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E io ti sento, amico fragile - Marco, Enzo, noi, un altroquando | Cicloweb

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E io ti sento, amico fragile - Marco, Enzo, noi, un altroquando

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Cinque anni dopo... Cinque anni che sono stati, comunque, pieni e vuoti di Marco per tutti noi.
Cinque anni dopo, quando Marco Grassi mi ha chiesto di scrivere qualcosa per ricordarlo in occasione dell'anniversario della morte, ho pensato che la cosa più giusta fosse parlare di Marco con lei, Enzo Vicennati, giornalista, caporedattore centrale di Bicisport, scrittore, autore, con Tonina Pantani, del più bel libro scritto sul Pirata in questi anni ("Era mio figlio" Ed. Mondadori).
Parlare di Marco non come se ne è parlato in questi anni, dalla ricerca di verità all'esaltazione del campione, descritto sempre nella sua eccezionalità, nel suo talento geniale, nel suo carisma esaltante, nella sua forza interiore che gli consentiva di risorgere da mille infortuni e nella sua fragilità più intima che lo portava lungo le "discese ardite" della depressione. Esaltazione dell'eccezionalità che non ha sempre giovato a Marco.
Vorrei parlare con lei del suo rapporto con Marco Pantani, vederlo anche nella sua normalità di uomo, la normalità che dialetticamente agiva con la sua eccezionalità.
Sappiamo, dai suoi libri e articoli, che ha conosciuto Marco al Giro dei dilettanti del 1992, quasi coetanei, fu un incontro e un'intervista come tanti altri o qualcosa le fece intuire che quel ragazzo avrebbe avuto un posto importante nella sua vita e nel suo lavoro?

«Avevo 23 anni, ero molto entusiasta di ogni cosa che facevo e mi sembrava tutto nuovo e immenso. Era il mio primo Giro d'Italia dei dilettanti, scrivevo finalmente su Bicisport e quei ragazzi per me erano tutti dei campioni. C'era Gontchenkov che a cronometro faceva paura, c'erano i corridori di Locatelli che sembravano fortissimi e c'era quel ragazzino di cui avevo letto su Bicisport dell'anno prima, sfortunato ai limiti del comico, ma che in salita poteva spaccare il mondo. Così gli giravo attorno per capirlo e conoscerlo. Andai a presentarmi a Marina di Pietrasanta, prima del via della crono. Ci stringemmo la mano, un sorriso, in bocca al lupo. Di lì ogni giorno un contatto. Qualche parola alle partenze, ma previsioni zero perché non si sbilanciava mai. Qualche osservazione agli arrivi, sulla tappa, ma il giorno della prima intervista vera, a un tavolo con carta e penna, fu la sera di Alleghe.
Alla vigilia della partenza da Cavalese ero stato nella camera di Wladimir Belli, che era leader della corsa. La divideva con Beppe Guerini e mi era parso solido come una roccia. Invece, il giorno dopo, il ragazzino dell'Emilia Romagna, quello ricciolino e con la cicatrice sul labbro, fece un'impresa alla Coppi e la roccia si sbriciolò. Solo già sul Sella, poi il Gardena, il Campolongo e quella stradina ripida fino a Pian di Pezzè.
Roba da libri di storia, pensai, questa la voglio raccontare perché io una cosa così non l'ho mai vista.
Ci sedemmo a un tavolo di legno nell'androne del piccolo albergo. Avevo un quadernone a quadretti e pure il registratore. Gli chiesi di tutto. Partimmo dalla tappa e finimmo sulle vacanze invernali sulla neve, passando per quella cicatrice, la salita, gli allenamenti, Bicisport che leggeva da quando era piccino, la famiglia e tutto il suo mondo. Rimasi lì per oltre un'ora, senza che Marco avesse mai guardato l'orologio.
A pensarci ora, sorrido per l'ingenuità che avevo nell'approccio con i corridori. Ma più di tutto mi stupirono la calma e la naturalezza con cui mi raccontò la sua giornata. Aveva gli occhi che ridevano, ma nelle parole non c'era l'esaltazione di Tardelli dopo il gol ai mondiali del 1982, non c'era stupore. C'era semplicemente la spiegazione di ciò che sapeva fare, che aveva fatto quel giorno e che avrebbe fatto altre volte in futuro».
Che cosa distingueva, per Marco, il rapporto con i giornalisti da quello con il giornalista amico? Su quale affinità si giocava la fiducia che Pantani aveva in lei?
