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«Io sull'asse Liegi-Parigi» - Garzelli salta il Giro per fare il Tour

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È abbronzato, Stefano Garzelli, anche se è pieno inverno. Ha portato nella sua dimora di Valencia due giovanotti come Daniele Colli ed Eros Capecchi per un periodo di allenamento al caldo, ed i frutti si colgono nella melanina che colorisce la pelle. Garzelli, varesino, l'anno scorso ha vissuto una delle sue stagioni più difficili, per fortuna punteggiata da due lampi di gioia come la vittoria alla Tre Valli Varesine, la corsa di casa sua, con la volata imposta in cima a Monte Campione, e la nascita del suo primo figlio, un bimbo cui Garzelli ha dato un nome che facilmente si abbina alla sua storia di corridore: Marco.
È durante il ritiro Liquigas a Terracina che avviciniamo il vincitore del Giro d'Italia 2000 e con lui cerchiamo di fotografare un po' quello che è stato l'anno appena trascorso e quello nuovo, che sta per nascere. Con il supporto di un altro corridore di talento, Daniele Colli che, simpaticamente, ha ascoltato la nostra conversazione con partecipazione divertita.
Hai un obiettivo particolare per il 2006 che, ciclisticamente, sta nascendo?
«Andare forte. Andare forte e basta. Sarà un anno fondamentale perché a 33 anni vorrei ritrovare il Garzelli di un paio di anni fa, quello che andava forte al Giro d'Italia. Sono convinto di poter fare ancora bene, ma se non ci riuscissi sarà il caso di valutare quello che potrò fare in futuro. Non ho obiettivi particolari: voglio andare forte, voglio aiutare la squadra in alcuni momenti e vorrei mettere in condizione la squadra di aiutare Garzelli in altre occasioni. Questo è un ottimo team, c'è grande serenità e rispetto. Spero di poter vincere qualcosa io personalmente, questo è chiaro, ma se non ci riuscirò le vittorie Liquigas mi daranno comunque grande gioia».
Ci pare di capire che i "bassi & alti" della stagione scorsa ti abbiano segnato.
«Non mi nascondo. So che l'anno scorso ho corso una stagione deludente, e lo ammetto. Puntavo forte sul Giro d'Italia, saltato il Giro ho dovuto rincorrere il Tour de France, che non si prepara però in 25 giorni. Dal Tour sono uscito con un'ottima gamba che mi ha permesso di correre bene parecchie classiche del calendario estivo italiano. Ma riconosco che un vincitore di un Giro d'Italia debba essere più concreto, possibilmente, in ogni stagione che corre».
Ovvio che un vincitore di una grande corsa a tappe possa pensare di rivincere una corsa a tappe. Però perché in passato hai quasi snobbato le classiche che potevano vederti come protagonista per continuare ad inseguire le grandi corse a tappe che, man mano, ti respingevano?
«Purtroppo nel ciclismo moderno non si può pensare di concentrarsi sulle classiche, sul Giro e sul Tour. Le corse a tappe sono un grossissimo impegno, sia fisico che mentale, visto che per tre settimane non puoi permetterti di sbagliare niente, da nessun punto di vista. L'anno in cui ho fatto secondo alla Liegi, questa corsa era molto vicina al Giro, nel calendario, e ci arrivai difatti con una condizione sufficiente per essere protagonista. Sicuramente le classiche le ho lasciate da parte, ma se si vuole preparare il Giro per essere protagonisti qualche rinuncia deve essere, ahinoi, fatta».
Forse l'errore è stato abbinare poi il Tour de France al Giro d'Italia. Avresti potuto staccare per poi ripresentarti competitivo per le classiche di fine stagione come il Giro di Lombardia.
«Nel 2003 fu una richiesta della squadra, visto che la Vini Caldirola fu invitata al Tour de France e ci teneva a presentarsi con quello che era il suo capitano. L'anno scorso è stata una sorta di corsa a tappe "di riparazione" dopo il ritiro dal Giro d'Italia. Diciamo che in queste due occasioni sono stato anche poco fortunato».
Come hai accolto la decisione di farti saltare il Giro d'Italia, nel 2006, dopo tanti anni sempre al via?
«È stata una scelta anche mia, perché per un anno vorrei provare a correre il Tour de France senza correre prima il Giro d'Italia, e quindi la decisione è maturata insieme ai vertici tecnici della Liquigas. Ho sempre avuto curiosità di vedere cosa sarebbe accaduto se avessi corso il Tour senza aver fatto il Giro, e gli anni e le occasioni passano e per essere competitivi non è che ci sia più molto tempo. Per questo, a malincuore, la scelta di non far parte della carovana rosa. Il Giro per me è sempre il Giro, ma per un anno faremo questo sacrificio».
