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Generazione perduta - Guai a dimenticare il doping | Cicloweb

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Generazione perduta - Guai a dimenticare il doping

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Il Giro si avvia a vivere la sua fase finale, e per fortuna le vicende giudiziarie cedono per qualche giorno il passo a quelle puramente sportive. Sarebbe bello se potesse essere sempre così, ma l'esperienza ci insegna che prima o dopo saremo nuovamente travolti da qualche altro scandalo: la curiosità sta solo nell'indovinare quando, o nel prevedere chi sarà il prossimo campione a cadere nella rete.
Non diciamo queste cose per disfattismo o per il gusto di gettare fango su uno sport che amiamo visceralmente; no, parliamo spinti da puro realismo. Dopo il caso Garzelli, ecco l'intricata spy-story che ha per protagonista Gilberto Simoni: questa positività alla cocaina che sembra non stare né in cielo né in terra. Ma ce lo vedete voi Simoni intento a sniffare, tra una corsa e l'altra, così, giusto per ammazzare il tempo? Improbabile, per non dire impossibile. Ma allora dov'è l'errore?
Ci sarebbe piaciuto credere alla teoria dell'anestetico (per i tre che non la sapessero: Simoni andò dal dentista il 24 aprile, il giorno del controllo a sorpresa dell'Uci, e il medico gli praticò un'anestesia locale con dei prodotti che - si è detto - potevano dare positività alla cocaina; ma questa tesi è poi del tutto tramontata); poi, venuta meno l'ipotesi della distrazione dal dentista, ecco venire fuori una nuova storia balzana: ad essere incriminato stavolta è il tè della zia, contenente chissà quali esotici principi attivi.
Abbiamo riso quando i calciatori positivi al nandrolone accusavano le bistecche o addirittura gli shampoo, rei - a loro dire - di averli inconsapevolmente dopati. Perciò non biasimateci se ridiamo anche adesso, amaramente, perché se ci fa enorme fatica pensare a un Simoni cocainomane, ce ne fa molto meno immaginare altre cose, altre pratiche di chissà che tipo. Purtroppo scopriamo di saperne sempre meno, mentre i corridori che in un modo o nell'altro vengono colti in fallo hanno sempre una scusa pronta. Se non altro dimostrano una grande fantasia.
Il voler puntualizzare ancora sul doping mentre chiunque (a partire da noi, ve lo assicuriamo) vorrebbe concentrarsi soltanto sulla volata rosa, nasce anche dall'aver riflettuto, a freddo, sulla totale incapacità del mondo del ciclismo di aprire gli occhi: abbiamo sentito Giancarlo Ferretti, decano dell'ammiraglia che più volte ha avuto a che fare con propri atleti implicati in brutti giri, esprimere il proprio disagio e chiedere "chiarezza". Chiarezza, "regole certe una volta per tutte". Ma come! Ma non lo sa Ferretti, dall'alto della sua esperienza, che le regole ci sono e sono anche piuttosto certe e severe? Ma perché ogni volta che c'è un caso eclatante, la voce più alta che si leva dall'ambiente è quella che invoca chiarezza? Diciamolo una volta per tutte: sotto sotto la chiarezza che piacerebbe a tutti (o quasi) gli esponenti del movimento è una sola: certezza di impunità, assicurazione che la si farà franca, conoscenza dei tempi e dei modi dei controlli a sorpresa. In ultima analisi, chiarezza anche nei traffici di medici e preparatori vari: perché è piuttosto seccante essere beccati all'antidoping solo per un errore di calcolo (del tipo: quanti giorni ci vogliono per smaltire quella data sostanza).
E tra le altre tante (troppe) condanne e dichiarazioni di intenti, un'altra ci ha fatto sobbalzare: la netta presa di posizione di Francesco Moser, presidente internazionale dei corridori, che ha sostenuto la necessarietà della radiazione per i ciclisti dopati (e recidivi). Da chiunque altro avremmo potuto accettare tale richiesta, ma non da Moser; cioé dall'uomo che è stato il precursore del doping moderno, colui che ha aperto la strada a pratiche devastanti tuttora largamente diffuse. Intorno al 1984 il trentino si sottopose alle cure del professor Conconi (sì, proprio quello attualmente sotto processo a Ferrara per frode sportiva; quello che è stato il maestro di quell'apologeta del doping che risponde al nome di Giovanni Ferrari), e come per incanto vinse la Milano-Sanremo e poi il Giro d'Italia (a 34 anni) e poi fece anche svariati record dell'ora. E non è che fossero solo le ruote lenticolari, all'epoca innovazione tecnica del momento, a spingerlo in tali imprese: no, Moser praticò autoemotrasfusioni per ossigenarsi il sangue e avere maggior resistenza agli sforzi (ciò che oggi si fa più facilmente con l'Epo), e poi fece da cavia per chissà quali altre stregonerie. Ma all'epoca tali pratiche non erano vietate, si obietterà: vero, ma non sempre è la legge a stabilire il confine tra lecito e illecito, tanto più che poi, in effetti, le regole cambiarono in senso proibizionista. Quindi, se fossimo in Moser, ci penseremmo un attimo prima di fare la voce grossa e ricorderemmo gli scheletri nell'armadio: perché quando ci si vuole travestire da santi è molto più facile passare da ipocriti.

Marco Grassi

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