Tour de France 2015: Froome e La leggenda del Re Infelice - Gli insulti, il mancato riconoscimento, la paura verso un ciclista diverso
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Di campioni non amati, o comunque non sopportati da frange di tifosi, la storia del ciclismo è piena. Ricordiamo le tensioni del Tour 1950, quando la nazionale italiana si ritirò dopo che Bartali fu insultato e aggredito sul Col d'Aspin, ricordiamo le divisioni tra tifosi di Moser e tifosi di Saronni negli anni '80, e gli insulti presi da entrambi i gruppi da Visentini, reo di essere figlio di papà e anche poco simpatico. Poi, dagli anni zero in poi sono cominciate le persecuzioni a sfondo-doping, con simpaticoni vestiti in maniera ridicola e/o armeggianti siringhe di gomma a inseguire i vari Armstrong, Contador di turno. Il Tour de France 2015 segna un ulteriore step, (d)evoluzione dei fatti recenti: la denigrazione in corsa della maglia gialla, Chris Froome, reo per molti di non essere un campione. Già, ma cosa rende Froome diverso dai suoi predecessori? Si direbbe che il fenomeno meriti una digressione più approfondita.
Il preludio, ovvero: come non rendersi simpatici
Va detto subito una cosa: Chris Froome, ma soprattutto il team Sky nella sua interezza, non ha fatto granché per accattivarsi le simpatie del pubblico, francese e non. Già da anni il team persegue una politica discutibile di transennamento della zona pullman con vere e proprie barriere, che spengono l'entusiasmo della gente che si accalca alla partenza di una qualunque corsa per strappare l'autografo di un suo beniamino. Dopodiché, a questo Tour si sono presentati con una carovana mezzi talmente lunga da spaventare pure i camionisti di Convoy-Trincea d'Asfalto, ed han messo in seria difficoltà l'organizzazione, visto che coi loro motorhome occupavano troppo spazio e pretendevano di far spostare i mezzi altrui. Ne sono seguite liti, con l'entourage dell'Europcar e della LottoNL in particolare, che hanno contribuito a creare un clima non positivo tra i rivali ed il team Sky.
La rivalità con Vincenzo Nibali
È ormai arcinoto che Froome e Nibali non si amino, ma questo Tour de France non ha fatto che peggiorare l'acredine che c'è tra i due, partita con una serie di frecciatine non dirette in tema doping nei scorsi mesi. La "simpatia" che Nibali ha verso questo corridore è confermata dalla caduta di Le Havre, dove Vincenzo, convinto della colpa dell'anglo-kenyota in un primo momento, lo cerca e gli rifila parole non dolci, poi scusandosi. "Pareggia" Froome lamentando l'attacco della Croix de Fer come una scorrettezza. Insomma, un paio di scivoloni per entrambi, segno di una certa prevenzione reciproca.
Il perverso potere della televisione
Ora, apriamo una parentesi. Chi parla in televisione e ha un folto seguito, dovrebbe stare molto attento a quello che dice, è uno dei fondamenti della sociologia. Da decenni, in particolar modo in Italia, le formazioni politiche sfruttano l'influenza della televisione sulla gente per orientare le azioni degli elettori. Un esempio? C'è un signore che da mesi va in tv ogni giorno a tutte le ore raccontando in ogni salsa che siamo vittima di un'invasione, e che dobbiamo difenderci: i risultati si sono visti la scorsa settimana a Quinto di Treviso.
La querelle Froome-Jalabert
Tornando al Tour de France, anche se chi commenta un Tour non ha interesse, almeno apparente, a manipolare il volere dei telespettatori (che non sia quello di aumentare gli ascolti), ha comunque il suo manipolo di accoliti che tramite i social network amplificherà il pensiero del cronista facendolo arrivare ovunque. E se il commentatore in questione è Laurent Jalabert, ossia uno dei ciclisti francesi più importanti degli anni '90, si può immaginare quanto la sua influenza sia forte sui tifosi. La frase incriminata è: «Mi sento a disagio a commentare uno che sale con tanta facilità, considerando quanta fatica fanno tutti gli altri», formulata durante la scalata a La Pierre-Saint-Martin. E il giorno dopo ribadisce: «è sconcertante vedere Froome voltarsi e allungare tranquillamente mentre gli altri sono letteralmente piantati». Tali parole, confermate dai contributi in cronaca di altre due vecchie glorie come Cédric Vasseur e Jacky Durand e biasimate con veemenza dallo stesso Froome, son state la miccia che ha scatenato la reazione violenta del pubblico.
