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Ragazzi dell'Est - Ekimov: «Tra un po' smetto» | Cicloweb

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Ragazzi dell'Est - Ekimov: «Tra un po' smetto»

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Fa freddo sul Passo di San Pellegrino. Sono le 21, e i corridori stanno dimenticando le fatiche di giornata di fronte alla tavola della cena. Fuori l'aria ghiaccia il respiro, dentro si parla della giornata, e si pensa a domani. Le squadre ospitate qui sono la Discovery Channel e la Milram. E tra i tanti giovani, c'è anche il "vecchio" del gruppo: Viatcheslav Ekimov. Quarant'anni compiuti il 4 febbraio, professionista dal 1990, dal 1997 alla Us Postal prima (con una parentesi nel 1999 all'Amica Chips) e alla Discovery Channel poi. Si divide tra la casa in Spagna e quella a San Pietroburgo, la "Venezia della Russia". Sentiamo cos'ha da dire questo decano sul Giro d'Italia e sulla propria carriera.
Viatcheslav, hai già deciso quando smetterai?
«A dire il vero non lo so ancora... ma spero presto!».
Sai già cosa farai dopo aver appeso la bici al chiodo?
«Mi piacerebbe continuare nel mondo del ciclismo, possibilmente come direttore sportivo di una squadra professionistica. Il mio sogno sarebbe quello di rimanere in Discovery: qui mi sono sempre trovato molto bene, inoltre ormai conosco tutte le persone che vi lavorano, conosco i metodi e il sistema del team, e non avrei quindi bisogno di dovermi adattare a una nuova squadra e a un nuovo ambiente. Insomma: qui mi sento proprio in famiglia».
Qual è il tuo più bel ricordo della carriera?
«Sicuramente quando ho vinto la medaglia d'oro a cronometro a Sidney, perché è stata una vera e propria sorpresa: quando ho corso io mancavano ancora molti corridori alla fine, e non avrei mai pensato che avrei mantenuto il miglior tempo. Ma man mano che gli altri disputavano la propria crono, vedevo che mantenevo la testa della classifica... e alla fine ho vinto! È stata un'emozione che non dimenticherò mai».
Come hai visto cambiare, in meglio e in peggio, il ciclismo nei tuoi 17 anni di professionismo?
«È cambiato completamente. Tutti quei corridori che appartenevano alla cosiddetta "old school" hanno smesso di correre. Succede che tutti i migliori smettono più o meno nello stesso momento, e così non rimane nessuno a raccogliere e tramandare certi metodi e certe tecniche. Ora non esiste più una "scuola", tutto è fatto a caso».
Quindi non vedi qualcosa di buono in questo "cambio generazionale" di cui tutti parlano?
«Diciamo che qualcuno dei nuovi corridori potrà forse riportare la vecchia tradizione. Ma ora come ora non vedo nessuno in grado di farlo, per almeno 5-6 anni».
Parliamo di questo Giro: cosa ne pensi, anche a livello organizzativo?
«Questo è un Giro folle. Una corsa pazza, superdura, con trasferimenti impossibili. Credo che l'organizzazione abbia pensato ai ciclisti solo come ultima cosa, dopo lo spettacolo, la tv e tutto il resto. Qui è sempre un gran caos: per i massaggi, per cenare, e dopo otto ore di corsa uno vorrebbe solo starsene tranquillo, non sobbarcarsi ore e ore di trasferimento. Però il Giro non è organizzato da delle macchine, ma da degli esseri umani come noi, che dovrebbero capire a cosa ci sottopongono: quindi spero che d'ora in avanti le cose migliorino».
Nel complesso trovi che al Giro le cose negli anni siano peggiorate o no?
«Non ho partecipato a tanti Giri per poterlo dire. Oltre a questa edizione ho corso solo nel 1999, ma devo dire che non ricordo tutto questo caos...».
Che rapporto hai con Paolo Savoldelli?
«Lo ritengo un buon ragazzo, molto onesto. Non ho mai avuto problemi con lui. Non posso dire di essere un suo amico intimo, ma lo stimo e lo rispetto molto. Dato che lui non sa l'inglese abbiamo qualche problema a comunicare... parliamo in un misto di inglese, italiano e spagnolo. Ma alla fine ci capiamo sempre!».
Cosa ti ha insegnato la vita del corridore?
«È una vita speciale, e un lavoro speciale. Dura, incredibilmente dura. Ma al tempo stesso anche molto interessante: si viaggia molto, si vedono posti diversi e si conoscono tantissime persone sempre nuove. Non ci si annoia mai. Senza dubbio però, si paga molto, soprattutto in termini di tempo da dedicarvi...».
Se rinascessi, faresti ancora il corridore?
«Assolutamente no! È una vita troppo dura: se avessi saputo in anticipo quanti sacrifici si devono fare per essere corridore, non lo avrei mai fatto!».