«Il fatto di essere coetanei giocò sicuramente a mio favore: anche se lo dicevamo a mo' di battuta, volevamo entrambi combinare qualcosa di buono, ciascuno nel suo ambito. Io avevo intuito che stargli accanto professionalmente, specializzarmi in Pantani, un giorno mi sarebbe stato di grande aiuto. Il mondo del giornalismo, come quello del professionismo, almeno in quel periodo era piuttosto chiuso nei confronti dei più giovani e in qualche modo... costringere gli anziani a chiederti cose su un corridore che non conoscevano fu il modo per entrare. Anche se mi guardavo bene dal dire tutto, perché nel contempo mi rendevo conto dello spessore di Marco, della fiducia speciale che mi dava e non volevo in nessun modo tradirla.
Più in generale, seguire i corridori quando sono ragazzi, facendogli però capire che riconosci loro una dignità superiore è già in sé un vantaggio enorme. Sarà l'ingenuità di cui ho parlato, ho sempre sentito sulla pelle il valore della loro fatica, mi accorgo che, nonostante tutto, nei loro confronti nutro un rispetto esagerato. Marco apprezzò il fatto che quella prima sera io lo abbia trattato da atleta maturo e che poi sul giornale abbia riportato i concetti per come li aveva espressi.
Credo che in seguito, quando era già Pantani, sia stato decisivo anche non averlo lasciato da solo nel momento della difficoltà, l'esserci stati, sia che fosse per un articolo, sia più semplicemente per un caffè. Penso alla gamba spezzata, alla paura di non tornare, alla rieducazione, alle chiacchiere in casa sul recupero e al giorno in cui andammo in ospedale per togliere il ferro. La prima uscita in bici... Marco era una persona molto sensibile, certe cose non gli sfuggivano. Non so se sia stata amicizia, ma di certo se gli atleti percepiscono fortissimo il senso di solitudine che viene quando hanno un incidente e i giornalisti se ne vanno col resto della corsa, Marco la percepiva raddoppiata.
Il vantaggio dell'essergli stato così vicino si tradusse ad esempio nella libidine sottile di poterlo avvicinare in situazioni limite, quando altri aspettavano sotto. Fra le tante, ricordo un'ora intera di massaggi ad Aprica nel '94, ascoltando il racconto della prima impresa fra i pro'. Le girate sulle bici arrugginite dell'hotel di Duitama. Ricordo le porte di casa sempre aperte. La giornata sulla neve di Cortina con le stampelle, la polenta e il vino rosso. La possibilità di un accesso diretto, sia pure solo telefonico, anche dopo il giorno di Campiglio. Ricordo le foto in camera dopo lo Zoncolan. È stato così dal 1992 al 2000, poi è subentrata la Ronchi e le porte di sono chiuse».
In un suo articolo scritto dopo la morte di Pantani, lei racconta di una corsa in salita, in macchina, una specie di gara fra voi, alla fine della quale Marco disse: "Per essere un giornalista, non guidi male". Uno scherzo, un gioco, una battuta, ma anche, secondo me, un modo per affermare una sottile diffidenza, come se per lui le cose non fossero mai meno che complicate, suggerire una sottile diffidenza ("Considerato che sei un giornalista") in un rapporto di fiducia. Da cosa si difendeva Marco, nel rapporto con gli altri?
«Era l'inverno fra il 1994 e il 1995, dicembre mi pare. Marco aveva accettato di venire a provare la salita di San Pellegrino in Alpe, che il Giro avrebbe affrontato quell'anno: lui non l'avrebbe corso per l'incidente del primo maggio, ma ancora non lo sapeva. Si presentò all'appuntamento assieme a Siboni su una Mitsubishi rossa che sembrava un aereo da caccia e allora, tanto per provocarlo, si giocò a fare i piloti nella discesa dell'Appennino verso Firenze. Ci superò solo alla fine e di qui nacque quella battuta.
La voglia o la necessità di difendersi saltò fuori proprio quell'inverno, in precedenza non l'avevo mai vista. Ero stato a casa sua il mese prima e lo avevo trovato molto amareggiato. Qualcuno aveva scritto che dopo il Tour non si era allenato e che per questo aveva fallito i mondiali di Agrigento. Marco aveva ammesso qualche errore dovuto ai 24 anni, ma i toni di quelle contestazioni gli erano parsi eccessivi: aveva pur sempre conquistato il podio al Giro e poi al Tour, un calo di tensione poteva anche starci, no?
Ricordo che in quell'intervista di fine stagione disse: "D'ora in poi sarà meglio non parlare più, così nessuno potrà scrivere più niente. A volte è meglio passare per uno che non ha niente da dire, anche se non credo che così facendo mi comporterei da persona civile. Ma sarò meno ingenuo, potete giurarci. Finora ero sempre in buona fede e pensavo che così fosse anche per gli altri. Ma non è così e allora dovrò attrezzarmi. Sono stanco. Sto male dentro. Un inverno di questo tipo è molto, troppo pesante"».
