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Hai voluto la bicicletta? - Scopriamo il mondo di Zsolt Dér | Cicloweb

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Hai voluto la bicicletta? - Scopriamo il mondo di Zsolt Dér

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Osservando su una carta geografica l'attuale area balcanica si scorge a nord della Serbia una città di frontiera: si tratta di Subotica. Situata a meno di 10 km dal confine con l'Ungheria, Subotica è una città multietnica: serbi ed ungheresi convivono tra le stesse mura insieme ad ebrei, croati e bunjevci, un'altra etnia che popola la Provincia autonoma della Vojvodina, di cui Subotica fa parte. In questa città dai mille volti, il cui significato è "luogo libero" ma che è stata più volte martoriata dalle guerre e divisa tra razze, religioni e Stati, nasce il 25 marzo 1983 Zsolt Dér. Il cognome è breve come un sospiro, lo si pronuncia con la stessa velocità con cui si effettua una volata. Tre sole lettere che ingannano, perché questo biondo 26enne dalla folta chioma ci ha raccontato una piccola parte della sua vita, ciclistica e non, coinvolgendoci sempre più nel racconto. Soppesa le parole, cerca il vocabolo giusto e prima di esprimere un giudizio ci pensa più di due volte. Zsolt-Dér, due colpi di pedale ritmati e la giusta sfrontatezza di chi, a 26 anni, sa di voler fare il ciclista. Negli ultimi due anni ha corso per la Centri della Calzatura ma ad oggi, dicembre 2009, è in cerca di una nuova squadra.
Ciao Zsolt, puoi presentarti rapidamente a chi non ti conosce, per iniziare?
«Certamente. Il mio nome è Zsolt ed il cognome è Dér. Sono nato in Serbia nel 1983 - allora si chiamava Jugoslavia - a Subotica, scritto con la "c", e faccio il ciclista professionista».
Quando hai iniziato ad andare in bicicletta?
«Avrò avuto undici anni. Prima avevo giocato un po' a calcio, praticato la ginnastica, insomma, mi ero avvicinato a quegli sport che praticano tutti i bambini. Ho scelto la bici perché mi ha incoraggiato mio papà, che da giovane ha avuto dei trascorsi, anche se non so dire con precisione fino a quale categoria sia giunto».
Allora nella tua famiglia il ciclismo era il pane quotidiano.
«Sì, possiamo dire di sì. In realtà avevo praticato tutti gli altri sport perché non volevo iniziare subito con il ciclismo. Però un po' per passare il tempo e un po' perché la bici fa bene alla salute mi sono messo a correre e da lì non ho più smesso».
È stato facile per te iniziare a praticare il ciclismo?
«L'inizio è stato molto facile perché proprio nella mia città esiste una squadra, lo Spartak Subotica, nella quale ho preso confidenza con le corse vere. Però la Serbia non vanta una grande tradizione ciclistica e se vuoi combinare qualcosa devi lasciare casa tua. Ecco perché per correre tra gli Juniores mi sono dovuto trasferire a Belgrado. Correvo nella Milicionar, che equivale ad una squadra della polizia».
Quindi il passaggio tra gli Under 23. Com'è stato?
«Tra gli Under 23 correvo nelle fila del Partizan Belgrado. Gareggiavamo spesso all'estero, in Ungheria o in Bulgaria. A dir la verità non eravamo in molti e così vincevo quasi sempre. Da dilettante ho conquistato moltissime corse, quasi tutte qui nell'Est».
Come prosegue la tua carriera?
«Nel 2004, sempre tra gli Under 23, vado alla Marchiol. Sono molto emozionato perché è la mia prima squadra straniera e le motivazioni sono elevatissime. Purtroppo parto svantaggiato. Infatti inizio a correre da marzo perché nascono dei problemi per ottenere il visto, necessario per entrare in Europa. Il ritmo di gara in Italia, inoltre, è totalmente diverso da quello in Serbia. Qui al mio paese ci sono pochi corridori e poche corse. In Italia alla prima corsa trovo duecento ragazzi ai nastri di partenza. L'adattamento è stato difficile ma mi sono sempre piazzato bene, mai fuori dai primi 20 o 30. Mai una vittoria fino a metà stagione, però. Ero uno straniero e se non vincevo non avrei potuto continuare con la squadra, queste erano le regole. Fatto sta che disputo il Giro di Serbia ed il Campionato Nazionale ma al mio posto la Marchiol prende un corridore venezuelano, Machado. Fine della storia».
Quindi il patto era questo: o vinci o torni al tuo paese, se non abbiamo capito male.
«Si può dire che sia successo questo, purtroppo. Ma quando ci sono troppi corridori è logico che accada ciò».
Nel 2006 però passi professionista con il Team Endeka.
«Esatto, anche se in realtà già nel 2005 avevamo preparato il mio passaggio alla Nippo. Tutto era pronto ma alla fine non mi hanno preso, non ho mai saputo il vero motivo. Ma forse questo è meglio se non lo scrivete...».
Dicevamo del passaggio pro, come ti sei trovato al primo anno tra i grandi del ciclismo?
«Eravamo una squadra tranquilla con qualche ragazzo davvero forte. Penso a Devis Miorin, che proveniva dalla Liquigas, anche Bragazzi andava benino. A stagione inoltrata sono arrivati anche Gianluca Coletta e Maurizio Biondo. Con il Team Manager Simone Mori mi sono trovato abbastanza bene. Del resto ci conoscevamo già dai tempi in cui correvo in Serbia. So che è un personaggio molto discusso ma non voglio giudicarlo per questo. So che con lui non mi sono trovato né benissimo né malissimo. Tutto è stato normale. Invece l'anno successivo alla P-Nívo-Betonexpressz 2000-KFT.se mi sono trovato benissimo».
