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Zabel torna vincente - E Basso va in procura antidoping

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Signori, questo è quasi un evento: Erik Zabel ha vinto. In una Vuelta in cui le cose vanno al contrario, capita che il nome nuovo dello sprint si imponga nella tappa più lunga (Ventoso ad Almendralejo), quella in cui in teoria dovrebbero emergere gli uomini di fondo, più anziani; e poi succede che il giorno dopo il decano dei velocisti vinca nettamente la frazione più corta.
Notazioni di colore, quasi, perché in realtà in volata può sempre succedere di tutto; l'aleatorietà può però essere limitata se una squadra attua in gara movimenti precisi. E la Milram, che per tutta la stagione ha dimostrato di non avere la geometrica e infallibile potenza delle varie versioni della Fassa Bortolo (di cui è in qualche modo erede), stavolta ha centrato una volata perfetta, e di questo va dato atto ai corridori di Stanga.
Anziché lavorare come muli per chilometri e chilometri (aiutati in ciò anche dal fatto che c'era in fuga un uomo solo, García de Mateo, facilmente controllabile dai soli Crédit Agricole del leader di classifica Hushovd), i Milram si sono concentrati sul finale, e lì, con Petacchi messosi umilmente al servizio del più in forma Zabel (che ha ringraziato pubblicamente AleJet, ma la cui signorilità meritava e merita - senza discussioni - il sacrificio dello spezzino, nell'attesa che Petacchi torni quello che era), abbiamo finalmente visto un treno fatto come si deve: con tutti i vagoni al posto giusto, e un Velo strepitoso nel lanciare Erik il Vecchio.
Sempre se un ragazzino così, 36 anni e non sentirli, si possa definire "vecchio". E anzi la naturalezza e l'animosità con cui Zabel ha fatto suo il traguardo di Cáceres, inducono a una riflessione: da qualche anno in qua il tedesco vincitore di quattro Sanremo è diventato il piazzato più eccellente del ciclismo mondiale. Ormai non si contano più i secondi posti inanellati in serie. Ma se Zabel si piazza tanto è perché corre tanto. Forse troppo: a 36 anni e con quel po po di carriera alle spalle, non sarebbe il caso che Erik centellinasse le sue apparizioni, scegliendole con più cura, selezionando gli impegni e magari - così facendo - scambiando 10 secondi posti con 3 vittorie?
Della volata di Cáceres, che dire? Il razzo di Berlino è partito talmente forte che nessuno l'ha visto: schiacciato da tanta superiorità (e appena appena stretto verso le transenne), Napolitano ha praticamente smesso di pedalare. Hushovd ha infilato il terzo secondo posto consecutivo, e allunga in classifica (12" di abbuono all'arrivo più 8" presi ai traguardi volanti), in attesa di cedere domani la maglia sulla salita de La Covatilla.
McEwen è in preoccupante fase involutiva, e dire che non ha un Mondiale su misura per lui da qui a tre settimane, quindi è proprio da escludere che stia in qualche modo bluffando (come fece in maniera magistrale Boonen un anno fa: poco pervenuto alla Vuelta, fantastico nel giorno dell'iride); Bettini invece continua a fare volate e a prendersi qualche rischio di troppo: anche lui, una volta vinta la sua brava tappa, non avrebbe niente da dimostrare, e quindi forse non è del tutto salutare sgomitare con chi invece insegue un successo parziale con la bava alla bocca. Ma tant'è, il Grillo è un gruppo elettrogeno, produce in continuazione energia, e da qualche parte la deve scaricare. Finché non si fa male, va bene così, e pazienza.
Sul resto, la corsa non ha detto ancora niente: non sappiamo nulla sullo stato dei vari favoriti, ma di sicuro domani, sul primo arrivo in salita della Vuelta 2006, a Béjar (si continua ad andare a casa di Heras anche dopo che Heras è caduto in disgrazia), qualcosa inizieremo a capire; e - ancora più sicuramente - ci divertiremo un po' di più di quanto non abbiamo potuto fare in queste prime (e un po' noiose) tappe, che hanno solcato steppe interminabili senza un'anima a bordo strada, col sole a picco e 40° di temperatura: è la Vuelta, a tratti sembra un film di John Ford.
E all'immaginario cinematografico potremmo attingere per commentare gli ultimi sviluppi dell'Operación Puerto: a quelle pellicole edificanti alla Frank Capra, con l'uomo probo che da solo, contro un ambiente che gli rema contro, riesce a dimostrare la sua onestà e si prende la meritata rivincita morale contro chi gli vuole male. Per l'appunto: se fossimo in un film di Frank Capra la vita sarebbe meravigliosa per Ivan Basso e - di riflesso - per noi che (perché negarlo?) siamo stati pesantemente danneggiati a livello economico da tutta questa situazione kafkiana. [Non si tratta di una rivendicazione egoistica, ma di un grido di dolore che riguarda tutto l'"indotto" che ruota intorno al ciclismo, e di cui prima o poi qualcuno dovrà tener conto].
Ma in quel film non ci stiamo, e allora Basso, oggi al Coni a parlare col procuratore federale antidoping, a rispondere in maniera esauriente (parole del procuratore stesso), a professare serenità e convinzione di poter tornare presto alle corse, a condividere col suo avvocato la certezza di aver iniziato a smontare la tesi dell'accusa (basata al momento su prove puerili), questo Basso qui deve ancora aspettare, perché il procuratore ha disposto una seconda udienza, per il 12 settembre. E va bene, aspettiamo con Ivan, e speriamo che la sua battaglia prosegua nel migliore dei modi, perché quello che ha subìto questo ragazzo ha dell'incredibile, una totale negazione di diritti in una zona franca, una terra di nessuno che lo stato di diritto non lo conosce per niente.
Non lo conosce al punto che il presidente Uci McQuaid (o chi per lui, visto che il grande manovratore è sempre Hein Verbruggen) può continuare a dire un giorno sì e uno no che stanno per venir fuori altri nomi eccellenti del ciclismo coinvolti nell'Operación Puerto, e noi qui ad aspettare l'ennesima mazzata, a proseguire nell'autoflagellazione, a chiederci come sia possibile che gli altri 150 sportivi di altre discipline coinvolti nello stesso affaire di doping non siano ancora stati sfiorati da alcunché.
È il grottesco risultato di un'assurda politica autocastrante praticata da anni dalla dirigenza del ciclismo mondiale. Non ne possiamo più. Non capiamo dove voglia arrivare McQuaid, ma nel frattempo non ne possiamo più. Non ne possiamo più già da anni, e siamo sempre meno, perché in tanti scappano: e se l'andazzo continua, tra un po' saremo in 4 a non poterne più. E a quel punto che ci dirà McQ? Sarà ancora attivo l'auricolare con cui Verby gli suggerisce le battute?

Marco Grassi    

 

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