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Peterson bello Frisco - Tappa al 22enne; Leiph in maglia

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Dici San Francisco e non è che stai nominando una città come le altre. Al di là della sterminata iconografia cinematografica (dagli inseguimenti in auto di Bullitt McQueen alla sinistra sagoma di Alcatraz da cui - si dice - non fuggi se non ti chiami Clint, dalle paturnie amorose del giovane Allen nella sua prima trasferta extranewyorkese all'avventura politica e morale del candidato Milk...); al di là della fama di essere patria del progressismo e terra promessa della Beat Generation; al di là della nebbia e del mare, del sole e dei saliscendi, San Francisco ha la grande responsabilità di essere la città in cui è nato il rock psichedelico, la colonna sonora della controcultura hippy, l'esplorazione e lo sperimentalismo nella musica popolare, i Jefferson Airplane e i Grateful Dead, Jerry Garcia e Grace Slick, e tutti gli amici e gli amici degli amici che facevano base a Frisco per proporre la loro arte nuova.
Ecco, San Francisco. Emozione. Ma ribaltando Graziani, tutto questo cosa c'entra con il ciclismo? C'entra. Ve l'immaginate se questo sport fosse abitato da persone sane di mente, ve l'immaginate che spot meraviglioso sarebbe quel gruppo che scorrazza sul Golden Gate Bridge, insomma, il grande ciclismo a San Francisco, ve l'immaginate? Se la parola spot suona troppo truce, parliamo di fascinazione, la stessa di un Giro Centenario che nasce a Venezia e si chiude a Roma, insomma, questi sono grandi momenti e andrebbero valorizzati per bene, perché tutto sommato a Verbruggen dobbiamo riconoscere che qualche idea buona ce l'ha avuta, la mondializzazione del ciclismo non è un male in sé, tutt'altro, così come non è un male lo stesso Pro Tour. Il problema non è il soggetto, basato su intuizioni valide; il problema è la messa in scena, fatta da cani.
Questi momenti andrebbero valorizzati per bene, dicevamo, e lo sarebbero, se il ciclismo fosse abitato da persone sane di mente. Tutti i giornali domani avrebbero in prima pagina la foto di Armstrong, Basso e soci sul lungo ponte rosso che domina la Frisco Bay, se il ciclismo non fosse in mano a un branco di teppisti. Forse anche la Rai ci avrebbe fatto uno specialino, su questa corsa. Ma urliamo al vento, le parole si disperdono come polvere centrifugata, e ci accingiamo a un'altra stagione di lacrime e sangue.

