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Tour de France 2015: Conferme, smentite e meno show del previsto - Bilancio di una Grande Boucle un po' al di sotto delle fortissime attese. Vincitori, vinti e... Nibali

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Il podio finale del Tour de France 2015 con Chris Froome primo, Nairo Quintana secondo e Alejandro Valverde terzo © Bettiniphoto

Il Tour de France delle montagne, il Tour de France dei Big Four, il Tour de France del grande spettacolo annunciato su tutti i terreni, il Tour de France che doveva fungere (e fungerà senz'altro) da pietra angolare di quest'epoca del ciclismo, il Tour de France del passaggio di consegne tra la generazione dei Boys '80 (i Contador) e quella dei Kids '90 (i Quintana), finito con la consapevolezza che quelli dell'età di mezzo - Chris Froome è del 1985 - tengono botta eccome. La tengono al punto di vincere dominando a tratti, anche se un po' soffrendo.

 

Meno spettacolo di quanto si sperava
È stato un Tour all'altezza delle aspettative? No, onestamente. A giudicare dal percorso, dalla startlist e da quanto accaduto il secondo giorno in Zelanda (ventagli e classifica subito sconvolta) ci saremmo aspettati più fuoco e più fiamme. Invece, a parte il fuoco e le fiamme di un clima sin troppo caldo e soleggiato, non abbiamo avuto tutto lo spettacolo che volevamo. Il pavé, attesissimo come il primo redde rationem della corsa, è trascorso senza grossi sussulti: era più facile rispetto al 2014, e stavolta non è piovuto, quindi nessuno è riuscito a fare la differenza, e tutti si sono più o meno salvati.

I Pirenei, dopo la botta assassina di Chris Froome a La Pierre-Saint-Martin, non hanno offerto quasi nulla se non attendismo e braccino da parte di chi doveva provare a mettere in difficoltà il britannico: ma è anche comprensibile che a qualcuno le gambe si siano fatte molli in seguito alla mazzata del capitano Sky, impresa che ha avuto l'effetto di narcotizzare per qualche giorno la corsa.

Sulle Alpi, poi, le cose sono andate diversamente: lo spettacolo non è mancato, vuoi perché le tappe erano disegnate un po' meglio rispetto a quelle pirenaiche, vuoi perché le salite erano un po' più dure e selettive, vuoi perché con l'avvicinarsi della fine del Tour chi voleva attaccare doveva per forza muoversi, non potendo più rinviare troppo. Nonostante ciò, c'è stato chi ha lo stesso rimandato  finché gli è stato possibile, col risultato di tornare a casa, stasera, con una valigia carica di rimpianti (Nairo Quintana). Mentre, invece, tra chi avrebbe voluto attaccare ma non ha avuto le gambe giuste per farlo (Alberto Contador), chi correva in difesa (la maglia gialla, i Movistar) e chi cercava la fuga per rientrare in classifica, l'unico che abbia perseguito un risultato importante nella generale attraverso la via dell'assalto ragionato è stato Vincenzo Nibali, autore di un finale di Tour splendido, in crescendo, finito purtroppo in un pesante scontro tra lo Squalo e la sfortuna, materializzatasi in forma di foratura proprio ai piedi dell'Alpe d'Huez. E in casi del genere, davvero, non c'è tantissimo che uno possa fare per rimediare.

 

Nibali dai conflitti esistenziali a una nuova consapevolezza
Vincenzo Nibali ha portato in giro per la Francia il numero 1 di campione uscente del Tour, oltre che la maglia tricolore di Campione Italiano. Quella che l'anno scorso aveva subito coperto con la maglia gialla, e che quest'anno è invece rimasta in bella mostra da Utrecht a Parigi.

La prima metà di Boucle è stata a dir poco disastrosa per lo Squalo: tempo perso tra ventagli e cadute, bottarelle sul fisico ma ancor più sul morale, un pavé che non ha dato i frutti sperati, e poi l'abisso di La Pierre-Saint-Martin, dopo cui il ritiro sembrava a un passo; lì, in mezzo ai Pirenei, chi avrebbe scommesso su un prepotente ritorno in auge del messinese?