Ci racconti di un giorno, non necessariamente legato a una competizione ciclistica, in cui Marco la fece ridere, un altro, in cui, invece, le capitò di arrabbiarsi con lui e, infine, un giorno in cui Marco si mostrò davvero amico.
«Si rideva spesso, a dire il vero. La volta che al Tour gli consegnarono un cavallino pirenaico e non sapeva dove metterlo perché aveva capito che avrebbe dovuto portarlo a casa da sé. Oppure un pomeriggio d'inverno a Cesenatico, al chiosco delle piadine per un'intervista. Le strade erano piene di foglie morte e Marco arrivò assieme a Siboni sui rollerblades e, dopo aver salutato, chiese di non fare foto né menzionare i pattini, altrimenti Boifava avrebbe sbranato Siboni. Marcello infatti aveva il polso ingessato e la versione ufficiale era che si fosse rotto lo scafoide cadendo dalla bici, mentre la causa vera era proprio una caduta dai pattini, mentre cercava di tenere dietro all'amico ben più coordinato e veloce di lui...
Con Marco direttamente ho avuto al massimo un diverbio, una mezza discussione dopo la tappa di Borgomanero al Giro del 1999, ma durò due secondi. Indirettamente invece mi arrabbiai molto con lui in due occasioni: quando accettò di non andare al Tour nel 1999 e poi quando morì.
Il giorno in cui Marco si dimostrò amico? Ci fu un gesto nel giugno del 1998, un pensiero. Quell'anno morì Pezzi e lui vinse Giro e Tour. In realtà il 25 maggio, un paio di giorni dopo la vittoria di Marco a Piancavallo, morì anche mio padre, a 57 anni. Non c'ero quando Marco chiuse il Giro a Lugano, ma ricordo che lo chiamai il lunedì dopo il ritorno e gli feci i complimenti. Lui ringraziò, poi rimase zitto per un paio di secondi e aggiunse: "Spero che in parte sia servito a farti pensare anche ad altro...". Non so chi gli avesse detto di mio padre, non io, ma il fatto che ci avesse pensato mi fece molto piacere».
Nel dvd n. 6 ("La speranza della rinascita") della serie che lei e Pier Bergonzi avete dedicato a Marco, c'è un lungo racconto di Zaina sul suo rapporto con Marco, capitano ferito della squadra al Giro d'Italia 2000, a Zaina viene chiesto di sacrificare le sue ambizioni e restare con Pantani che si staccava. È intensissimo il racconto di questo rapporto complesso fra l'offesa di Pantani, capitano che non vinceva più, e l'offesa di Zaina innaturalmente sacrificato a un capitano in crisi. Ma alla fine del Giro, Marco sceglie di fare il gregario a Garzelli, sacrifica la sua vittoria di tappa e consegna al compagno la corsa, perché sente che quella ferita di Zaina va, in qualche modo, riconosciuta ed esige il sacrificio del capitano perché sia posto un riparo, sia pure indiretto.
Come era il rapporto di Marco con i suoi gregari? E quanto contava per lui il ruolo di capitano della squadra?

«Voleva bene ai suoi gregari e loro lo adoravano. Ricordo le lacrime di Velo in un hotel vicino a Cavalese nel 2001 quando disse che se ne sarebbe andato, lasciando il suo capitano in uno dei momenti di peggiore difficoltà.
Nella scelta di Pantani di restare alla Mercatone Uno, anche quando era evidente che la Ronchi stesse allestendo squadre sempre più scadenti, ci fu la voglia di non abbandonare il suo gruppo. Forse se ne sentiva anche protetto, senza che nessuno si rendesse conto, da un certo punto in poi, che quella protezione fu un altro passo verso la fine.
Dai compagni pretendeva correttezza e dedizione assoluta. Qualche esempio? Nel 1994 Pulnikov si ritrovò in fuga con lui nella tappa di Les Deux Alpes al Giro (quella con il Colle dell'Agnello in cui Marco attaccò da lontano per... ribaltare Berzin) ma non lo aiutò. Disse di essere stanco, poi però vinse la tappa. Marco al momento non disse nulla, difficile capire se con il sacrificio del russo sarebbe riuscito a vincere il Giro, ma nel dubbio a fine anno Pulnikov cambiò squadra.
