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Siamo ancora in alto mare - Rinvio: nessuna decisione sul DNA

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A Ginevra s'è partorito uno scialbo zero a zero, inutile negarlo. Inutile negare anche il fatto che su questi lidi si tifasse per un vantaggio, magari timido, che i corridori dovevano essere bravi ad acquisire; anzi, più che bravi, fermi e compatti. La partita giocata da manager, avvocati, medici e corridori vivrà invece quantomeno un altro match, visto che le quattro ore di colloquio sviluppatesi all'interno dell'aeroporto elvetico sono servite solamente per confrontarsi, chiarire ognuno le proprie posizioni e, per fortuna, verificare se le decisioni quasi prese, e che si vogliono prendere, possano essere prese o meno.
Avevamo sentito Dario Cioni, uno dei membri – seppur supplente – del neonato Consiglio dei Corridori all'interno del CPA e ci eravamo promessi di risentirlo. E mai chiacchierata è stata più gradita, visto che il marasma e le contraddizioni del ciclismo, e dei ciclisti, continuano. Dopo Bettini, Pozzato e Valverde, e dopo il nostro articolo su Cioni (che si limitò a fornire le indicazioni del Consiglio e non sfociò in pareri personali), è toccato a Cunego, Gilbert, Voigt e Kohl. Diplomaticissimo – quasi sfiorando il ponziopilatismo – il primo, abbastanza confuso il secondo (che prima dice di attendere gli sviluppi di Operación Puerto prima di sbilanciarsi e poi punta il dito contro i contratti milionari offerti ai vari ciclisti indicati come coinvolti e si dice favorevole al DNA), aziendalista il terzo (che spara a zero su Basso, ex compagno di squadra che al Giro ha usufruito anche dei servigi del tedescone, e poi si dice contrario al DNA) e realista l'austriaco, che dichiara che il processo sportivo e mediatico intrapreso verso corridori che contro di loro hanno soltanto voci e congetture è un attentato psicologico.
Ci sta avere opinioni diverse, per carità, ma il problema principale è che Gilbert e Voigt, come Pozzato e Cioni, sono parte dello stesso Consiglio dei Corridori; si nota come le differenze siano palesi, come non ci sia omogeneità partendo proprio dalle basi. Pozzato e Voigt sono contro il test del DNA (e Cioni ce lo aveva detto), mentre Gilbert (che si accomuna a Vasseur, altro membro del Consiglio) è più che disposto a fare il test.
A volerci capire qualcosa si rischia, come minimo, la pazzia.
Andiamo a fondo, però, perché abbiamo bisogno di capire chi è che sta giocando questo match e, soprattutto, abbiamo bisogno di capire da chi sono difesi e tutelati i diritti degli appassionati (di sognare, di assistere a manifestazioni credibili, di tifare, di discutere).
A Ginevra c'erano molte persone, e finalmente manager e UCI hanno fatto partecipare a questa tavola rotonda i corridori, ed anche medici e avvocati. Il tema, difatti, è delicato. Abbiamo visto come Ingrillì e Besnati – un avvocato e un medico – avessero palesato l'inapplicabilità del test del DNA, viste le normative vigenti sul lavoro, sulla privacy e sull'uguaglianza degli sport. I medici presenti rispondono al nome di Mario Zorzoli e Anne Greiper, dello staff medico dell'UCI; gli avvocati rispondono al nome di Philippe Verbiest e Rocco Taminelli, rispettivamente rappresentanti legali dell'UCI e del CPA. Gli altri presenti erano Alain Rumpf (manager UCI delegato al Pro Tour), il segretario del CPA Daniel Malbranque e la coppia Quick Step-Innergetic formata da Patrick Lefévère (presidente AIGCP) e Cédric Vasseur (membro Consiglio dei Corridori).
Oggi, come promesso, abbiamo risentito Dario David Cioni.

Che vi ha detto Vasseur? Qual è stato il riporto del francese verso voi altri membri del Consiglio?
«Sinceramente devo dire che Vasseur ancora non ha mandato alcun verbale dell'incontro di Ginevra, né ne ha mandato uno Malbranque. Noi membri quindi stiamo ancora attendendo il resoconto ufficiale, anche se da chiacchierate informali s'è capito come l'incontro avvenuto sia stato solamente un primo passo».
Un primo passo verso cosa?