E invece, dopo essere stato ripetutamente scudisciato dal team manager Alexandre Vinokourov in pubblico, Vincenzo ha pescato dall'orgoglio (di cui dispone in gran quantità) la capacità di reagire, di risalire passetto dopo passetto, di dimostrare a tutti i rivali di poter tranquillamente sedere al tavolo dei grandi, fino all'impresa importantissima di La Toussuire.

Una vittoria di tappa in capo a uno splendido attacco di quasi 60 km che gli rende la convinzione che da un anno veniva minata dalle solite domande, diventate tormentoni, anzi veri e propri tormenti per il 30enne siculo: se Froome e Contador non si fossero ritirati 12 mesi fa, quel dannato Tour 2014 l'avrebbe vinto lo stesso? Oggi Vincenzo può dire con grande ragionevolezza: "Sì, l'avrei vinto lo stesso".

La sua capacità di ribaltare situazioni apparentemente compromesse è giunta a sublimazione proprio a La Toussuire, con quel volo grazie a cui si è proiettato a un passo dal podio. Quel giorno non ce n'era per nessuno, e siccome un grande giro non è solo "prestazione eccellente su salita secca", ma è fatto di tante componenti, è tutto da dimostrare che valga di più il picco assoluto di un Froome sulla rampa di La Pierre, piuttosto che un attacco magistrale come quello di Nibali sulle Alpi.

Purtroppo l'assalto al podio è fallito a causa della citata foratura all'inizio dell'Alpe. Non avesse avuto quel problema meccanico, il capitano dell'Astana ci avrebbe provato eccome, a ribaltare Valverde; e probabilmente la sua presenza tra i migliori avrebbe anche inciso favorevolmente sul tentativo di Quintana di scavalcare Froome (quanto maggiore è l'anarchia della situazione, tantopiù scendono le quotazioni di Chris).

Ma non importa. Anche se dispiace dover mettere a referto il primo GT chiuso fuori dal podio da Vincenzo dalla Vuelta 2011 a oggi (da allora: terzo al Tour 2012, primo al Giro 2013, secondo alla Vuelta 2013, primo al Tour 2014), quel che più conta è che il ragazzo abbia preso definitivamente coscienza della sua caratura. Per questo diciamo che esce rafforzato da questo Tour.

 

I rapporti di forza tra i big
Alla vigilia della Boucle si parlava di 4 favoriti che erano una spanna su tutti gli altri. Effettivamente, per una volta, non ci sono state cadute o contrattempi vari che abbiano estromesso qualcuno dei big, e i 4 sono tutti finiti in top five. Froome-Quintana primo e secondo, poi Alejandro Valverde è stato bravissimo (al di là di tutte le valutazioni sul suo modo di correre) a inserirsi al terzo posto (primo podio al Tour nella sua carriera, un risultato inseguito da almeno 10 anni!), quindi Nibali-Contador quarto e quinto. Per inciso, è la prima volta nella storia che una top five del Tour è composta interamente da corridori già vincitori di GT.

Queste tre settimane ci hanno ribadito alcune cose che sapevamo bene: in particolare, che Froome è fortissimo, il numero uno al mondo, sulla prestazione concentrata su salita secca; una situazione di gara in cui il britannico è capace di dare legnate paurose, e di fatto quella che gli ha permesso di vincere il Tour (la stracitata tappa di La Pierre-Saint-Martin).

Altro elemento noto e di cui abbiamo avuto conferma: non esiste, a questi livelli, un corridore che abbia la fantasia e il coraggio di osare di Vincenzo Nibali; di La Toussuire abbiamo già ampiamente scritto, non occorre approfondire ulteriormente.