Perché poi, lo ammettiamo quasi a mezza bocca, qui a bottega questo Giro della California sta piacendo e anche parecchio. Lo spettacolo che i (tanti) protagonisti presenti offrono è di livello buono, certo non paragonabile alle Dolomiti o ai Pirenei, ma è uno spettacolo che era praticamente impensabile - in febbraio! - fino a pochi anni fa. Il bel ciclismo dei campioni più forti che si espande nell'arco della stagione: come si è riusciti a far carne da macello di un'idea così brillante?
Chissà se Francisco Mancebo se lo chiedeva, nel corso della terza tappa (o meglio, seconda in linea), o se era preso da più terreni e immediati pensieri, tipo come fare per impedire che Levi Leipheimer gli soffiasse la maglia di leader della corsa. Era successo che abbastanza presto era nata una fuga a 10, nei primi 10 km. Ben Jacques-Maynes, uomo del posto, scalpitava insieme a McCartney, Cozza, Clement, Evans (Cameron, non Cadel), Niermann, Kobzarenko, Barredo, Markus Zberg e Thomas Peterson. Se siete tanto distratti da non aver guardato il titolo di questo articolo, prendete nota di questo nome; altrimenti conoscete già il finale e quindi sapete di cosa stiamo parlando.
Il margine dei 10 ondeggiava tra i 3 e i 4 minuti, il gruppo controllato dalla Rock Racing di Mancebo, i fuggitivi tirati in salita da Carlos Barredo, pacemaker su Tunitas Creek. Armstrong, centro di gravità permanente del ciclismo americano e quindi di questa corsa, la gravità l'ha sperimentata davvero, cadendo con un'altra quindicina di uomini al miglio 79 di gara; ciò non gli ha però impedito di continuare a gregarieggiare per Levi, visto che è stato proprio il texano l'uomo che sulla salita di Bonny Doon, a 30 km dalla fine, ha imposto al gruppo dei migliori (sempre all'inseguimento dei fuggitivi) un ritmo buono per preparare il terreno all'attacco di Leipheimer.
Mentre davanti Barredo staccava tutti e tentava di incanalare la sua focosità nella direzione di un risultato, Leipheimer scattava a circa 6 km dalla vetta. Nibali, sull'onda di quanto di buono fatto vedere ieri, ha forse voluto strafare, mettendosi subito alla ruota del capitano temporaneo dell'Astana, e rimbalzando indietro nel giro di un paio di chilometri: e non sarà una bella discesa a permettere al siciliano di anticipare il gruppo dei migliori.
La marcia di Levi invece è proseguita senza intoppi, un progressivo riprendere tutti i 10 attaccanti della mattina, finché, a meno di 3 km dalla vetta, anche Barredo (nel frattempo raggiunto da McCartney e Peterson) è stato agguantato dall'americano. Lo spagnolo, finito il gas, è stato poi risucchiato anche da Nibali (e poi, con lui, dal gruppo), e anche McCartney non ha mostrato di avere un tigre nel motore, mollando la presa da Leiph.
Peterson, invece, magari non ha dimostrato di essere affiatato come una squadra vincente con Levi (ha tirato almeno un paio di metri? Dubbio profondo), ma ha resistito fino in fondo, anche quando l'altro spingeva a più non posso per mettere quanto più spazio possibile tra sé e l'unico uomo che lo precedeva in classifica al mattino, ovvero proprio Mancebo.
L'esito è quello visto mille volte in questo sport: raccolte tutte le energie possibili, l'arrotino della situazione ha punito la locomotiva a vapore; che peraltro era già appagata dalla certezza di aver preso la maglia (quasi 2' guadagnati a fronte del 1'02" di ritardo da colmare), al punto da esultare lo stesso sotto lo striscione. E sia chiaro che Peterson ha fatto quello che doveva fare; è giovane, a Natale ha compiuto 22 anni, è professionista dal 2007 ma in realtà non ha corso tantissimo fin qui, e ha raccolto i migliori risultati al Giro della California 2008 (sesto in una tappa e undicesimo in classifica). Di sicuro avrà modo di confermare le cose fatte intravedere oggi (soprattutto la tenacia per non mollare su verso Bonny Doon, e la grande capacità di gestirsi nel finale).
Gli altri, a cui pure siamo parecchio interessati (al di là del fatto di avere in gara un certo Ivan Basso). Il varesino (e con lui Nibali) ha chiuso la tappa coi migliori, in quella top 20 arrivata a 21" dalla coppia di testa; Mancebo, provato dalla grande fatica di ieri, ha perso terreno in salita (1'52" da Leipheimer, per la precisione), ma nulla in confronto ai 16'20" di un Andy Schleck o ai 17'10" di un Kirchen o soprattutto di un Sastre. Spulciando tra i distacchi, preso atto della buona tenuta dei vari Schleck I, Gesink, Lövkvist, Brajkovic, Seeldraeyers, oltre che ovviamente di Armstrong, tutti con Basso a Santa Cruz (la sede dell'arrivo, non l'avevamo ancora citata), la segnalazione del giorno va a Oscarito Freire, nel gruppo di Mancebo (come anche Hincapie, Popovych, Landis e O'Grady), mentre certi suoi colleghi come Boonen o Cavendish veleggiavano tranquilli a oltre un quarto d'ora. Quant'è che manca alla Sanremo?

Marco Grassi

 

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