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Spese, tagli e tanti guai - Intervista a Feltrin, gm Katusha

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Tutto nasce da una percezione dell'estate scorsa, avuta davanti alle immagini di una lunga carovana ciclistica. All'epoca i costi dei carburanti erano esorbitanti, e la domanda sorse spontanea: se le spese continueranno a crescere, per quanto tempo ancora potremo permetterci uno sport per certi versi dispendioso come il ciclismo? Da questo quesito partiamo per un'inchiesta sullo stato di salute economica del nostro sport, sulle prospettive e su quello che andrebbe migliorato a livello gestionale. E iniziamo intervistando Stefano Feltrin, general manager del Team Katusha, squadra esordiente nel Pro Tour che schiera tra le sue fila corridori del calibro di Pozzato, McEwen, Napolitano.
Ci aiuta a capire un po' i conti del ciclismo? Che novità ci sono a livello economico con la crisi internazionale che avanza?
«Le novità sono che i budget a disposizione si restringono e i costi aumentano, e diventa difficile far fronte a tutto».
La crisi spazza tutto l'orizzonte...
«E non l'abbiamo ancora avvertita in pieno. Vedremo a fine anno quanti avranno rispettato i vari contratti di sponsorizzazione; per dire, a Riis gli è fallito il secondo sponsor e dalla sera alla mattina si è ritrovato nei guai. E i fornitori, che mezzi continueranno ad offrire?».
Qual è il budget che avete a disposizione per il Team Katusha?
«15 milioni di euro, ma il problema non è tanto il budget a disposizione, quanto i costi ineliminabili che crescono. Per dire, l'anno scorso, col gasolio alle stelle, abbiamo pagato un salasso per gli spostamenti del team. Quest'anno è la volta delle assicurazioni per i corridori, aumentate a dismisura».
Quali sono le voci di spesa più incidenti nel bilancio?
«Innanzitutto il monte salari, e subito dopo la gestione del parco mezzi di servizio. Quindi, a ruota, le spese per i viaggi, per le assicurazioni, per i materiali di consumo (dal latte alle bende agli olii vari), per i ritiri».
La cosa che più odia dover pagare?
«Sicuramente delle spese a livello amministrativo. Per esempio per la licenza, ma soprattutto per i fondi di accantonamento che vanno a beneficio di nessuno. Una tassa che dobbiamo sborsare all'ACCPI sul lordo salariale e che va appunto a rimpinguare questa cassa per i professionisti; ma noi paghiamo per corridori che quei benefici non li avranno mai, visto che per esempio sono russi e non vivono in Italia».
In un simile scenario è facile immaginare dei tagli sulla gestione: che cosa vanno a colpire tali tagli?
«Si abbattono in maniera trasversale su tutta l'attività. Per fare qualche esempio, dirò che anziché 10 giorni di ritiro se ne fanno 8, che anziché dotarsi di tot materiali se ne comprano di meno, e pazienza se ci saranno meno ricambi a disposizione».
Di quali servizi vi aspettereste di fruire e invece non ce n'è traccia?
«Di un mare di servizi... ottenere qualsiasi cosa, veder rispettato qualsiasi diritto è un mezzo miracolo, dai permessi di soggiorno per gli atleti a qualunque necessità amministrativa. Ecco, andrebbe snellita di molto la burocrazia, andrebbero semplificate e uniformate le regole: è assurdo che la licenza costi una cifra x in un paese e il triplo in altri; è assurdo che in alcuni paesi il costo di un neoprofessionista sia equiparato a quello di un Boonen».
Si avvertono già delle differenze con qualche anno fa?
«La differenza che subito balza agli occhi è che i costi sono saliti drasticamente, dalla licenza UCI ai salari minimi per i corridori; e sono state inserite più spese obbligatorie, a partire dal passaporto biologico, che è una buona cosa, ma in definitiva lo paghiamo per intero noi».
Per quanto incide sul bilancio la spesa per controlli antidoping e compagnia bella?
«Siamo al 5%, e direi che paghiamo già tanto per la parte sanitaria dello staff, questa spesa ulteriore è davvero pesante da sostenere».