«Innanzitutto verso la legalità delle scelte intraprese dall'UCI e dai Gruppi Sportivi. La presenza di avvocati è stata utilissima proprio perché questi ultimi hanno manifestato l'evidente impossibilità della proposta effettuata, soprattutto in alcuni Paesi con certe legislature. In pratica, qualunque corridore decidesse – nel caso passasse la decisione del test del DNA obbligatorio – di non farlo e di denunciare il fatto a qualsiasi tribunale del lavoro, vincerebbe la causa».
Moser, Voigt e Rubiera erano in vacanza?
«In questo periodo dell'anno è sempre difficile trovare tutti disponibili. Si fanno le vacanze, si sta con la famiglia, ci può stare il non essere disponibili».
Hai letto le dichiarazioni di Gilbert e Voigt, tuoi colleghi nel Consiglio dei Corridori?
«Non le ho lette personalmente, ma me le hanno riportate. Credo che a titolo personale tutti possano dire quello che credono, nel limite del consentito. Si tratta di opinioni».
Non è strano che Voigt, da pochissimo ex compagno di squadra di Basso, gli spari contro?
«Il fatto è che qualcuno è rimasto scottato dal comportamento di Bruyneel, che non è stato coerente. Tutti i gruppi sportivi del Pro Tour, qualche tempo fa, si erano accordati per non tesserare i corridori coinvolti in Operación Puerto. Invece Bruyneel ha fatto di testa sua».
Evidentemente s'è accodato alla decisione della procura antidoping del Coni, che ha archiviato, seppur con riserve, il caso di Basso.
«Il problema è che in Belgio, ad esempio, rimproverano al tecnico della Discovery di aver taciuto, al momento dell'incontro tra tutti i gruppi sportivi del Pro Tour, la propria intenzione di tesserare Basso. Anche se non c'era direttamente lui all'incontro, ma un suo rappresentante, quest'ultimo avrebbe dovuto dire che la propria squadra non era d'accordo con la scelta degli altri gruppi sportivi del Pro Tour. E poi sarebbe il caso che dalla Spagna, seppur gli atleti non interessino alla Magistratura spagnola, si facesse luce sul coinvolgimento di tutti gli sportivi. Invece il giudice spagnolo sta tirando le cose per le lunghe».
Perché voi corridori non chiedete all'UCI di far sì che i controlli antidoping siano eseguiti da un ente indipendente?
«Questo già accade. C'è la WADA che vigila sull'operato dell'UCI. Credo che sia impossibile che l'UCI possa manomettere in qualsiasi modo un test dell'antidoping. Anche perché i controlli sono sempre fatti in collaborazione con la federazione dello Stato in cui si corre in una determinata corsa. C'è una strettissima collaborazione tra UCI e FCI, ad esempio, durante il Giro d'Italia».
E allora bisogna ammettere che non funzionano, se è vero che il Basso messo alla gogna dall'UCI da fine giugno 2006 fu insignito, con Boonen, del titolo di "atleta esempio" per costanza di valori non più di 6 mesi prima.
«I controlli ci sono, sono completi e mi sembra siano fatti sempre con minuzia. Purtroppo certe pratiche, come quelle paventate da Operación Puerto, sono complesse da trovare con l'antidoping attuale».
Si potrebbero monitorare i valori.
«Sì, sono d'accordo, e difatti è stata un'intuizione felice quella di comprendere i gruppi sportivi all'interno delle sanzioni disciplinari. Difatti il medico sociale del team è colui che potrebbe applicare più facilmente dei controlli di monitoraggio di alcuni valori che, se sballati in maniera "strana", possono significare qualche pratica non proprio lecita da parte dell'atleta. La prevenzione credo sia sempre il miglior metodo».
Prima ci hai detto che durante le corse i controlli antidoping sono in cooperazione tra UCI e federazioni nazionali. Perché allora Operación Puerto è stata vissuta in maniera diametralmente opposta dall'Unione Ciclistica Internazionale, che ha puntato subito il dito contro gli atleti, e dalla Federazione Ciclistica Italiana, o Spagnola, ad esempio, che hanno difeso i propri tesserati?
«L'UCI ha applicato il Codice Etico del Pro Tour con i corridori che erano parte di quel circuito. Non penso che, visti gli accordi presi, potesse fare altrimenti. È anche vero che dall'altra parte una federazione come quella italiana si sta battendo contro il Pro Tour perché questo circuito le ha tolto qualche corsa dal calendario e gli sponsor medi che prima investivano nel ciclismo per avere la visibilità del Giro d'Italia oggi non ci sono più. Qui entriamo in politica e i giochi politici sono un campo minato».