Elisa Marchesan




Belohvosciks: «E io ci sono ancora»


All'estero è un personaggio noto, in ogni gara la gente lo circonda per ottenere autografi, e in effetti, Raivis Belohvosciks, il talento e la classe che rendono famosi li possiede. Lo dimostrano i risultati ottenuti (specialmente fuori dall'Italia) nella sua lunga ma difficoltosa carriera. Già, difficoltosa, e molto, ma lui non si abbatte di certo, rimane nel mondo del ciclismo anche se attualmente non è riuscito ad entrare in una formazione consona al suo livello. Resta, perché sa di avere ancora molto da dare e da esprimere. Resta, perché anche se la sua cultura e il suo spirito di iniziativa gli consentono di progettare già il futuro con la bici appesa al chiodo (prima o poi tutti devono smettere), adesso il ciclismo è più importante, gli ha dedicato una vita, e ha voglia di dimostrare il suo reale valore (gli occhi attenti non possono però non averlo ancora compreso).
Raivis, come ti trovi nella squadra che nacque a metà 2005, la Universal Caffè?
«Sono contento che la squadra sia stata creata, così mi trovo ancora nel mondo professionistico per poter tornare ai miei livelli».
Hai esordito nel mondo del professionismo con la Lampre, poi hai militato nella Marlux: ci parli del periodo trascorso nella formazione belga?
«Il livello organizzativo della Marlux a confronto di quello della Lampre era zero: si doveva pensare a tutto da soli. Se si potesse paragonare ad un sodalizio italiano, quella squadra belga sarebbe uguale ad una squadra juniores scarsa. Il secondo anno in cui vi ho militato, il 2004, la Marlux si è fusa con la Bankgiroloterij ma i direttori sportivi non andavano d'accordo, e sono stati i corridori a pagarne le conseguenze. A fine maggio ho smesso di correre per un lungo periodo, in seguito ad una grave infezione ai polmoni, e al mio ritorno alle corse non ho più potuto gareggiare né con un direttore sportivo né con l'altro. Sono tornato alle corse soltanto a fine anno, disputando i mondiali sia a crono che su strada (dove sono stato all'attacco), e l'ultima gara è stata la Chrono des Herbiers, in cui mi sono classificato quinto».
Terminata quella sfortunatissima stagione, che contatti hai avuto?
«Tramite Ernesto Colnago ho contattato la Lanbouwkrediet per andare con loro, sembrava volgere tutto per il meglio... invece è saltato tutto. In Belgio proprio in quel momento è stata approvata una nuova legge: hanno innalzato lo stipendio minimo dei corridori delle formazioni belghe a 60.000 euro. Io chiaramente ne volevo di meno. Il giorno di Natale del 2004, il manager della Landbouwkrediet mi ha inviato un sms spiegandomi che non si poteva fare nulla. Ero fuori da tutti i giochi. Troppo tardi per trovare altri contatti, le squadre a quel punto avevano già completato l'organico. Ma io volevo ancora correre: so di non avere mai espresso veramente le mie potenzialità, perché nessuno me ne ha mai offerta l'opportunità e perché ho avuto diversi problemi personali, nel corso della carriera».
Poi è successo qualcosa di inaspettato.
«Verso la fine di marzo mi ha telefonato Pietro Algeri, dicendomi che c'era una nuova squadra. La Universal appunto. Io, senza condizioni, ho firmato».
Sei alla Universal per il secondo anno consecutivo. Per il futuro cosa desideri?
«Se il team crescesse mi piacerebbe restare, oppure vorrei provare in una formazione più grande, per trovare il minimo per sopravvivere con alle spalle una famiglia con tre bimbi (di sei, quattro e due anni) che stanno in Lettonia con mia moglie, e che vengono da me in Italia soltanto in estate».