Terzo elemento noto: la Movistar è una squadra sontuosa ma che a tratti rappresenta una iattura per lo spettacolo. La tendenza sparagnina del team manager Eusebio Unzué, unita a quella del dominus Alejandro Valverde, partorisce mostri tattici. Nairo Quintana, se solo fosse stato esortato a (o lasciato libero di) osare maggiormente, avrebbe probabilmente portato a casa il Tour. Se ne sono accorti un po' tardi, solo sulla salita di La Toussuire, eppure era chiaro a tanti (non a loro, evidentemente) che Froome poteva essere messo in difficoltà sparigliando e sorprendendolo. Portarlo sull'ultima salita, magari anche tirando al posto della sua squadra, era il favore migliore che gli si potesse fare: la Movistar, praticamente sempre tranne che nella tappa dell'Alpe d'Huez, ha fatto esattamente questo, andando a frustrare anche gli altrui tentativi dalla distanza (di Contador, di Nibali). Saranno contenti di aver messo due corridori sul podio, i maggiorenti del sodalizio spagnolo, ma l'unico - piccolo - particolare che dovrebbero tenere a mente è che è loro sfuggito il posto di mezzo, su quel podio; e quel posto era alla loro portata.

 

Le conferme di quello che si sospettava
Insieme agli elementi noti e che sono stati suffragati dal Tour 2015, ne emergono degli altri sui quali - diciamo - avevamo dei sospetti e che ora vengono confermati in pieno.

Per esempio, sospettavamo che Nairo Quintana fosse lo scalatore più forte al mondo, e oggi ne abbiamo riscontro: in montagna il colombiano ha guadagnato rispetto a Froome (e quindi rispetto a tutti gli altri). Per quelli a cui non basta l'evidenza delle prestazioni, che la dice lunga sulla maggiore attitudine di Nairo nelle tappe più da scalatori da GT (ovvero quelle con più salite consecutive), viene in soccorso l'aritmetica: nelle ultime due frazioni alpine Quintana ha riguadagnato quasi due minuti (1'58" per la precisione, abbuoni compresi); Froome gliene aveva presi 1'10" a La Pierre (sempre abbuoni compresi).

Il grosso del decisivo distacco del colombiano rispetto al britannico è venuto nelle crono (11" a Utrecht, 3" a Plumelec), su rampe come Huy (17") o Mende (1"), e soprattutto nella tappa dei ventagli in Zelande: 1'28". Tanto che qualcuno, argutamente, sostiene sui social network che è la prima volta che un corridore vince un Tour in Olanda...

La seconda cosa che sospettavamo e che ci viene confermata è che i francesi della nouvelle vague sono bravi ma non hanno ancora la maturità necessaria per vincere il Tour. Nonostante i due terzi di podio del 2014 potessero suggerire altro, i vari Pinot, Bardet, Rolland, Barguil hanno dimostrato carattere (alternato a passaggi a vuoto) e capacità di incidere, ma non ancora la tenuta sulle tre settimane necessaria per riportare la Grande Boucle a casa, a 30 anni da Hinault. Qualcosa ci dice che anche nel 2016 - a meno di clamorosi colpi di scena - i simpatici francesini resteranno ai margini della lotta per la vittoria, anche se è legittimo attendersi da loro un buon passo in avanti. Nel 2017-2018, chissà, i tempi per qualche galletto potrebbero diventare maturi.

Infine, la terza conferma che ci arriva è quella che forse meno ci auguravamo, per il bene del ciclismo: ovvero che la doppietta Giro-Tour non è impossibile, ma quasi. Alberto Contador la manca per poco meno di 10' (9'48" il suo distacco finale da Froome). Chiude primo al Giro e quinto al Tour, esattamente come l'altra volta che ci provò, nel 2011. Ma allora si trovò un po' a improvvisare, stavolta invece ha preparato il doppio appuntamento; e l'esito è identico. Certo, si potrà dire che non è che sia stato un Contador scintillante, né al Giro (dove non ha vinto neanche una tappa e ha chiuso in difesa) né tantomeno al Tour (troppo farraginoso, sempre un passo dietro ai più forti), e quindi forse chissà, l'età, una brillantezza che non è più quella dei giorni migliori... resta il fatto che a giudicare dagli esiti, non è che ci si senta incoraggiati a tentare la doppietta. Nibali potrebbe provarci nel 2016? Vedremo... O Quintana? Forse Nairo avrebbe qualche chance in più (a patto che il percorso sia abbastanza montagnoso), ma ricordiamoci che milita nella Movistar, una squadra in cui l'azzardo è vietato per statuto, come accennavamo più su. L'unica certezza è che il riscontro, il punto fermo, resta sempre quello: Pantani 1998. L'ultimo a riuscirci. L'ultimo dei giganti.

