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«Quel giorno sul Pordoi» - Gibo Simoni e la sua storia

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Simoni lascia dopo 17 anni di carriera - Foto BettiniL'abbiamo visto pedalare pochi giorni fa sulle ultime salite della sua carriera professionistica, e la grinta e il cipiglio erano quelli di sempre. Ma quell'immagine di Gilberto Simoni sul Gavia, e poi il festeggiamento di domenica all'Arena di Verona, con tanto di cravatta rosa, sono le immagini destinate a restare la controcopertina della lunga carriera del corridore di Palù di Giovo. O ex corridore, per meglio dire: sì, perché Gibo si è ritirato dopo il suo quindicesimo Giro d'Italia, e ora si gode i primi giorni di riposo totale (anche mentale) dopo tanti anni di carriera.

Cosa si prova ad avere tanto tempo libero, finalmente?
«A dire la verità devo ancora gustarmelo. Sto sistemando alcune faccende rimaste sempre in sospeso, ora che ho smesso posso occuparmene».

Cosa ti mancherà di più del ciclismo?
«Ho 39 anni, per 17 ho fatto il professionista, penso di aver "riempito tutti i buchi", ho dato e preso tanto. Non c'è una cosa precisa che mi mancherà... mi mancheranno i miei 20 anni, ma quelli penso che manchino a tutti, ciclisti o meno».

E allora cosa ti mancherà di meno?
«Eh, son passati solo pochi giorni, non so ancora dire. Ma probabilmente le cose negative scivoleranno in secondo piano e non le ricorderò nemmeno».

Com'è cambiato il ciclismo dai tuoi esordi a oggi?
«Si tende sempre a dire "si stava meglio quando si stava peggio", ma in realtà è solo cambiata la vita. Il ciclismo non è che una conseguenza; sento tanti dire che i giovani corridori non fanno gli stessi sacrifici che abbiamo fatto noi alla loro età... ma poi penso che oggi è difficile trovare un giovane che vada a lavorare in miniera, si cercano soluzioni più comode. Allo stesso modo, non possiamo pensare che i neopro' oggi siano abituati alle stesse cose a cui eravamo abituati noi. Anzi, secondo me bisogna apprezzare molto i giovani ciclisti, proprio perché accettano comunque di fare dei sacrifici che molti loro coetanei non accetterebbero».

Pensi che i corridori siano rispettati dalla gente come 20 anni fa?
«Esco ora da un Giro d'Italia in cui ogni giorno c'è stata una festa, ho sentito il calore della gente come lo sentivo nei miei primi anni di carriera. Io penso che il ciclismo e i ciclisti siano tuttora molto amati a livello popolare».

Quel è stato il giorno più felice in sella, per te?
«Senza dubbio il giorno in cui presi la mia prima maglia rosa, sul Pordoi. Ricordo ancora quell'emozione, era il sogno della mia vita che diventava realtà. Per 30" vissi un trasporto incredibile, poi venni riportato alla realtà dalla gente che mi urlava intorno e dai primi impegni comportati dal ruolo di nuova maglia rosa. Quel ricordo resta comunque qualcosa che mi rimarrà sempre dentro e che tuttora mi riempie di gioia e dà significato a quello che ho fatto nella mia carriera».

I rimpianti? Il non aver mai fatto classifica al Tour, o l'aver ottenuto meno del possibile nelle classiche?
«Il rimpianto è nel non aver distribuito meglio le forze. Mi allenavo con Fondriest, vengo da quell'epoca, e mi son portato il retaggio di correre forse troppo rispetto agli standard moderni. Ora capita che ogni corsa abbia il suo campione di riferimento, la specializzazione è grande, probabilmente avrei dovuto selezionare diversamente i miei calendari per ottenere risultati più eclatanti».

Si può dire che il tuo rivale è stato Garzelli?
«Sì, ci siamo incontrati diverse volte sul podio... Ma anche con Savoldelli ho fatto belle battaglie, e non voglio dimenticare Casagrande, che mi ha sempre dato del filo da torcere».

Qual è stata la corsa che sentivi di meritare particolarmente e che invece ti è sfuggita?
«Troppe ce ne sono state, gare in cui mi sono piaciuto ma che non ho vinto. Ho avuto una strana oscillazione tra fortuna e sfortuna: da dilettante stravincevo anche senza accorgermene, anche quando non dovevo vincere, tutto girava bene. Al passaggio al professionismo, tutto è girato. Forse a volte ero troppo forte e mi facevano fuori, è successo tante volte... diventò una sfida col mondo e con me stesso, perché tra me e me sentivo di andar bene».

Ti sei fatto molti amici nel ciclismo?
«No, non ho fatto amicizia con tutti. Ma gli amici ce li ho anche nell'ambiente, pochi, ma ci sono».