Divertenti ed emblematiche anche le cronometro, al Giro e anche al Tour. La sera della prova, a tavola, Marco sfogliava l'ordine di arrivo e andava sempre a cercare il nome di Velo, che era stato campione italiano della crono. Se per caso Velo aveva fatto una bella prova, poteva essere certo di subire quantomeno una battuta feroce sul fatto che avesse sprecato troppe energie e il giorno dopo non ne avrebbe avute per tirare...
Quanto alla parola "capitano" fu la chiave che gli fece accettare la proposta di Pezzi per il 1997. Rileggendo vecchie interviste (ho dovuto documentarmi per rispondere a queste domande!) ho trovato una frase che risale all'inverno del 1996: "La parola gregario - diceva alla nascita della Mercatone Uno - è antica, ma ci sono pur sempre dei ruoli. Chi se ne intende, ne riconosce i pregi. È determinante che sia così. Può capitare di strillare, in corsa si è più irascibili, basta poco per scaldarsi. Però bisogna gridare solo quando è necessario: i compagni devono capire l'importanza del loro ruolo e la tensione di chi lotta per vincere".
Dopo aver aiutato Garzelli, disse parole chiarissime: "Era un po' che non portavo borracce, ma questa volta mi ha fatto piacere. Stefano era in imbarazzo perché vedeva che ero al suo servizio, stava a me fargli capire che ero lì per lui. Davanti comunque mi sentivo a mio agio. Quello è il mio ambiente...".
Marco ricordava il fastidio che provò al Giro del 1994, quando era in condizione eccezionale e ugualmente nella prima parte fu costretto a tirare per Chiappucci. Si rese conto che a Garzelli e Zaina era toccata la stessa cosa e verso Briançon trovò il modo più spettacolare e commovente per sdebitarsi.
Se guardo nell'archivio dei miei articoli, i files di quelli che lo riguardano si chiamano più o meno tutti allo stesso modo: "panta" oppure "marco". Il pezzo della sera di Briançon lo chiamai "the superday" perché quel giorno fu per tutti, per me in testa, qualcosa di eccezionale».
Questo suo modo di concepire il rapporto con la squadra è anche la realizzazione del suo modo di vivere il ciclismo? Solo nel momento della vittoria in salita ma sempre profondamente legato ai rapporti con l'ambiente ciclistico e all'immagine che quei rapporti gli rimandavano di lui?
«Ecco cosa mi disse nel 1996 dopo aver tolto il ferro dalla gamba: "Il lavoro in palestra mi aveva un po' stufato, era diventato un'ossessione e in questi periodi per andare avanti si ha bisogno soltanto di tranquillità. Non so perché, ma dopo un po' scappo da tutto quello che è troppo rigido. Il frequenzimetro, la palestra... tutto ciò che ingabbia il mio modo di essere. Io devo sempre trovare qualcuno da staccare, in corsa o in allenamento. Mica posso aspettare che una macchina mi dica quello che debbo fare. Ma figurati un po'... Vabbè che alcuni corridori sono costretti a dire certe cose perché ci sono sponsor e preparatori da accontentare, ma quando sento che uno non è andato bene nella crono perché aveva il frequenzimetro rotto o che un altro ha superato la Marmolada grazie a quello che leggeva sul display, se permetti mi dissocio. Ma tu hai mai visto Indurain guardare il frequenzimetro quando mena? Neppure lo porta a volte".
Ricordo che al Tour del 1995, dopo la vittoria a Guzet Neige, mentre camminavamo vero il podio (c'era un freddo cane e anche la nebbia) Pier Bergonzi gli chiese se non si sentisse un eroe del passato a vincere in quel modo, attaccando da lontano. Lui lo guardò e rispose: "Bada bene, non sono un eroe del passato, forse sono semplicemente troppo moderno".
Marco era questo, questo era il suo ciclismo, anche se la facilità nel fare le cose, questo irridere abitudini e preparatori che andavano per la maggiore lo ha reso inviso a tanti suoi colleghi. Aveva capito che il ciclismo delle tabelle e dei corridori incapaci di liberarsene era destinato a portare più guai che vantaggi e che l'unico modo per uscirne era tornare a modi di correre più tradizionali.
Ma volete mettere che differenza tra fare un pezzo con uno come Marco o con un Rominger, primo nome che mi è passato in testa, che parlava spesso e volentieri come un robot?».
Pantani era una persona con un forte senso dell'agonismo, una ragione di vita per lui, soprattutto negli ultimi anni in cui maggiormente, da questo punto di vista, era frustrato. Il suo deuteragonista è Lance Armstrong. Su questo rapporto molto è stato scritto e detto, lei, in un'intervista di qualche tempo fa, raccontò dell'affinità fra Marco e la sua versione texana, l'unico avversario considerato all'altezza, l'unico che potesse rappresentare un motivo per dire: "Voglio vivere. Per batterlo".