Gilberto Simoni - ma non solo - in qualche dichiarazione passata ti consigliava di correre le Ardenne da protagonista perché ti vede in grado di competere con gli specialisti delle classiche. La pensi allo stesso modo?
«Assolutamente sì, e questo è un altro punto focale della stessa questione di cui discutevamo prima. Negli anni addietro partivo sempre, ad inizio stagione, per far bene al Giro d'Italia, che era in maniera quasi univoca la mia aspirazione principale, e quindi difettavo di condizione e di motivazione nelle classiche delle Ardenne. Quest'anno, avendo un obiettivo non proprio determinato al Tour de France, potrò sicuramente ambire ad avere un grosso colpo di pedale per Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi, e chissà che non venga fuori qualcosa di ottimo».
Tra le classiche delle Ardenne, quali ti affascina di più? La Liegi che ti sfumò nel 2002?
«La Liegi-Bastogne-Liegi è la più importante e, tra le tre, è quella che tutti vorrebbero vincere. Diciamo che la mia preferenza è un po' più mirata anche fotografando quelle che sono le mie caratteristiche di corridore: è una corsa lunga con continui saliscendi e che privilegia i corridori di fondo, rispetto ad un Amstel Gold Race che, oltre al Cauberg nel finale, ha poche difficoltà altimetriche nel percorso. La Freccia Vallone è dura, ma è lunga meno di 200 km, e quindi anche chi non ha tanto fondo può salvare la baracca ed anche fornire grandi prestazioni».
Hai già studiato il percorso del Tour de France? Ti piace? Pensi che sia adatto alle tue caratteristiche?
«Il Tour è sempre duro, sempre impegnativo. È meno duro rispetto al Giro, che è qualcosa di incredibile quest'anno, ma è comunque una corsa che ti mette a dura prova. Non ci sarà la cronosquadre che era una prova molto importante, ma ci saranno le cronometro individuali che saranno un po' l'ago della bilancia per quanto riguarda la classifica generale. Per questo, vedo sul gradino più alto dei favoriti Jan Ullrich, seguito a ruota da Vinokourov. Anche Ivan Basso, che è cresciuto tantissimo nella lotta contro il tempo, potrà dire la sua e lottare per la vittoria».
Sai già chi saranno i tuoi "scudieri" lungo le strade della Grande Boucle?
«Abbiamo una bozza di lista dei corridori che saranno in preallarme durante la stagione per correre il Tour de France, ma posso dire che al Giro d'Italia Danilo Di Luca avrà una squadra volta alla classifica generale con corridori come Cioni, Pellizotti, Noè, Miholjevic, mentre al Tour de France la squadra sarà più improntata verso le vittorie di tappa con corridori come Paolini, Backstedt, qualche ragazzo dei nostri che farà le volate e gli sprint, e con il sottoscritto. Non andiamo al Tour per vincere il Tour: andiamo al Tour per fare una bella corsa, e la mia eventuale classifica generale dovrà essere una conseguenza di tanti piazzamenti d'onore negli arrivi delle tappe che contano».
Una tattica stile Di Luca nel Giro d'Italia 2005, insomma.
«Per chi vince un Giro d'Italia arrivare secondo o terzo negli anni successivi è già una mezza delusione, e sicuramente al Giro d'Italia Stefano Garzelli aveva sempre gli occhi puntati addosso. Al Tour de France sarò più rilassato e potrei giocare sulla sorpresa o sulla sottovalutazione, e chissà che non sia un bene».
Il tuo programma, oltre le classiche delle Ardenne ed il Tour de France, quali corse prevede?
«Inizierò con la Milano-Torino e proseguirò con il Giro della Provincia di Lucca, Tirreno-Adriatico, Milano-Sanremo, Giro dei Paesi Baschi, classiche delle Ardenne e forse alla fine di queste classiche potrà essere inserita nel programma una corsa a tappe come il Giro di Romandia. Poi a giugno il Giro di Svizzera e, in luglio, il Tour de France, e per il prosieguo si vedrà».
Il Garzelli visto ad agosto nelle classiche estive italiane come il Giro del Lazio e la Tre Valli Varesine non sarebbe stato utile, anche per il discreto spunto veloce, alla causa della selezione italiana spedita a Madrid?
«Direi di no, anche perché il percorso non permetteva molti slanci per corridori con le caratteristiche che ho io, e poi la strategia era tutta improntata su Petacchi e, in seconda battuta, Paolo Bettini, che erano assolutamente in grado di dire la loro. Mi spiace di non aver potuto vedere la gara e di non averlo ancora fatto e quindi non poter dare un parere tecnico sullo svolgimento della corsa, ma da quanto ho letto e sentito non credo che avrei potuto dare una mano. Non scordiamo poi che venivo da un Giro d'Italia che correvo per la classifica anche se son caduto e mi sono ritirato quasi subito, e da un Tour de France preparato un po' alla svelta visto il ritiro dal Giro e da cui ho sfruttato la condizione per far bene in agosto».
