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Aspettiamo il morto? - In troppi cadono, Petacchi vince

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Scusate la crudezza. Aspettiamo il morto (che sarebbe purtroppo solo "il prossimo" morto), oppure ci sediamo ad un tavolo e iniziamo a parlare seriamente di sicurezza in gara? Il tema più sottovalutato del ciclismo moderno è questo, e, pensate un po', è anche il più importante. Si fa troppo poco per la sanità fisica dei corridori nel corso delle gare, e se è vero che le variabili da tenere in considerazione sono onestamente tantissime, non può non balzare agli occhi la superficialità di certe scelte, che si riverbera poi invariabilmente sulla pelle dei ciclisti.
I quali, ancora e sempre, sono gli unici a pagare le leggerezze dirigenziali. Le associazioni di categoria, anche loro ancora e sempre, dormono. L'Uci, messasi la coscienza in pace con l'introduzione dell'obbligo di portare il casco, continua a condurre le sue lotte altrove, preferibilmente contro i mulini a vento. Gli organizzatori hanno tanti di quei problemi da non poter nemmeno essere più di tanto colpevolizzati se qualcosa sfugge alla loro attenzione. I corridori vanno alla pugna, sereni e pacifici, e poi se qualcuno rimane sul campo si ulula alla sfortuna e al destino bastardo.
Qui non è questione di fare i menagramo, ma semplicemente di far passare il concetto che un minimo di prevenzione eviterebbe tanti danni. Senza andare a prendere in esame le conseguenze più estreme, parliamo anche di "semplici" fratture, quelle che ti fanno saltare una stagione e magari l'ingaggio per quella successiva; ancora di più: parliamo delle normalissime botte, abrasioni, escoriazioni. Ma per quale motivo oggi a Pinerolo Paolo Bettini ha dovuto rialzarsi dall'asfalto per la centesima volta quest'anno? Per quale motivo Yaroslav Popovych ha dovuto rischiare di rimetterci un femore e qualche vertebra, per uno stupidissimo arrivo per velocisti? Per quale motivo Riccardo Riccò si è ritrovato con un paio di bici che gli sferzavano la schiena e il costato, quando domani ha una tappa decisiva per il Giro suo e della sua squadra?
Il motivo è sempre uno: la leggerezza. O chiamiamola superficialità. Agli arrivi di tappa ci sono delle scritte degli sponsor verniciate per terra. Lo sanno anche i bambini di 3 anni che quelle scritte, con un po' d'acqua, diventano come saponette in una vasca da bagno. C'era bisogno di vedere oggi 20 o 30 corridori finire per terra per rendersi conto che si tratta di sponsorizzazioni anacronistiche? Anacronistiche nel senso dell'hardware: non si potrebbe proiettarle per la tv sul terreno, grazie a qualche programma per il computer, come avviene sui campi di calcio, evitando così di esporre il gruppo lanciato al rischio di un domino drammatico?
Altra cosa che proprio non si capisce: le transenne. È possibile che nel 2007 non siamo in grado di avere delle transenne al 100% sicure, senza piedini sporgenti, e possibilmente con le chiusure a prova di deficienti (a Bosa, Manuele Mori si infilò proprio in una transenna aperta da uno spettatore, provocando il solito effetto a catena)? No, non è possibile; tantopiù che transenne più sicure di quelle che si vedono in questo Giro erano già state sperimentate. E allora perché si torna indietro? Per risparmiare 100 euro?
Si torna indietro, questa è la triste realtà: le balle di paglia sui punti pericolosi del percorso sono spesso una beata speranza, e dire che un tempo erano la normalità, e che tutt'ora alcuni organizzatori provvedono la loro sistemazione. Si torna indietro anziché progredire, progredire di un progresso reso di ancor più stringente necessità dalle velocità aumentate (in alcuni casi vertiginosamente). Si torna indietro anziché mettere sul tavolo proposte nuove, all'apparenza anche rivoluzionarie, ma necessarie se non vorremo trovarci a commentare altre disgrazie.
Parallelo non richiesto. La Formula Uno: fino a un certo punto sembrava inevitabile pagare uno scotto in termini di vite umane allo sport della velocità per eccellenza. Diciamo fino alla metà degli anni '70. Poi i piloti si diedero un sindacato, e - Niki Lauda in testa - dissero a muso duro ai loro dirigenti che non era affatto una cosa connaturata alla loro professione un rischio così alto di morire. Risultato: dal 1950 al 1978, 40 piloti erano morti su una vettura di Formula Uno. Dopo il 1978, solo 6 (di cui due in prove private); attualmente (meno male!), non si verificano lutti da 13 anni (Fonte delle statistiche: Wikipedia). Non è solo fortuna: è un percorso intrapreso quasi 30 anni fa, che ha portato la Formula Uno a diventare uno degli sport più sicuri. Le macchine, che prima si incendiavano al primo scontro (coi piloti dentro), ora non prendono più fuoco. Caso? Fortuna? Magia? No: tecnologia.
Un percorso simile è stato battuto anche nel motociclismo, tanto che si sta più sicuri alla guida di una MotoGP, a 300 orari, che non su una bicicletta a 60.
C'è bisogno di idee innovative, che possono pure sembrare bislacche, ma che non lo sono affatto, in prospettiva. Lo scrivemmo già il giorno della morte del povero Isaac Gálvez: è assurdo che i ciclisti abbiano come unica protezione il casco. È assurdo che si investano milioni nel bucherellatissimo antidoping, e poi non si pensi a progettare un abbigliamento che abbia dei rinforzi in alcuni punti nevralgici, che protegga le clavicole, per esempio, o la schiena, o le gambe, o le ginocchia. O la faccia. Ricordiamo tutti Casper alla Gand-Wevelgem. Ricordiamo Velo: proviamo a chiedere a chi ci ha rimesso qualche osso se - tutto sommato - non sarebbe il caso di pensarci in maniera un po' più seria, a queste cose.
E per piacere, basta col dire che è una questione di fatalità, che le cadute ci sono sempre state, che gli incidenti sono inevitabili. Perché se il discorso dev'essere questo, allora buttiamo via pure i caschi e viaggiamo più leggeri. E basta anche col dire che le protezioni darebbero fastidio a chi deve pedalare per 6 ore e più in salita: ci rifiutiamo di credere che, in tempi di telai al carbonio e ruote al titanio, non si possano trovare dei materiali che coniughino un basso impatto fisico con un alto rendimento protettivo; e poi si dà pure il caso che i corridori si possano abituare a nuove protezioni, come hanno già fatto col casco: tempo due anni, e nessuno si è più lamentato, ma qualcuno in più ha salvato la capoccia.