Adesso Armstrong torna al ciclismo e lei ha seguito, per il suo giornale, le fasi di questo ritorno. Seguendo Armstrong, le è capitato di pensare a Marco?

«Ogni santo giorno, da quando Armstrong ha annunciato il ritorno, al punto che quando anche Bartoli ha sussurrato di voler tornare ho pensato che ci sarebbe stato bene anche un ritorno del Panta.
Il Tour del 2000 è stato l'unico assaggio di una rivalità che sembrava già scritta. Io non c'ero per vedere Coppi e Bartali, ho memoria sfocata di Saronni-Moser e ricordi ben più nitidi di Bugno-Chiappucci. Ma i carismi di Marco e Lance avrebbero prodotto qualcosa di inimmaginabile, mediaticamente e agonisticamente. Il ciclismo davvero avrebbe dominato di qua e di là dall'Atlantico. La forza di Marco e la forza di Lance, due così uguali da sembrare mondi diversi. I tifosi di Marco col Sangiovese e la bandiera del Pirata e quelli di Lance con gli hot dog e le stelle e le strisce.
Il nostro fotografo, Ilario Biondi, dice sempre che un solo corridore al momento dà un senso anche allo scatto più banale ed è Armstrong. Poi aggiunge che l'altro era Pantani. Questo per dire che due campioni capaci di simili sguardi sono in possesso di un orgoglio smisurato che li avrebbe portati a cercare il confronto anche nel momento apparentemente più innocuo.
Non si sopportavano. Lance ammirava Marco, che vinceva quando lui combatteva il cancro, ma rimase male quando il Panta disse che al Tour del 1999 non aveva avuto avversari all'altezza. Marco stimava Lance, ma proprio non riusciva a digerire quel suo sentirsi superiore, l'arroganza texana che per tanti versi profumava di Romagna.
Ciascuno era convinto di essere il migliore. La famosa teoria di Marco, secondo cui doveva andare forte in salita per abbreviare la sofferenza, nel confronto con Armstrong avrebbe avuto una vera sublimazione. Ogni salita sarebbe stata come contro Tonkov al Giro '98, con la differenza - questo Marco lo sapeva bene - che l'americano sarebbe stato duro da battere. Molto più di Ullrich, molto più di tutti.
Marco amava il confronto ad alto livello, sfidava a braccio di ferro quelli più grossi e non smetteva finché non riusciva a batterli. Se ne fregava di stare con Virenque, lui cercava Indurain e Ullrich. Ricordo una sera dell'inverno '92, nella trattoria da Franciosi a Poggio Berni. Non era ancora passato e già parlava di staccare Indurain...
Immaginate un'Alpe d'Huez testa a testa fra quei due, Marco Pantani e Lance Armstrong?
Bisognava fare di tutto per mandare Marco in una squadra degna del Tour. Gli bastava sentire quel nome, per sollevare le orecchie... Non ho ancora avuto occasione di chiedere a Lance un suo ricordo vero sul Pirata, ma lo farò quanto prima».
Se oggi Marco fosse vivo avrebbe 39 anni, si sarebbe già ritirato dal ciclismo, forse da tempo, visto che ha sempre detto che non voleva invecchiare in bici. Vedendo Armstrong tornare, che avrebbe pensato?
«"Se ricomincia lui, torno anch'io". Poi avrebbe guardato i suoi bambini e lentamente avrebbe rinunciato e si sarebbe rimesso a fare il team manager della sua squadra tutta gialla. Credo che dopo un periodo di comprensibile... svago, il Marco quarantenne avrebbe avuto una vita normale. E credo anche che la storia del ciclismo successiva a Campiglio sarebbe stata molto diversa. Marco avrebbe vinto il Tour del 1999 e anche quello del 2000. Armstrong ne avrebbe vinti di certo, ma non sette, per cui alla fine la voglia di rivalsa di Marco nei suoi confronti sarebbe stata meno violenta di quanto sia stata in quei pochi mesi. Non sarebbe tornato, ma di certo avrebbe rilasciato almeno un'intervista spiegando ai rivali come staccarlo in salita e capire i sui momenti di difficoltà, avrebbe poi ironizzato sull'età di Lance, aggiungendo tuttavia che se avesse vinto sarebbe stato solo per la sua assenza... Non nascondo che mi sarei candidato per farla, quell'intervista».
Quale ciclista di oggi pensa che sarebbe piaciuto a Marco? E questo ciclismo di oggi , lo avrebbe sentito ancora come un mondo "suo"?