Tu pensi che sia conveniente, o quantomeno producente, per una nazione come l'Italia presentarsi ad una rassegna importante come i Campionati del Mondo con una tattica così apparentemente ingessata?
«Questo era un Mondiale un pochino indecifrabile, visto che si poteva arrivare in volata, e quindi non so che apporto avrebbero potuto dare corridori con le mie caratteristiche. La Spagna porta Mancebo, porta Pereiro, ma li porta a lavorare, ed è un po' quello accaduto alla Selezione italiana a Verona 2004, dove c'eravamo Cunego, Basso ed io, praticamente dei leader delle proprie squadre, al servizio di Bettini. In entrambi i casi, però, è mancato l'uomo che doveva fare la corsa, e questo ha sensibilmente stravolto tutte le strategie».
A Verona c'eravate, è vero, ma non seate stati utilizzati per rendere più dura la corsa.
«Bettini ha avuto il problema al ginocchio, ed abbiamo perso un po' di tempo a capire quello che si doveva fare. Io non ero in una condizione strepitosa pur uscendo da una discreta Vuelta a España, mentre Cunego e Basso hanno provato a muoversi, ma forse con un pochino di ritardo. Il terzo posto di Paolini, però, credo sia stato un risultato onorevole, che comunque non è una vittoria, questo lo so».
Quindi anche a te è restato l'amaro in bocca perché pensavi si potesse fare di più?
«Nel Mondiale, tutti corrono dietro all'Italia ed in seconda battuta alla Spagna. L'Italia è da vent'anni, mi pare, che non era così attardata nell'ordine di arrivo mondiale come a Madrid, e sono sicuro che il 2005 sarà un episodio raro come lo sono stati quelli precedenti».
Per il Mondiale di Salisburgo del 2006 Garzelli potrebbe essere uno dei papabili capitani?
«Se la condizione sarà buona, da quello che il percorso appare, potrò fare senz'altro bene visto che la prova porrà l'accento sui campioni delle corse di un giorno come Bettini, Di Luca, Cunego: corridori scattisti, di fondo, veloci. Io sono convinto che, rispetto all'anno scorso, ci saranno parecchie punte in più da giocare durante la corsa».
Conti di andare a vedere il percorso o attendi prima di parlare con Ballerini?
«Io conto di andare forte, sin da inizio stagione. Non ci voglio neanche pensare al Mondiale, troppo lontano. Mi concentrerò soltanto sulla prima parte del calendario. Dopo il Tour de France valuteremo i risultati e la condizione e si stabiliranno le altre corse da disputare».
Vivi questo ritorno in ritiro a Terracina come una sorta di scaramanzia? Qui veniste in ritiro con la Mercatone Uno nell'anno 2000, quello della tua vittoria al Giro d'Italia, non è così?
«Dal 2000 non sono più tornato, e sicuramente questo è un ambiente che mi fa tornare a bellissimi ricordi. La scaramanzia non fa parte del mio bagaglio, ma senz'altro se nel 2006 tornerò a vincere qualcosa che si avvicini in importanza al Giro d'Italia, il ritiro a Terracina sarà l'unica clausola che vorrò fissare nei miei prossimi contratti da corridore (ride)».
I ricordi di cui parli sono in qualche modo anche legati a dei momenti passati con Pantani e con la Mercatone Uno di allora?
«Conservo bei ricordi anche perché coinvolgono Pantani, senza dubbio, perché lui era il faro di quella squadra e molte delle cose che accadevano giravano intorno alla sua persona. Sicuramente i ritiri servono a fare gruppo, e ricorderò sempre molto volentieri la mangiata di pesce in un ristorante di Terracina in compagnia di tutta la squadra: uno dei momenti più belli che io abbia mai fotografato in un ritiro. L'amicizia è un bene prezioso in gruppo, perché se una volta io dovrò aiutare Colli (seduto accanto a Garzelli, ndr), la volta dopo magari Colli aiuterà me con più piacere. Cementare un rapporto umano serve anche ad affrontare il lavoro con maggiore interesse».
Che ne pensi delle tante voci, delle tante dichiarazioni, dei tanti libri che giornalisti ed addetti ai lavori dedicano a Marco Pantani? Pensi che tutto questo gioco, che cammina sul filo labile che divide la ricerca della verità dalla speculazione, possa onorare la memoria del Pirata?