Torniamo indietro nel tempo, a quando ancora vivevi in Lettonia: raccontaci la tua carriera fra i dilettanti.
«Da dilettante correndo per la nazionale ho vinto otto corse, ottenendo risultati importanti anche nelle numerose gare disputate insieme ai professionisti. Dopo due anni mi si è aperta la prospettiva Italia: sono venuto nel vostro Paese correndo due anni nelle fila della Vellutex. Nella prima annata ho vinto dieci corse. Quelle che ricordo con più piacere sono il Giro della Vallonia (mi aggiudicai la prima tappa e alla fine fui quarto in classifica generale, gareggiando insieme ai professionisti) e il mondiale di San Sebastian, dove giunsi quarto nella crono e decimo nella prova in linea. L'anno seguente ottenni una sola vittoria: un problema al ginocchio mi costrinse a sottopormi ad un'operazione seria».
Finché è avvenuto il fatidico passaggio alla categoria che sognavi.
«A 23 anni ho firmato il contratto con la Lampre. Lì i primi due anni sono stati una favola, mi sono trovato bene sia con i corridori che con i direttori sportivi. Pinotti e Bertogliati sono coloro con cui ho allacciato l'amicizia più salda. Nei due anni successivi forse, dal mio punto di vista, la Lampre ha avuto qualche problemino. Rispetto al mondo del ciclismo attuale era però ancora una favola».
A cosa è dovuta l'attuale crisi del ciclismo, secondo te?
«Si vede che nel ciclismo ora c'è qualcosa che non va, a livello di immagine. Mancano gli sponsor, e tutto è partito dall'indimenticabile giorno di Madonna di Campiglio. Da quel momento in avanti, il ciclismo ha sempre perso qualcosa, e a ciò si è unita la crisi economica italiana. A chi possiamo fare pubblicità se mancano le imprese? Conosco bene questa situazione, è molto simile a ciò che accadde in Lettonia quindici anni fa, quando l'industria alimentare, quella di prima necessità, rimase l'unica non invischiata nella crisi nazionale».
Tornando ad argomenti più soft, dove e con chi ti alleni di solito?
«Mi alleno da solo oppure con Pinotti, solitamente in Val Taleggio e in Val Serina (non è la Val Seriana!, nda)».
E in inverno come fai? In quella zona il clima non è dei migliori, soprattutto per i ciclisti!
«Nel periodo freddo, fino a gennaio, solitamente vado in Lettonia. Quest'anno vorrei dedicarmi allo sci di fondo, come ulteriore allenamento invernale quando sto in Italia».
Qual è il clima che si respira all'interno della tua squadra?
«Mi trovo bene, la maggior parte dei miei compagni sono giovani e simpatici. Nelle formazioni piccole non ci sono i grandi leader, per questo il lavoro che si svolge è davvero di squadra. C'è maggiore accordo, maggiore unità rispetto ai grandi team che al loro interno hanno nomi grossi».
I giovani più promettenti del palcoscenico italiano, secondo te, quali sono?
«Prima cito quelli della mia squadra: Maisto, il velocista Loria, e Bruson, che è uno scalatore con caratteristiche simili a quelle di Basso, con le dovute proporzioni. All'esterno, i gemelli Efimkin e Riccò».
Chi è in lizza per la maglia gialla dell'imminente Tour de France?
«Se Basso resta con questa condizione, saranno lui e Jan Ullrich a giocarsi la vittoria finale. Penso che il Kaiser migliorerà notevolmente il suo stato di forma da qui alla Grande Boucle. Non dimentichiamoci poi di Vinokourov, il terzo incomodo: si è preparato bene ed appositamente per questo appuntamento, inoltre lo sponsor kazako è diventato il marchio principale del suo team, proprio per consentirgli, in luglio, di non mancare».