«Gli andava a genio Di Luca e gli piaceva il coraggio di "Chaba" Jimenez. Forse gli sarebbe piaciuto Riccò. Credo che lo avrebbe persino preso in squadra con sé e ora sarebbe con lui a preparare l'attacco ad Armstrong. Invece Campiglio ha segnato una svolta non solo nella sua vita, ma nella storia stessa del ciclismo. Ha fatto capire a un certo mondo che il ciclismo non si sarebbe mai difeso dalle offese più gravi: Campiglio ha aperto le porte al massacro del ciclismo.
Non credo che Marco si troverebbe a suo agio nel gruppo di adesso, in realtà mi chiedo quali corridori ci si trovino davvero.
Scherzando, la sera dello Zoncolan del 2003, gli dissi che il suo ciclismo romantico era finito quell'anno. Come poteva esistere il mito del Panta, se gli vietavano persino di buttare via la bandana in salita, costringendolo ad usare il casco? Disse che era vero, ma era un Marco rassegnato, ferito, ancorché finalmente di ottimo umore».
Non voglio parlare di doping ma una domanda gliela devo fare. Marco legge il numero di agosto 2008 di Bicisport la cui copertina dice: Tolleranza zero. Allora inizia a scrivere: "Caro Enzo...". Come continuerebbe?
«"Caro Enzo, su qualcosa potreste anche avere ragione, ma non potete sperare di cavarvela così facilmente. A me sta anche bene la tolleranza zero, purché però mi assicuriate che allo stesso modo siano trattati i dottori e i manager. I corridori...
Noi abbiamo sempre pagato. Io ho dato la vita per un ematocrito alto dopo un controllo a dir poco discutibile. Chiappucci lo mandò a casa dai mondiali il presidente Ceruti, lo stesso che a Campiglio sembrava contento come una Pasqua.
Sai dirmi il nome di un corridore che non abbia pagato le sue colpe e verso cui sia stata usata una tolleranza superiore allo zero? Forse Basso, in un primo momento, poi anche lui s'è fatto due anni. E allora?
Tu che dopo tanti anni i corridori ormai dovresti conoscerli bene, sai anche quali sono i meccanismi per cui a volte si fanno certe fesserie. Ci sono gli stupidi, va bene, ma quelli ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Però ci sono quelli che non pigliano lo stipendio da mesi, cui il team manager dice che se non si mettono a posto continuerà a non pagarli. E che cosa significa mettersi a posto?
Perché se la sono presa tutti con Riccò e nessuno è andato a fare domande a quelli che una settimana prima del Tour erano andati su tutti i giornali, vantandosi di avercelo mandato loro in Francia? Per carità, Riccardino ha sbagliato, ma io ricordo bene l'esuberanza dei 25 anni e so quanto sia importante avere attorno le persone giuste. Riccò al Tour non doveva andarci, perché allora mettergli in testa che poteva andare e spaccare tutto? A me, probabilmente, in ambito ciclistico da ragazzo mi ha salvato la vicinanza di Roncucci, di Martinelli e di Boifava. Ma Riccò chi aveva vicino? E se è vero che la squadra sapeva o sospettava certe cose da tempo, mi dici perché non lo hanno fermato prima?
Lo vedi allora perché la tolleranza zero non è a 360 gradi? Possono anche punire noi poveracci, perché alla fine siamo dei poveracci con la Ferrari ma senza dignità, ma se non cercano gli strumenti giuridici per mandare via quei bastardi che infestano il nostro mondo, le cose non cambieranno mai. Lo sai o no che certi dottori ormai non si sporcano più le mani e al massimo ti mandano da un collega all'estero?
Il mio slogan era: regole uguali per tutti. Beh, senza volervi fare la morale, credo che non sia così. Credo che continuare a punire noi atleti non serva a risolvere il problema. La ricerca della verità e della giustizia non si fa così. Ma ti capisco, non è facile venirne fuori...».
Cosa le manca di più di Marco oggi? E cosa rimpiange di non aver fatto per lui?
«Mi manca il campione che non ha paura. Uno che di fronte al percorso del Giro 2009, ad esempio, già adesso cominci a dire: "Rifilo a tutti due minuti sulle Dolomiti, parto a metà Croce d'Aune e a San Martino faccio il resto. Poi ne becco tre nella crono e gliene mollo altri due sulle montagne che restano".
Mi manca l'adrenalina della tappa di montagna. L'imprevedibilità. Mi manca l'ingenuità di quei primi anni. Mi manca il ciclismo fatto di uomini disposti a prendere una posizione: i corridori dovrebbero essere i padroni del ciclismo, invece fanno da sfondo per manovre avvilenti. Bettini lo aveva capito, ma alla fine anche lui si è arreso.