«Non è semplice distinguere le cose fatte per salvaguardare la memoria di Marco dal resto, sia che determinate cose vengano da qualcuno del settore, sia che vengano da qualcuno "della strada". Da una parte c'è una madre che soffre ancora per la scomparsa di un figlio, e dall'altra persone che cercano di gestire questa situazione non dico per fare pubblicità, ma comunque per far parlare, anche se ciò potrebbe far soffrire qualcuno. Non è facile, ma comunque dovrebbe esserci, di fondo, più rispetto per una madre che ha perso il figlio. Quello che successe realmente forse non si saprà quasi mai, sarà molto difficile, e sono anche discorsi che sono difficili da affrontare, perché rimarranno comunque parole al vento».
Vedi qualche analogia tra il Garzelli del 2000 che vinse il Giro quasi all'ombra di Pantani - suo capitano - e il Cunego del 2004 che ha vinto il Giro quasi all'ombra di Simoni - suo capitano?
«No, secondo me sono due situazioni differenti ed anche come caratteristiche di corridore, a parte uno spunto veloce che potrebbe tornarci utile, anzi, a lui già è tornato utile, in qualche grande classica da giocarsi allo sprint, ci vedo piuttosto lontani. Certamente entrambi abbiamo vinto il Giro d'Italia quando nessuno, o poca gente, pensava che l'avremmo potuto vincere. Queste sono le uniche due cose che ci accomunano, secondo me».
Prima hai nominato Daniele Colli, e quindi non possiamo fare a meno di chiederti se c'è qualcuno, tra i giovani, che ti ha colpito in maniera particolare.
«Non ce n'è uno in particolare. Chi per una motivazione, chi per un'altra, si sono fatti tutti ben volere. Sono tutti molto svegli, ecco, quando io sono passato professionista ero più timido. Ora hanno già una mentalità differente, giustamente, e se si tratta di affrontare delle situazioni particolari sanno già quando è il momento di continuare a forzare e quando è il caso, invece, di tornare sui propri passi e cercare di capire dove si sbaglia, anche chiedendo ai compagni più "navigati". La cosa più positiva è senz'altro che sono tutti ragazzi con i piedi per terra».
Che ne pensi della diatriba tra gli organizzatori di Giro, Tour e Vuelta - e non solo - ed il circuito del Pro Tour?
«Io vedo solo un gran "casino" (ride). Noi corridori non sappiamo molto di quanto accade ai "piani alti", diciamo così, e quello che veniamo a sapere è quello che leggiamo sui giornali e che, quando i nostri dirigenti tecnici ne sono coinvolti, ci riferiscono il team manager e i direttori sportivi. Il nostro ruolo cambia poco, perché le corse rimangono sempre quelle e di pedalare forte c'è sempre bisogno. Se il Giro d'Italia non fosse nel Pro Tour molti corridori lo correrebbero lo stesso, non è che diventa più importante o meno importante».
Sarebbe magari più utile, invece che fare un passo indietro, aggiustare la mira e migliorare ciò che non va, non credi?
«Certo che se si tornerà ad un ruolo troppo importante del Tour de France, tutti vorranno correre il Tour snobbando le altre corse. Le squadre che stanno fuori dal Pro Tour non sono certo contente, e lo posso capire, ma per noi corridori far parte di un circuito del genere è sicuramente una bellissima vetrina».
La distribuzione dei punteggi, il numero di squadre incluse e le corse presenti nel calendario del circuito, ad esempio, potrebbero essere i primi tre punti su cui focalizzarsi. Ti piace come sono gestiti questi tre punti?
«I punteggi alla fine riguardano solo quei tre/quattro corridori che a fine anno si giocano la maglia di leader, perché se io parto per vincere il Giro d'Italia non mi cambia molto sapere che prenderò 50 punti o magari 85. Se lo vinco, vinco il Giro d'Italia, i punti sono una questione relativa. Sicuramente ci sono troppe corse, questo è assodato. Un calendario troppo grande e vasto, con corse di poca tradizione che potrebbero essere tranquillamente riportate al calendario mondiale che è comunque presente. Anche perché in determinati periodi dell'anno, magari ad agosto per le squadre italiane, alcuni team sono costretti da alcune corse Pro Tour ad una tripla attività, e per la gestione di costi e dei corridori non è proprio il massimo della vita».
Concludiamo con una domanda personale: come ti ha cambiato, se ti ha cambiato, la nascita del tuo primogenito?
«Dormo meno (ride). Sicuramente è una cosa stupenda, e che non voglio collegare al ciclismo. È una cosa mia, privata, che appartiene solo alla mia famiglia, ma forse sotto il profilo delle motivazioni può darmi qualcosa di nuovo, qualche stimolo in più. È davvero una bellissima emozione».
Neanche il nome di tuo figlio, Marco, è correlato al ciclismo?
«No, no. Qualcuno me l'ha già fatto notare, ma è soltanto una questione di gusto, una coincidenza. Il nome Marco piaceva sia a me che a mia moglie e l'abbiamo scelto».


Mario Casaldi

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