Sei reduce da alcune corse disputate in gran spolvero: dal Giro del Trentino, al Tour of Japan, sino al Memorial Pantani.
«Già al Giro del Trentino sono riuscito a mettermi in evidenza, poi a metà maggio in Giappone ero in grande condizione e si è visto. Duma ha vinto la classifica generale ed io l'ho aiutato molto, in ogni tappa, aspettandolo quando mi trovavo in fuga. Duma a sua volta ha dato una mano a Di Nucci nella terza frazione, così Daniele, pilotato da Vladimir, ha ottenuto la sua prima vittoria da professionista. Il quarto giorno si è disputata la cronoscalata: durissima, più del Mortirolo. Si arrivava a 2.200 m di altitudine. Il vincitore (Augustyn della Konika Minolta, ndr) ha montato un 34x25, io invece un 39x25 e la mia schiena è finita in pezzi... tantopiù che non ci si poteva alzare sui pedali perché la pioggia ci faceva slittare. L'ultima tappa però ho avuto carta bianca. Credevamo sarebbe stata una passeggiata, visto che si correva nella pianura attorno a Tokyo ed era la frazione conclusiva, invece c'è stata bagarre, i corridori giapponesi ci hanno dato del filo da torcere fino all'ultimo e la media oraria e stata di 47,28 km/h. Me sono andato quando mancavano 14 km all'arrivo, ovvero due tornate del circuito, insieme allo slovacco Velits e a due kazaki, Dyachenko e Mizourov. Quest'ultimo era molto determinato, il suo obiettivo era rimontare di un posto in classifica generale, per poter salire sul podio. Quando abbiamo superato i fuggitivi della prima ora, uno di loro si è accodato al nostro quartetto e ci ha affiancati fino al termine. All'ultimo km ho allungato, sbucando dal retro, e ho fatto il vuoto. A dire la verità, ai meno 500 non sapevo più come arrivare al traguardo: ho speso tantissimo durante tutti i sei giorni per aiutare il capitano, e le gambe me lo facevano notare! Però sono arrivato, ottenendo finalmente la prima vittoria stagionale. Ho preso morale, io come l'intera squadra, che nonostante sia così piccola ce l'ha fatta, lavorando compatta, a portarsi a casa delle vittorie e delle soddisfazioni».
Hai disputato il 3 giugno il Memorial Marco Pantani: ti abbiamo visto nelle posizioni di testa ma ti è mancato qualcosa, giusto?
«Tornato dal Giappone la mia forma era ottima. In allenamento, anche in salita, mi sembrava di andare come noi mai, quindi nutrivo forti aspettative per questa corsa. Invece mi ha colpito un virus intestinale, mi sono visto costretto ad assumere antibiotici che ovviamente mi hanno debilitato. Sull'ultima salita ho sofferto, vedevo il gruppo di testa sempre a 200 metri da me, ma non riuscivo ad andare a riprenderli. La discesa era rischiosa, resa viscida dalla pioggia; tanti, fra cui il mio compagno Duma, sono caduti ed io non ho voluto azzardare lì il ricongiungimento col gruppo davanti. All'ultimo km sono scattato e ho recuperato un po' di metri, ma ormai tutto era inutile. Un po' dispiace, perché sono sicuro che sarei arrivato nei cinque se non avessi preso quel virus».
Ti rifarai... A proposito, quando potremo rivederti in gara?
«Tra qualche giorno torno in Lettonia, dove mi aspettano i campionati nazionali sia a crono che in linea. Poi mi riposo per qualche tempo, in attesa di tornare alle corse nei mesi di agosto e settembre, auspicando di trovarmi con un'ottima condizione che mi permetta di concludere bene la stagione».


Enula Bassanelli



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