 

I problemi: il doping urlato, i tifosi sciamannati
Ammettiamo che il Team Sky non faccia tutto quanto è in suo potere per cercare almeno un piazzamento nella classifica della simpatia a squadre; tra esibizione di milioni, carovana mezzi infinita, una certa qual prepotenza (qui parcheggiamo noi e voi ve ne andate a quel paese), atteggiamenti propri di chi è convinto di aver inventato il ciclismo... ammettiamo pure che l'appassionato medio fatichi a capire alcune prestazioni che invece sono facilmente spiegabili con i dettami della preparazione moderna (del tipo: com'è che Richie Porte al Giro era una ciofeca e invece al Tour ha dato più di una salvata a Froome?); e che fatichi a capire determinate evoluzioni della specie (ovvero: ma un pistard com'era Wiggins e com'era Geraint Thomas come può un bel giorno andare a lottare per vincere la Boucle - e magari vincerla proprio, come fece Sir Brad?), ignaro del fatto che un inseguitore su pista non ha le stesse caratteristiche di un velocista, e che se uno va forte in assenza di montagne (in pista non ce ne sono) non vuol dire che non possa scoprire di andar bene laddove le trovasse (altrimenti non avremmo mai avuto scalatori olandesi o belgi, no?).

Ammettiamo tutto questo. Ammettiamo pure due altre cose: che alcune frullate di Froome possano avere un'apparenza di irrealtà, per il modo di erompere totalmente scomposto e fuori dai canoni. Troppo forti, "non si può pedalare così!". Poi chi dice ciò non si sofferma sul fatto che tali frullate non durano che pochi secondi, e che la maniera di pedalare di Chris è fatta proprio di furenti esplosioni che faticano a trovare una vera continuità. Insomma, anche qui: ci si lascia spesso traviare dall'impatto emotivo che un'azione dà, piuttosto che approfondire un po'.

La seconda altra cosa da ammettere è che il pubblico del ciclismo è più che scottato da due decenni di scandali e scandaletti, di vicende US Postal e conclamati casi di doping di squadra, quindi è normalmente molto più diffidente della media degli appassionati di altri sport (non è qui il momento di analizzare se ciò sia giusto o meno).

Ammesso tutto ciò, resta sul tavolo la questione fondamentale: è giusto che chi commenta il ciclismo da un microfono o attraverso le colonne di siti e giornali storca il naso di fronte a determinate prestazioni? Determinate e non altre. Spesso lasciandosi guidare, nei giudizi, da simpatie e antipatie, da campanilismo, da sciovinismo, da conoscenze approssimative... è giusto? Non stiamo neanche a sindacare sulla fedina "dopale" pulita di questo o quel commentatore tecnico (e sì che ce ne sarebbe, da dire). Ne facciamo proprio una questione che indaga il senso del racconto di questo sport. Il doping è un paio di occhiali colorati che possono essere indossati per poter dire "tutto il ciclismo è viola come me lo fanno vedere le lenti dei miei occhiali"; solo che concentrandosi sul colore che ci appare, si trascura di guardare quello che accade davanti ai nostri occhi: sarà pure tutto viola, ma la spiegazione di quel che si vede del ciclismo non è esauribile con la tonalità del colore. Oppure si possono togliere questi occhiali, e giudicare quel che comunque avviene, viola o non viola.