Nelle squadre più piccole l'incidenza sul bilancio è ancora maggiore...
«In percentuale può anche essere; in valori assoluti, non direi, visto che ci sono squadre che nemmeno aderiscono al programma del passaporto biologico. Ecco un'altra discrepanza che andrebbe sanata».
C'è qualche programma, o almeno qualche idea per affrontare la crisi economica senza finire a gambe all'aria?
«Presto ci riuniremo con l'associazione dei gruppi sportivi, perché è arrivato il momento di varare un'unica struttura per la difesa dei diritti economici delle squadre. Non è possibile che noi che siamo attori protagonisti del ciclismo siamo esclusi dalla spartizione dei diritti televisivi».
Si profila un'altra lotta con l'UCI?
«Non una lotta, ma semplicemente una presa di coscienza del fatto che i protagonisti di uno sport, come noi siamo, devono partecipare alla suddivisione degli utili e alla gestione dei medesimi. Invece si naviga nell'incertezza, e così è anche difficile presentarsi da uno sponsor per vendergli un prodotto che non sai - alla fine - quanto varrà, e di cui non sai bene come verrà strutturato: parteciperemo a questa o quella corsa? Avremo questo tipo di presenza o no?».
Ecco, a proposito di sponsor, alcuni fuggono: come mai?
«Per motivi economici, fondamentalmente. E questa fuga non è in atto solo dal ciclismo, ma anche da altri sport. È chiaro che se non si hanno utili, è difficile investire in pubblicità: con la crisi, ci sono meno aziende che hanno i fondi per lanciarsi nel ciclismo».
E poi diciamo anche che il Pro Tour costa troppo...
«Il Pro Tour costa, certo, ma se c'è un ritorno si investe anche se le cifre sono elevate; il problema sorge quando quel ritorno non arriva, e va detto che il ciclismo a volte fa di tutto per rendere difficoltoso questo circuito virtuoso. Non parlo tanto o solo di doping, quanto di cattive gestioni, di corse sovrapposte le une alle altre, di confusione che regna sovrana. A un certo punto come fai a convincere un'azienda a investire nel ciclismo piuttosto che comprarsi una pagina di un giornale nazionale per la sua pubblicità?».
Ma non è che è il ciclismo in sé ad essere troppo dispendioso, a vivere al di sopra dei propri mezzi? Indubbiamente altri sport richiedono molti meno sforzi a livello organizzativo, non è che il ciclismo dovrà darsi un drastico (ulteriore) ridimensionamento per pure ragioni economiche?
«Questo ridimensionamento è già in atto da tempo, basta vedere che il numero di squadre di un certo livello tende a decrescere, che i budget si assottigliano. A volte perdi un piccolo sponsor tecnico e ti pare un danno di poco conto; poi vai a vedere che i materiali che ti forniva quello sponsor devi andare a comprarteli, e ti rendi conto che il danno è doppio, e che perdere anche il più piccolo degli sponsor dà grosse ripercussioni sull'intero bilancio».
C'è qualcosa che dovrebbe fare nell'immediato il presidente federale Di Rocco, prossimo alla rielezione?
«Si dovrebbe intevenire in merito all'incapacità di adeguare le strutture manageriali ai tempi mutati. La trafila è bene o male sempre la stessa: un ex professionista sale in ammiraglia, e nel giro di pochi anni diventa team manager. Ma è un team manager che si occupa di tutto, dalla scelta dei materiali ai rapporti con la stampa, dall'organizzazione delle trasferte ai contatti con gli sponsor. Bene, non è più tempo dei team manager tuttofare, al contrario sarebbe necessario avere dei professionisti per ogni area d'intervento. E purtroppo certi malvezzi ci sono anche nella stessa vita federale. In passato si sono perse delle occasioni, in generale mi pare che - al di là di UCI o federazioni - ognuno pensi al proprio orticello anziché al bene comune. E così può capitare di vedere dei personaggi che tirano pacchi da anni e che ancora possono circolare indisturbati nel ciclismo. Non è così che si può affrontare al meglio una crisi economica».


Marco Grassi    



1 - Continua



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