Cosa rimpiango di non aver fatto per lui? Rimpiango di essermi fatto bastare quello che mi dicevano. Rimpiango la fede, comune a tanti, che si sarebbe rialzato da sé. Rimpiango di non essere andato a casa sua dopo il Giro del 2003, quando il silenzio iniziava a trasformarsi in angoscia. Rimpiango di non averlo preso a pugni per quella vita che stava buttando via. Rimpiango l'incapacità di trovare il bandolo della matassa che collega Campiglio e Rimini. Ma l'ho scritto e lo ripeto: ci sono persone che hanno quello scempio sulla coscienza e un giorno per questo pagheranno il conto».
Come viveva Marco il successo e la popolarità di Pantani? In cosa trovava riparo, fino a che ha potuto trovarlo?
«Marco era un curioso e la popolarità lo attraeva, pur se ne avvertiva i pericoli. Cercava di prenderne il bello, come la possibilità di cantare in televisione, essere alle trasmissioni, fare quello che da ragazzo non era mai riuscito a fare. Al contempo, aveva pudore nel mostrare i suoi guadagni, l'auto nuova, la casa nuova, per paura che la gente pensasse male, che si fosse montato la testa. Però la popolarità non gli ha mai impedito di essere Marco, con gli amici, a casa. Poi però si è giunti al punto in cui le pressioni su di lui sono diventate eccessive e allora la popolarità ha iniziato a divorarlo. Dopo Campiglio, l'attenzione è diventata un fardello insopportabile. Un conto è essere salutato per un'impresa, un conto è essere additato per qualcosa di cui a detta della gente devi vergognarti. La popolarità a un certo punto è diventata pesante come il pregiudizio e contro questo non c'è stato più rimedio. Neanche in famiglia, il luogo in cui da sempre ha trovato riparo da tutto, Marco riusciva più a sentirsi sereno. Credo abbia ragione sua sorella Manola: Marco aveva un esaurimento che nessuno è stato capace di riconoscere. Smise di avere sintonia con il suo corpo e di credere agli amici di un tempo. Dicono che isolarlo fosse l'unico modo di non far sapere che faceva già uso di cocaina: i fatti dicono che a quel modo hanno iniziato a scavargli la fossa».
Ho sempre pensato che una persona muore davvero quando non interloquisce più con la realtà, con la coscienza dell'epoca: compito di chi vuole ricordarlo è continuare a cercare questo dialogo. In che modo è possibile, secondo lei, rallentare l'opera di monumentalizzazione di Marco e continuare, invece, a fargli "fare mondo", come dicono i filosofi?
«Tenendo sempre aperta la porta sulla sua storia tragica, senza mai smettere di fare domande, affinché la verità possa prima o poi venir fuori. Portando la sua storia e il suo correre ad esempio dei più giovani, affinché capiscano che la differenza fra un campione e gli altri il più delle volte sta nel coraggio. Sforzandosi di capire e di ripetere che le sue parole di dieci anni fa su doping, antidoping e regole disuguali sono ancora tremendamente attuali. Perché dovrei dubitare della possibilità di un complotto, vedendo ad esempio il cinismo e la precisione scientifica con cui è stata gestita e... dosata l'Operación Puerto?».
Tra tante parole che oggi, anniversario della morte, si diranno su di lui, quale apprezzerebbe di più Marco? A parte il silenzio che, come anche lui sapeva, non è possibile.
«"È stato un uomo, un uomo onesto".
È stato molto più uomo lui di tanti altri che hanno fatto festa davanti alla sua fine. Marco è stato un uomo, un uomo onesto, perché ha avuto il coraggio di ripetere fino alla morte che lo avevano fregato. Il corridore positivo dopo un po' crolla e, se anche non confessa, se ne fa una ragione. Marco è morto gridando e scrivendo che lui a Campiglio era nelle regole. Purtroppo non ha potuto dimostrarlo e questo è stato alla base del suo crollo, dell'insicurezza, della paura che potesse succedere ancora. Anche io credo che l'abbiano fregato e che ci sia voluto più fegato a ripeterlo sino alla fine, di quanto ne sarebbe servito per ripartire facendo finta di niente.
Ma è bene ricordare che Marco aveva dei valori. Ho conosciuto la sua famiglia molto da vicino negli ultimi due anni. Sono gente semplice, i Pantani di Cesenatico, attaccati a valori semplici. Sapete quante volte mi hanno chiesto se Tonina non si sia montata la testa, con quegli occhiali da sole e i capelli vaporosi? E io a rispondere che quella è apparenza e che dentro ha un inferno di dolore e domande.