Detto tutto ciò, resta da commentare una tappa in cui è successo poco per 197 km: tutti pianissimo, a parte il francese Buffaz, che - forse non sa nemmeno lui il perché - si è ritrovato in fuga dopo 50 km, ha accumulato 9' di vantaggio sul gruppo sonnacchioso, poi si è impantanato in una crisi su una salitella, si è fermato, ha pianto per 3 minuti, e poi, stimolato dal suo direttore sportivo, si è rimesso a pedalare, ha ritrovato i 9' di vantaggio (al gruppo proprio non andava di marciare, oggi), e li ha ripersi nel finale, quando da dietro hanno deciso che era il momento di preparare la volata.
Paradossalmente i corridori del Giro si sono riposati, nell'unica occasione che le montagne di questi giorni davano loro, ma se si fossero rilassati meno e fossero arrivati a Pinerolo mezz'ora prima, avrebbero evitato la pioggia e la strada bagnata. Un po' più stanchi, ma tutti sani.
Lo sprint è stato organizzato da una Milram partita un po' lunga, e Petacchi ha avuto uno spunto irresistibile che gli ha permesso di rimontare il solito folletto McEwen e di resistere al veemente ritorno di Balducci, poi secondo al colpo di reni. Intanto, alle spalle dei primissimi, iniziava la carambola, con Trussov scivolato su una scritta pubblicitaria, e poi appresso Bettini e altri trenta.
Ora McEwen lascerà, come da copione, il Giro; Petacchi ci sta pensando, e forse si ritirerà anche lui. Sarebbe un peccato, ma gli assenti avranno comunque torto, quando - dopo le montagne - si tornerà a sprintare. Montagne, già, perché da domani si risale: e tutte le domande lasciate in sospeso alla Madonna della Guardia potranno iniziare a trovare qualche risposta.

Marco Grassi    



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