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Lui che forse vinse un Tour - Pereiro: «Son comunque sereno» | Cicloweb

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Lui che forse vinse un Tour - Pereiro: «Son comunque sereno»

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Un inverno passato con indosso mezza maglia gialla, tra interviste e autografi, sentendo dentro di aver coronato il sogno della propria vita sportiva, ma senza poterlo urlare al mondo, in kafkiana attesa di un verdetto che non giunge. Un inverno finito discolpandosi di frettolose e strumentali accuse di doping, per l'uso di uno stracertificato salbutamolo. Ce ne sarebbe abbastanza per sbottare, accusare e sbattere porte; invece Oscar Pereiro è campione di pacatezza: fermo su una posizione ben definita - che giunga in fretta un verdetto, quale che sia - l'ha mantenuta senza mai uscire dalle righe. Ci chiacchieriamo e l'impressione è di aver di fronte un atleta che ha raggiunto la piena maturazione sportiva ed umana.
Eccoci con il vincitore virtuale del Tour 2006... No, scherziamo: sappiamo che non ami assolutamente questa formula. E neppure ci soffermeremo sull'ormai eterna questione Pereiro-Landis, se non per un aspetto secondario: ci confermi che stai pensando, qualora la situazione non venisse chiarita in tempi ragionevoli, di boicottare il Tour e prendere parte al Giro d'Italia?
«Sì, questo lo dissi quando sembrò prendere strada la possibilità che il Tour 2006 rimanesse senza un vincitore; in realtà gli organizzatori hanno già garantito che ci sarà una decisione e che il vincitore sarà o Floyd Landis o Oscar Pereiro. Pertanto sarò al via al prologo di Londra».
E quando ti rivedremo gareggiare nella corsa rosa, dove non torni dal 2002?
«È una competizione che mi piace parecchio. Il problema è che devo fare la Vuelta e tre grandi giri in un anno non li posso correre. Comunque, prima di concludere la mia carriera vorrei tornare al Giro: al di là della corsa, l'Italia e la sua gente mi piacciono molto».
Una stagione 2006 che può essere migliorata? Paradossalmente, con quello al Tour ancora dietro un punto interrogativo, nella scorsa stagione non è giunto nessun successo. Nell'annata appena iniziata ti poni particolari obiettivi a parte la corsa francese?
«Sì, vorrei vincere qualcosa prima, arrivare al Tour avendo già ottenuto qualcosa, per esempio al Delfinato o al Romandia. Rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, adesso la mia forma è migliore, peso quasi quattro chili in meno e questo chiaramente aiuterà a trovare la condizione un po' prima. L'obiettivo è essere competitivo al Romandia, non al cento per cento, ma competitivo, in grado di lottare per un'affermazione parziale».
Proviamo a percorrere brevemente alcuna delle tappe principali della tua carriera, cercando di capire come hanno contribuito a creare il Pereiro odierno. A partire dal ciclocross...
«Beh, quello che mi ha dato il ciclocross è innanzittutto il poter vivere di sport, fin da molto giovane. Poi, è stato importante ai fini della destrezza sopra la bici e per imparare a confrontarmi con il cronometro; non sono un cronoman, però mi difendo bene e credo che il ciclocross abbia avuto un ruolo decisivo in questo. Poi, come dicevo, per l'abilità, la destrezza nel condurre la bici, tanto in discesa quanto di fronte a un pericolo imprevisto, quando è importante non frenare e star tranquillo, per poter gestire al meglio la situazione».
Il periodo in Portogallo, che corrisponde al passaggio da professionista, nel 2000?
«Ottimi ricordi anche di quello. In Spagna non c'erano possibilità e nel 1999, all'ultimo anno da dilettante, avevo avuto la fortuna di vincere nella Volta do Futuro, in Portogallo, una corsa cui prendono parte anche dei professionisti; questo mi aprì la porta per l'ingaggio in una squadra, il Porta da Ravessa, che era la principale, o la seconda principale, del Portogallo. L'esperienza fu ottima, anche perchè nei primi due anni da pro' gareggiai al massimo una cinquantina di giorni a stagione e questo mi ha consentito di arrivare ad oggi atleticamente fresco, a maggior ragione perchè la prima grande corsa a tappe cui ho preso parte fu nel 2002».
Poi il "grande salto" in Phonak. In proposito, parlaci soprattutto del trasferimento alla Caisse d'Epargne: è vero che avevi un ulteriore anno di contratto con il team svizzero e il "patron" del team Rihs ti lasciò libero di accasarti con la potenza delle Baleari?
