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Hai voluto la bicicletta? - Scopriamo il mondo di Leonardo Zanotti

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Un'anima divisa in due: è quella di Leonardo Zanotti, 25 anni, l'ultima stagione passata a difendere i colori della De Nardi-Colpack. Divisa in due, la sua anima, perché è uno stradista che viene dalla mountain-bike e che potrebbe tornarci, prima o poi. In questi giorni sta decidendo cosa fare, se concedersi un altro anno tra i professionisti (la sua squadra è disposta a tenerlo) o se tornare al suo antico amore. «Ma credo che alla fine resterò "su strada" anche per la prossima stagione, per vedere se viene qualche risultato importante».
Com'è stato il tuo approdo al ciclismo?
«Quando correvo in mountain-bike ero nella squadra della Mapei; da lì a passare alla Mapei su strada, quella dei giovani, il passo è stato breve».
In quella squadra lo scorso anno c'era un bel gruppo di campioncini, da Pozzato a Rogers a Cancellara a Sinkewitz. In mezzo a loro come ti valuti?
«Loro erano fortissimi già tra i dilettanti, sono dei predestinati. Io cercherò di ritagliarmi un mio spazio, ma so già che sarà difficile».
Puoi vincere solo una corsa. Quale scegli?
«Sarebbe già tanto vincerne una, una qualsiasi! Potendo scegliere, opterei per una tappa del Giro d'Italia».
Ti confondono spesso con Marco, l'altro Zanotti del professionismo?
«Certo, ma la cosa va a mio vantaggio visto che lui è più forte... Lui corre da più tempo e ha avuto risultati migliori dei miei, quindi mi faccio un po' di pubblicità alle sue spalle. E' un bel velocista, ed è simpaticissimo».
Tu invece come sei?
«Forse sono un po' troppo umile per questa professione, e sono un po' indeciso. Ma posso dire di avere anche una grande forza interiore».
Il primo anno interamente dedicato alla strada è stato positivo o negativo?
«Sicuramente positivo: ho fatto una bella Settimana Lombarda, dove correvo in casa, al Giro ho dato una mano a Honchar, e alla Bernocchi ho chiuso al nono posto, ma ero nel gruppo dei migliori e ho forato a 400 metri dall'arrivo: bella sfortuna!».
Cosa ti terrebbe in questo mondo e cosa ti riporterebbe invece alla mountain-bike?
«I soldi mi riporterebbero di là, ma correre qui dà più prestigio. In mb andavo abbastanza bene, qui invece sono uno dei tanti. E in più su strada c'è più stress, più pressione (da parte dei manager, che ti chiedono il risultato), e si corre di più, si è per tanti giorni in giro. Però voglio provare a vedere dove posso arrivare, penso di restare un altro anno. Se va male, pace, torno a fare il biker: ma non starò certo qui fino a 35 anni a cercare disperatamente un ingaggio».
La prendi molto serenamente. C'è invece chi paga la squadra per correre tra i pro'.
«Ah, quelli proprio non li capisco: pagare per faticare... Capisco la speranza di ottenere prima o poi il risultato che ti cambia la carriera, ma troppo spesso è una speranza che si rivela un'illusione».
Pagare per correre e doparsi. Due facce della stessa medaglia?
«Spero di no, anche se poi penso: se sono disposti a pagare per correre, cosa saranno pronti a fare per vincere? E purtroppo ci sono ancora troppi furbi in giro perché l'immagine del ciclismo possa cambiare, almeno per il momento».
Meglio il ciclismo di qualche tempo fa, quindi?
«Sarei portato a dire meglio oggi, rispetto a 5-6 anni fa, anche se all'epoca giravano più soldi. Ma rispetto a un passato più remoto forse c'è meno fascino, ci sono meno campioni. Gli ultimi due ciclisti di un altro livello in Italia, Pantani e Cipollini, sono agli sgoccioli, e non vedo chi possa affascinare le folle come loro. Forse, in prospettiva, Pozzato».
Andando in bicicletta c'è il tempo per seguire quello che succede nel mondo?
«Se uno si interessa, il tempo lo trova sempre. Io appena torno a casa dall'allenamento accendo subito la tv per guardare il telegiornale. Quando si è all'estero fatalmente si hanno meno contatti con la realtà italiana».
Ma perché i corridori fanno fatica a esporsi, a dire la loro, a prendere posizione rispetto a certe tematiche che vanno al di là del ciclismo?
«Non certo per disinteresse. Credo che i corridori più popolari preferiscano evitare critiche di sorta, e si tengano le loro idee per sé. Per quanto mi riguarda, non mi nascondo: fui favorevole, ad esempio, all'iniziativa di mettere sulla bici il fazzoletto bianco di Emergency, contro la guerra».
A livello di esperienza personale ti piacerebbe di più partecipare al Tour o conquistare la maglia azzurra?
«Il Tour, senza dubbio. Fare il Tour e soprattutto finirlo, arrivare a Parigi, agli Champs Elysées: che sogno!».
Hai un hobby, a parte la bici?
«Mi piace il calcio, ci giocavo. Se non mi fossi infortunato a un ginocchio non mi sarei spostato verso il ciclismo. Ma ero ancora piccolo, avevo 12 anni, non so dire se avrei fatto carriera col pallone».
Canti mentre pedali?
«No, mi alleno in compagnia e preferisco chiacchierare coi colleghi; ma la musica mi carica prima delle gare, magari canticchio il motivetto del momento».
Sei innamorato?
«Da 9 mesi ho la ragazza, stiamo bene insieme».
Ed ora, finita la stagione, te ne vai in vacanza?
«Purtroppo no, ho da pagarmi la casa».

Marco Grassi

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