fisico dei corridori e per suggerire (vogliamo dire imporre? diciamolo pure) degli stop cautelativi in presenza di valori fuori dai parametri previsti. Il tutto senza l'inutile clamore che abbiamo sperimentato in questi anni. Siamo sempre dalle parti della riduzione del danno: posto che il doping è inestirpabile, facciamo almeno in modo che a) i ciclisti non rischino la salute oltremisura, e b) non ci sia il continuo schizzare di fango su questo sport; il tutto, in un'ottica di realismo e onestà nei confronti del pubblico, a cui sarebbe il caso di non dire che il doping è quasi (da decenni) sconfitto.

Si può fare? Utopia.

Marco Grassi

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