E cominciano gli attacchi: dall'urina agli sputi
Il primo evento increscioso avviene nella Rodez - Mende, quando nelle prime fasi della tappa un uomo a bordo strada gli tira addosso dell'urina. Sulle Alpi avviene anche di peggio: sputi in almeno due circostanze e persino un goffo gesto dell'ombrello, rifilato in faccia da un anziano spettatore sabato sulla Croix de Fer. Alla fine Froome si troverà a schivare più attacchi dai tifosi che dagli avversari: una denigrazione che mai nessuna maglia gialla aveva subito, forse neanche Bartali 55 anni fa. Viene da chiedersi il perché di tutto questo.
Froome e la paura del diverso
Al netto degli attacchi e degli atteggiamenti, il fenomeno Froome ha un fattore scatenante che ha radici molto profonde nell'animo umano: la paura del diverso. Froome è diverso, nessuno è stato come lui prima e nessuno sarà come lui dopo. E per il mondo del ciclismo, che è chiuso e provinciale per larghe fette del suo raggio d'azione (specialmente in Francia, ed in Italia), uno in rottura con la tradizione come Froome è inconcepibile. È inconcepibile che arrivi a vincere il Tour de France uno che fino ai 20 anni praticamente non sapeva andare in bicicletta, ed ha cominciato a correre in Kenya, praticamente pagandosi per conto suo la trasferta ai mondiali (dove centrò un giudice di gara, tra l'altro, nella cronometro del 2006 a Salisburgo), e non a Conegliano, o a Mastromarco, o a Chambery cominciando dai G1. È inconcepibile essere così brutti in bicicletta e così potenti, inconcepibile esser forti con quelle braccia lunghe da alieno (che ha sempre avuto, per inciso), è inconcepibile raggiungere le vette del ciclismo dopo esser passati da un morbo pesante come la bilharzosi e soprattutto è inconcepibile scattare in salita frullando sui pedali a una frequenza altissima: un chiaro indice di doping, meccanico o biologico che sia.
Ma Froome nei fatti non è "diverso"
Ma ci sono prove concrete per affermare che Froome non fa quello che fanno tutti? No, effettivamente. Per i motorini ci sono stati controlli a iosa, e l'ipotesi delle "frullate" facilitate dal doping meccanico dovrebbe ormai essere messa da parte. E su quello biologico, non ci sono elementi per dire che i rivali viaggino con benzine di inferiore qualità (il termine "pulito" su questi lidi non lo useremo mai; sono 10 anni che cerchiamo di spiegarvi che non esistono forme di professionismo pulite al 100%, né in questo sport né in altri). C'è sicuramente un lavoro tecnico differente, a livello di team (che ha fatto una prima settimana fortissima e altre 2 mediocri, volutamente), ma soprattutto a livello individuale.
Le parole, non ascoltate, di Claudio Corti
La chiave per comprendere cosa è Froome è capire cosa è stato. Un passaggio fondamentale della sua vita è stato Claudio Corti, che lo volle professionista alla Barloworld nel 2008 dopo averlo visto correre in Sudafrica. Corti descrive Froome come "tutto da costruire" e dalle "idee straordinariamente chiare": un tratto d'unione tra diversi campioni moderni, come Contador, o Aru. Già rigoroso sull'alimentazione, viveva da solo (una prima idea di Motorhome?) e soprattutto aveva già la sua caratteristica pedalata agilissima. Un Froome non tanto diverso da quello attuale, se non per il fatto che ora è vincente. E che dovrà animarsi di santa pazienza e lavorare anche un po' sul suo rapporto verso il pubblico, se vorrà vincere un terzo Tour de France ricevendo il rispetto che merita.