A volte possono sembrare sopra le righe, ma quello fa parte del carattere romagnolo che a volte, per difendere un'idea, porta ad atteggiamenti che sembrano altezzosi. Anche di Marco scrissero che fosse arrogante, ma chi lo conosceva sa bene che quello era il suo modo sanguigno di sottolineare una convinzione. Marco aveva dei valori. Marco ha rispettato le regole scritte del suo mondo. Marco quel giorno era sotto a quel maledetto 50 per cento, di questo sono certo».
L'ultimo capitolo del suo libro, lo squarcio di romanzo che si apre nel racconto di una vita, ha lasciato in molti lettori la voglia di un seguito. La voglia di sentire quello che ha da dire o da fare o da sognare o da ricordare, il vecchio Marco. La voglia che dopo le parole di tanti, finalmente, parli il Panta. E che a dargli voce sia lei, visto che con lui ha avuto un rapporto privilegiato. Pensa sia proprio impossibile leggere da qualche parte "Il romanzo del vecchio Marco"?.
«Quel racconto in realtà esiste. Era nato pochi mesi dopo la morte di Marco, ne scrissi la traccia e poi cominciai a comporre un puzzle di episodi e fatti di fantasia che ricostruivano la storia di Pantani da un punto di vista che fosse un po' vero e un po' di fantasia. Poi si fece avanti Tonina e mi propose di fare il libro con lei e io riposi quel progetto in qualche angolo del computer.
Trovo difficile digerire che Marco sia morto, anche se ormai ricordare il suono della sua voce diventa ogni giorno più difficile. Avevo bisogno di immaginarlo da qualche parte a fare finalmente ciò che amava. Quel bambino sull'isola è chiunque lo abbia amato e di colpo l'abbia perduto. Forse è il giovane Vicennati al debutto in quel Giro d'Italia di vent'anni fa, che si è lasciato alle spalle anni e anni di corse e finalmente riconosce la sua prima ispirazione. Vai a saperlo cosa ti scatta in testa quando ti viene un'idea e cominci a scrivere...
Quella storia è sempre lì, in un file che si chiama "ninetto", come avrebbe dovuto chiamarsi il bambino che sull'isola incontrò il vecchio pescatore e poi, tornatoci l'anno dopo non lo trovò più e iniziò a scavare e cercare per capire davvero chi fosse e cosa gli fosse successo...
Nel libro lo chiamai Marco dopo aver parlato con Wladimir Belli: mi diede l'idea il fatto che avesse chiamato suo figlio Marco.
Non so se leggeremo mai quel racconto, so che alcuni hanno apprezzato il finale così insolito, mentre altri speravano di scoprire nel libro il nome del colpevole e sono rimasti male».
Il vecchio Marco che non è morto e pesca sull'isola, un giorno, preso dall'ansia di non avere più tanto tempo, se ne va dall'isola. Dove andrebbe secondo lei?
«Non tornerebbe al vecchio mondo, non nella mia idea. Sparirebbe, ma questa volta sul serio. Perché dovrebbe andarsene dall'isola su cui ha tutto quello di cui ha bisogno? Forse per la paura di essere riconosciuto, per la paura che arrivino nuovamente con gli obiettivi e i microfoni. Credo che cercherebbe un'altra isola, ma farebbe in modo, tramite un amico, anche questa volta di rassicurare mamma Tonina: "Va' e dille che sto bene". Poi sparirebbe ancora. Dopo tanto patire, il vecchio mondo sarebbe davvero il posto peggiore in cui finire i suoi giorni.
Magari di notte, senza essere visto, passerebbe davanti alla sua casa per sincerarsi che Tonina e Paolo stiano bene, ma non di più. Sento che in qualche modo Marco è ancora vivo, ma non riesco a vederlo fisicamente in nessun posto che non sia quell'isola remota».
E se un giorno il vecchio Marco dovesse incontrare il vecchio Enzo Vicennati, magari di passaggio su quell'isola, cosa gli direbbe?
«Non riesco a immaginarlo. Temo che riconoscendomi da lontano farebbe in modo di non farsi vedere, lasciando appena intuire la sua presenza. Possiamo sentirci tutte le colpe del mondo, ma forse se a un certo punto ha deciso di chiudere tutto il mondo fuori e di correre ancora una volta da solo è perché ha sentito che nessuno avrebbe potuto aiutarlo a trovare quello che cercava. No, non credo che verrebbe a dirmi qualcosa. Spero che avrebbe un sorriso ricordando quei momenti così belli, ma poi sparirebbe ancora, mentre io per qualche misteriosa sensazione, continuerei a sentire che è ancora vivo».

Maria Rita Ferrara

 

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