«Dell'ambiente Phonak ricordo tutto con grande piacere, ogni corsa, ogni compagno. Però nutrirò sempre un rispetto e un affetto particolari per Andy Rihs, cui devo molto: è una persona che con me si è comportata in una maniera stupenda. A riprova di questo, proprio l'episodio citato: prima del Tour 2005 firmai per un'altra stagione con la Phonak, ma poi in quel Giro di Francia vinsi una tappa, mi piazzai secondo in un'altra e secondo nella classifica della maglia a pois, vincendo anche la classifica della combattività; evidentemente il mio valore come ciclista era aumentato e in quella situazione chiesi a Andy di rivedere il contratto, prolungando per un'ulteriore annata. Rihs disse che mi apprezzava molto, come ciclista e come persona, e che, non potendomi dare ciò che chiedevo, mi lasciava libero di accettare offerte più vantaggiose da parte di altre squadre».
Qualcosa che suona quasi incredibile nel ciclismo di oggi...
«Assolutamente sì e anche per questo mi dispiace moltissimo per l'uscita di scena di Rihs e per tutto ciò che gli è successo. Ha avuto una grande sfortuna, ma resterà la persona migliore che mi è capitato di incontrare nella mia carriera».
Torniamo per un momento alle note dolenti e in particolare alla tua presunta positività, legata all'uso – da te certificato - del salbutamolo. Ti ha dato parecchio fastidio, soprattutto pensando all'aspetto mediatico?
«In verità, sapevo ciò che stava succedendo, e cioè che l'agenzia antidoping francese chiedeva solo ulteriori dati rispetto a quelli da me presentati: quindi inizialmente non mi preoccupai più di tanto. Ovvio però che mi dispiaceva per la mia famiglia: quando su un giornale importante uscì il titolo "Pereiro positivo", chiaramente i miei cari si spaventarono».
Ti sei sentito vittima di questa faida tra la Federazione ciclistica francese e l'UCI?
«Sì, ma soprattutto mi ha infastidito che un giornale come Le Monde non abbia verificato a dovere la notizia, prima di darne conto; c'è una questione di etica. Peraltro Le Monde da questa vicenda credo abbia perso più che guadagnato, in termini di credibilità; poi, quando questa notizia è stata smentita, non hanno neppure rettificato, non hanno porto nessun tipo di scusa, il che conferma l'impressione che ci fu della malizia nel tutto».
A proposito di antidoping, Gómez Marchante ha recentemente lamentato il fatto che a voi professionisti si chieda di dar conto della propria vita nel dettaglio, con risultato che non godete quasi di alcuna privacy, a differenza degli altri sportivi. Che ne pensi?
«Penso che ha ragione e che al momento attuale siamo noi corridori che ci stiamo caricando sulle spalle questo sport, che ne stiamo scontando i problemi. Si soffre l'assenza di norme uniche: ogni paese, ogni Federazione ha le sue regole, tra test ordinari e test a sorpresa... un gran caos».
Come se nel ciclismo ci fosse una giustizia particolare, che ragiona secondo logiche diverse da quella che regolamenta gli altri sport e da quella ordinaria. Ne ha parlato recentemente Rubiera, riferendosi soprattutto alla presunzione d'innocenza, che nelle due ruote non sembra esistere...
«È qualcosa che il ciclismo ha ereditato dal suo passato, ma il punto è che ora, invece di rimediare, stiamo insozzando ancor più questo sport e la sua immagine. Il problema principale del ciclismo, a mio parere, non è il doping, bensì il fatto che gli organi che dovrebbero governarlo sono in lotta tra di loro, che non c'è nessun tipo di coordinamento a livello mondiale. A volte mi sembra di gareggiare in mezzo a dei nemici e non certo per colpa di noi corridori...».
In un contesto sportivo così problematico, quanto è importante avere una famiglia come la tua, che dia serenità e consenta in qualche modo di isolarsi da certe pressioni?
«Il mio successo principale è senza dubbio la splendida famiglia che mi attende a casa: è fondamentale per avere l'equilibrio necessario, come uomo e come atleta. Mia moglie è una persona stupenda, e molto organizzata: è qualcosa che mi ha trasmesso e che mi aiuta parecchio in vista degli obiettivi sportivi. Può sembrare una banalità, ma quando un uomo ha una famiglia ed è felice, tutto risulta più facile».
Anche vincere (forse) un Tour de France.



Stefano Rizzato

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