Il portato naturale del pesante clima di sospetto che agita certi commenti è che poi sulle strade qualche tifoso si lasci convincere che Froome (è lui al momento il casus) è il male, e che quindi meriti di essere preso a sputi, insulti, bicchierate di urina. È successo ripetutamente, in questa seconda metà di Boucle. Non commettiamo l'errore di abituarci a certe sconcezze, per carità: eventi che non hanno diritto di cittadinanza in questo sport, quanto di peggio possa capitare nel rapporto tra i campioni che tutti amiamo (chi più, chi meno) e il pubblico. Quel bicchiere di pipì non è finito addosso a Froome, ma al ciclismo tutto.

 

Tante storie, tanti protagonisti
Ma il Tour de France ovviamente non si esaurisce con la lotta per la maglia gialla. Sono tante le storie e tanti i protagonisti che si trovano nelle pieghe della corsa. Da André Greipel che sbaraglia il campo dei velocisti lasciando le briciole agli altri (Cavendish però è riuscito a non restare a bocca asciutta) a Peter Sagan che per il secondo anno consecutivo non riesce a vincere una tappa, lui che l'avrebbe meritata più di tanti altri (sempre all'attacco, quando non era al servizio di Contador), ma che porta a casa la quarta maglia verde consecutiva; da uomini che avrebbero potuto far classifica ma hanno dovuto fare i gregari (con tappa vinta: Rafal Majka, Alexis Vuillermoz) ai classicomani che sono riusciti ad essere protagonisti: Cancellara sfortunato in maglia gialla, caduto, fratturato e ritirato (imitato da Tony Martin qualche giorno dopo); Stybar riuscito ad apporre un bel sigillo a Le Havre, Van Avermaet che ha vinto una tappa e poi è fuggito dal Tour per andare ad assistere la moglie partoriente; la sua BMC protagonista nelle crono (con Dennis nell'individuale, tutti insieme - compresi gli italiani Quinziato, Oss e Damiano Caruso - in quella a squadre) ma rimasta sul più bello senza capitano a causa del ritiro di Van Garderen (che ambiva al podio finale e non ne era lontano).

E chi invece non si è ritirato: Jean-Christophe Péraud, che ha finito il Tour tutto fasciato dopo la brutale caduta di Rodez (per la quale è stato pure multato, per traino dall'auto del dottore che lo medicava...), o l'immenso Adam Hansen, 12esimo GT consecutivo portato a termine (al ritmo di 3 all'anno!, eguagliato il record stabilito negli anni '50 da Bernardo Ruiz), nonostante cadute nei primi giorni andate a insistere su una frattura alla clavicola patita pochi giorni prima del via da Utrecht... E ancora, i fuggitivi: Joaquim Rodríguez, respinto dalla generale ma in grado di vincere due frazioni, e poi le vittorie impensabili di Stephen Cummings, Simon Geschke, Rubén Plaza, quest'ultimo - rappresentante della Lampre - firmatario dell'unico successo "italiano" con quello di Nibali a La Toussuire e con la quota tricolore della cronosquadre BMC.

Ecco, l'Italia: al di là dell'affermazione di giornata della Lampre e ovviamente al di là di Nibali, intorno a cui è ruotato tutto il "nostro" Tour, poco altro: molto gregariato (menzioni speciali: Daniele Bennati, prezioso per Contador a inizio Tour, poi caduto e ritiratosi per infortunio; e Michele Scarponi, grande spalla di Nibali sulle Alpi), qualche piazzamento in volata (by Cimolai), pochissime fughe (Trentin è un po' riuscito a farsi vedere), l'assoluta mancanza di un Pozzato (si è visto solo sull'ultimo Gpm del Tour, quello ininfluente della tappa parigina), la batosta di Luca Paolini positivo alla cocaina e tornato di fretta a casa.

Un altro corridore ha dovuto abbandonare la corsa: Ivan Basso, a cui è stato diagnosticato un tumore al testicolo. Operato d'urgenza, il varesino è uscito bene dall'intervento e chissà se potrà tornare a gareggiare; l'importante è che stia bene. Questo Tour, in definitiva, è stato anche un po' suo.

Marco Grassi

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