Come si è evoluto il rapporto con Cunego, al tuo rientro in Lampre in questa metà stagione?
«Son tornato dai Galbusera per l'amicizia che mi lega a loro, con cui vinsi il mio primo Giro. Quello con Cunego è un discorso a parte, nel 2004 le cose andarono male ma sono consapevole di averlo perso io quel Giro, dopo la caduta di Trieste non avevo più la stessa consapevolezza di prima, per cui diciamo che la colpa fu mia, indipendentemente dal fatto che poi vincesse Cunego o un altro avversario. Il dissidio di Bormio veniva dalla mia volontà di vincere comunque una tappa, ma diciamo che la questione va anche oltre Damiano, visto che Martinelli ebbe delle precise responsabilità: è abituato a stare coi cavalli vincenti, e in quell'occasione stette seduto su due sedie. Ma anche lo stesso Cunego si è reso conto di certe cose, tant'è vero che le strade tra lui e Martinelli si sono separate».

Anche Riccò fu per un certo periodo definito come il tuo delfino. Come lo vedi, Riccardo?
«Siamo stati compagni nei suoi primi anni. È chiaro che, come tutti i giovani, era esuberante e voleva inseguire subito tutti i traguardi. Si è detto tanto su di lui, ma il talento ce l'ha e ce l'ha sempre avuto: ne ho visti di maiali volare, in questi anni, e vi assicuro che Riccardo è forte di suo. Il punto è che il ciclismo è un mondo troppo serioso, se uno appena alza la testa viene subito additato come arrogante».

Cascata del Toce. Cosa pensi di dover ancora dire su quella giornata?
«Tutti ricordano com'è andata; per me fu una specie di resa dei conti, anni prima a Madonna di Campiglio ero scattato io e lui in maglia rosa era venuto a riprendermi. Com'era giusto che fosse, del resto io non gli avevo chiesto niente. Come non ho chiesto niente sul Gavia a Tschopp. La corsa segue le sue tattiche e il suo svolgimento».

Però dopo la morte di Pantani avevi in qualche modo "rinnegato" il tuo inseguirlo quel giorno.
«Aveva una gran depressione, mi dispiace moltissimo per quello che gli è successo, non lo augurerei a nessuno. Dissi che forse, se fosse servito a salvarlo, ad aiutarlo, se fossi tornato indietro forse non l'avrei inseguito. Ma sono ben consapevole che l'episodio di Cascata del Toce è una goccia irrisoria in un grande mare».

Hai citato il Gavia e Tschopp. Avevi fissato la Cima Coppi come tuo obiettivo del Giro? E non rimpiangi di non aver seguito lo svizzero, che poi è andato da solo al traguardo?
«No, nessun progetto e nessun rimpianto. Ho vissuto giorno per giorno, lo Zoncolan era il sogno impossibile, e dopo in ogni tappa ci sarebbe stato un motivo per far qualcosa di buono, a Plan de Corones, a Pejo... Il Gavia era l'ultima occasione, ma ho speso il 50% delle forze già solo per andare in fuga, ed ero già contento così. Poi ero già contento di continuare a reggere anche sul Gavia; poi ero contento di giocarmi il Gpm. Insomma, ogni metro in più che veniva era già buono. Certo, mi sarebbe piaciuto scollinare per primo, ma va già bene così. Poi in discesa Tschopp ha avuto più coraggio ed è andato avanti, e siccome il coraggio conta più dell'esperienza mi è sfuggito. Bella storia, quella dell'esperienza: non ci ho mai vinto una gara, mentre con l'istinto sì: più si è esperti, più si tende a far statistiche e calcoli, e questo non va bene, in realtà non serve a niente».

Cosa lasci di te al ciclismo? Oltre il record di 21'54" sulla Bocchetta e il tuo palmarès, a livello umano che resta?
«Non sta a me dirlo, ognuno è libero di giudicare e di pensare bene o male di me. L'importante è che sia un pensiero sincero. Ecco, mi piacerebbe che restasse di me un pensiero sincero».

Ci può essere un futuro per te nel ciclismo?
«Non mi chiudo certo le porte, si tratta di un ciò che per tanti anni è stato il mio lavoro, e che mi ha dato tanto... ma al momento non ci penso, penso che lo farò a fine anno, devo rifletterci bene perché si tratterebbe comunque di un impegno a tempo pieno».

E che farai, allora, nell'immediato?
«Una bella vacanza, voglio andare al mare. Per tanti anni ho fatto le ferie in montagna, dove ne approfittavo per allenarmi, ma ora ho voglia di mare. E la bici la userò solo per fare dei giri tranquilli, niente a che vedere con allenamenti e competizioni».

Marco Grassi

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