Torniamo al punto di prima: non vi darebbe più tranquillità sapere che l'antidoping è gestito da un ente indipendente sovvenzionato da tutte le parti del ciclismo (corridori, organizzatori, UCI, federazioni, gruppi sportivi), visto che alla fine i terminali negativi di questi giochi politici siete sempre e solo voi corridori?
«Potenzialmente sì, ma non credo che il problema dell'antidoping sia la parzialità degli esiti dei controlli. Mi spiego: sulle provette sono applicati dei codici, non dei nomi, quindi quando un laboratorio qualsiasi riceve le provette da analizzare non sa né di chi siano, né da quale sport provengano. Entrambi gli enti, UCI e federazioni nazionali, controllano queste prassi; e poi c'è la supervisione della WADA, non lo dimentichiamo».
E allora il problema qual è?
«Il problema è che in tanti Stati non c'è legge antidoping, e quello che in Italia è reato altrove non lo è. È differente quindi la percezione del rischio. In Italia si rischia il carcere, altrove una squalifica sportiva. E poi ci sono situazioni complesse come quella del DNA: le norme vigenti di alcuni Paesi non lo prevedono come test necessario ad un contratto lavorativo. Non si può quindi continuare ad accentuare le differenze tra stati con leggi antidoping e Stati che non le hanno. Se Operación Puerto fosse stata italiana forse quel test sarebbe già stato fatto, invece in Spagna non è successo. Si dovrebbe raggiungere una maggiore omogeneità tra le leggi delle varie nazioni, per quanto riguarda l'antidoping».
Perché ai corridori viene posto il paletto del DNA mentre ai team manager, come Manolo Saiz, viene semplicemente richiesta una verifica delle finanze? Bastone e carota?
«Il problema viene sempre dalla Spagna, sia per i corridori, sia per Manolo. Il giudice non permette alle federazioni di utilizzare quanto emerso per sanzionare con la giustizia sportiva i più o meno colpevoli. L'UCI non voleva concedere di nuovo la licenza Pro Tour a Manolo Saiz, ma s'è trovata costretta a farlo. Fortunatamente col nuovo Codice Etico che prevede sanzioni anche per i team situazioni come questa si eviteranno. Infatti dal secondo problema di doping anche la squadra inizia a fermarsi, mentre al quarto (mi pare) problema di doping in un anno alla squadra viene revocata la licenza Pro Tour. Una sanzione pesantissima perché non solo sportiva, ma economica. Secondo me è un fattore importantissimo».
Poi come continuiamo? Come ridiamo credibilità a questo sport?
«Continuiamo evitando figure come quella rimediata con la cattiva gestione di Operación Puerto. Una cattiva gestione a tutti i livelli, sia dirigenziale sia giornalistica. È stato un danno per tutte le parti, un danno enorme. È stato sbagliato andare a cercare i coinvolti senza avere certezze, ed è stato sbagliatissimo rivelare i nomi di questi presunti implicati rovinando loro quantomeno mezza stagione lavorativa. Solo nel ciclismo è successo questo, mentre negli altri sport si sa di un coinvolgimento di qualcuno, ma non di chi. Questo doveva avvenire anche nel ciclismo. Nessun nome senza certezze».
E con le sospensioni per gli indagati come la mettiamo?
«Questo è un altro piccolo grande dettaglio, a cui speriamo di arrivare dopo aver sistemato gli altri scogli più grandi. È ovviamente impensabile che un ciclista possa star fuori per tutta la durata di un processo, visto i tempi – almeno in Italia – della giustizia ordinaria. Non oso pensare cosa sarebbe successo con questo Codice Etico ai tempi del Giro d'Italia 2001, col blitz dei Nas a Sanremo: le sospensioni lunghe anni non hanno senso. Per questo sarebbe ottimo istituire un Comitato composto da tutte le parti del ciclismo professionistico, compresi noi corridori, che possa valutare caso per caso, a seconda delle gravità».
A quando il prossimo incontro tra le parti?
«La data precisa ancora non è stata stabilita, anche perché si aspettano i resoconti dei legali per quanto riguarda il diritto al lavoro, la tutela della privacy ed altre normative regolamentari che sono tutelate dal Diritto Internazionale. Credo sia inutile disporre di regole se il diritto dei singoli Stati non consente la loro attuazione».
Ci risentiamo dopo il secondo round?
«Promesso».

Mario Casaldi

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