Cos'è cambiato in dodici mesi?
«Nulla di particolare, però ho trovato in questa squadra ungherese molta più distensione. Non avevamo troppa pressione addosso e per questo lavoravo meglio. L'unico problema era quello degli inviti alle corse, difficili da ottenere. Così s'è puntato sulle gare classificate dall'UCI 2.2. Ho colto anche 6 vittorie».
Qual è stata la più bella vittoria di quel 2007 per te?
«Forse una tappa al Giro di Serbia. C'è stata una volata di gruppo e quando non ci sono grossi calibri in campo me la posso giocare. Con Petacchi la faccenda si fa più complicata... (ride)».
Ecco, non abbiamo ancora parlato delle tue caratteristiche.
«Sono un passista veloce. Vinco in volata ma appena c'è una salita saluto le ruote dei primi. Quindi non potrò mai giocarmi una corsa a tappe... (ride)».
Quali sono i tuoi modelli?
«Mi piaceva da morire Jan Ullrich, purtroppo non ho mai corso in gruppo con lui. È un ragazzo fortissimo e si vede con quanta fatica abbia ottenuto i risultati che ha ottenuto, non come Armstrong che sembra più che altro un robot. Il mio modello di sempre resta comunque Indurain».
Dal 2008 sei passato a correre con la Centri della Calzatura e ci correrai anche nel 2010, giusto?
«Non proprio. L'anno prossimo infatti non farò parte di questa squadra. La crisi economica ha portato ad una riduzione degli sponsor, in più c'è stato il "caso Rasmussen" e molti di noi sono stati lasciati a piedi. Eppure abbiamo corso molto, ottenuto anche ottimi risultati e per me è stato fantastico gareggiare a fianco di grandi campioni».
Hai già trovato qualche contatto da parte di altre squadre?
«Veramente no. Qui in Italia è davvero difficile trovare una squadra. Credo proprio che tornerò in Serbia perché correre in Italia, lontanissimo da casa, è un gran problema. Si sente la nostalgia, inutile nasconderlo. Sono fortunato ad avere una fidanzata al mio fianco, Sonia, che in questi nove anni anni mi ha sempre aspettato e supportato. Tornerò in Serbia e se non troverò una squadra potrei sempre andare a lavorare nella ditta di mio padre. Si occupa della fabbricazione e del montaggio di tubi e grondaie».
Dici Serbia e pensi alla guerra in Jugoslavia. Ti ha segnato?
«Qui a Subotica, essendo lontani dalla guerra, non ne siamo rimasti segnati più di tanto. Il conflitto ha però avuto indubbie ripercussioni sulla società e, di riflesso, sul ciclismo. Vedo gli atleti della Slovenia che sono molto più avanti di noi serbi. Prima della guerra eravamo una Nazione sola».
Come si vive in Serbia a fine 2009?
«A me questo paese piace. Naturalmente ha i suoi lati negativi, per esempio gli stipendi sono troppo bassi mentre i prezzi sono elevati, un po' come in Italia. Con il ciclismo non mi sono arricchito più di tanto, ma sicuramente più di molti miei amici che hanno continuato a studiare o hanno iniziato a lavorare. Però qui c'è tanto divertimento, i serbi sono caldi, quasi come gli italiani. Voi dite di essere un popolo caliente, o sbaglio?».
Eh già, non sbagli affatto. Ma quando scendi dalla bici che tipo di ragazzo sei?
«Sono un tipo calmo, anche se a volte mi arrabbio, un po' come tutti. Allora cerco di ragionare, pensando che non siamo tutti uguali. Inoltre mi piace divertirmi con i miei amici e con la fidanzata, e poi adoro un sacco viaggiare. Se avessi studiato avrei fatto il turistico soprattutto per questo. Mi piace visitare posti nuovi e imparare tante lingue».
Quante ne parli?
«Quattro. Serbo, Ungherese, che qui si insegna a scuola come lingua madre, inglese ed italiano. Una volta sapevo bene anche il tedesco, ora l'ho un po' perso e lo vorrei recuperare. Però lo capisco bene».
Qual è il posto del mondo che hai apprezzato maggiormente?
«Mi è piaciuto molto il Sudafrica. E la Tunisia. Sonia ed io siamo stati tre volte in Tunisia e ci è piaciuta molto. A me rilassa perché andando in vacanza ad ottobre posso stare in riva al mare senza bruciarmi».
Quali altri hobby coltivi?
«Amo giocare a poker, ora va molto di moda. Poi gioco a squash, pattino sul ghiaccio, scio. Inoltre mi piace il cinema, i film d'azione, i thriller e poi leggo. Non tanto, dipende dal periodo. A volte leggo tre libri alla volta, così dopo devo staccare (ride)».
Le tue letture preferite?
«Stephen King e Dan Brown su tutti. In serbo o ungherese si possono trovare molti libri, anzi, quasi tutti».
Qual è la tua corsa dei sogni?
«Mi piacciono tutte le corse, però ho paura che il mio treno sia già passato e non ci sia saltato su. Infatti molti mi dicono che sarei un tipo da corse belghe. Non ho mai avuto l'opportunità di testarmi e vorrei farlo per scoprire se quelli che mi vedono forte nelle Classiche del Nord hanno ragione oppure no».

Francesco Sulas



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