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Il mio Giro - di Paolo Viberti: Una carezza in un Bugno - La carriera del grande monzese, dagli esordi alla "fuga d'amore"

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Paolo Viberti, classe 1956, 35 anni a Tuttosport, un palmarès visivo ed emotivo di nove Olimpiadi, 28 Giri d'Italia, 8 Tour de France, innumerevoli Mondiali o Europei di ciclismo, basket, sci, fondo, slittino, baseball... Innamorato della bici, ha scalato da solo tutte le vette di Giro e Tour. Ha scritto quattro libri per la Sei: L'Ultimo Avversario, Coppi Segreto, Storia delle Olimpiadi e Storia delle Olimpiadi invernali. Si è visto riconoscere i seguenti attestati: - Premio Coni Ussi 2013 per la "stampa scritta-cronaca e tecnica" - Premio Coni per la saggistica 2012 per il libro "Storia delle Olimpiadi, gli ultimi immortali" - Premio Coni-Primo Nebiolo 2012, Regione Piemonte, quale miglior giornalista - Premio Fisi-Coni, premio Sala Stampa 2004 quale protagonista del giornalismo degli sport invernali. Oggi è freelance, ha adottato un cane da un canile e ha iniziato la seconda parte della sua vita, quella della testimonianza.

 

 

Nel giorno del primo riposo del 98° Giro d'Italia busserò alla porta di quello che considero l'ultimo dei grandissimi del ciclismo italiano, un corridore in grado di imporsi nelle classiche, nei Mondiali e nei grandi Giri; e di vincere sia a cronometro che in montagna o nelle volate di cinquanta corridori: sto parlando di Gianni Bugno, nato nel giorno di San Valentino del 1964 e protagonista di quattordici stagioni da professionista, dal 1985 al 1998, nel corso delle quali conquistò 72 vittorie e tra queste due campionati del mondo su strada nel 1991 a Stoccarda e nel 1992 a Benidorm; nove vittorie di tappa al Giro d'Italia, con maglia rosa dal primo all'ultimo giorno nel 1990; quattro tappe e due podi finali al Tour de France; altre due tappe alla Vuelta di Spagna; e poi una Milano-Sanremo, un Giro delle Fiandre, una Milano-Torino e un Giro dell'Emilia. Tra il 1990 e il 1991 fu inoltre numero uno della classifica mondiale UCI.

Oggi Bugno è il presidente dell'associazione mondiale dei corridori nonché abile elicotterista, mestiere quest'ultimo che spesso lo riporta nell'ambito del ciclismo come pilota del mezzo che garantisce le riprese dall'alto.

Conobbi Gianni nel settembre del 1985 - alla mia quarta stagione nel mondo del pedale - quando passò professionista nell'Atala di Franco Cribiori. E subito mi colpì un'affermazione del valente tecnico lombardo, che considerava Calcaterra e non Bugno il vero talento tra i giovani del team grigioblù. Dovette ricredersi presto, il Cribiori squisito intenditore d'oggetti d'arte...

 

Ho voluto innanzitutto sintetizzare i risultati ottenuti da Gianni per sottolineare l'incredibile competitività del corridore Bugno. Ma ciò che ora mi interessa di più è trasmettere chi sia per me l'uomo Gianni, quel ragazzo timido che se avesse avuto la grinta di Claudio Chiappucci - il suo acerrimo rivale - avrebbe vinto anche un Tour (o due...) e magari un terzo Mondiale, quello di Chambéry 1989.

Timido e umile, Gianni avrebbe dovuto avere al suo fianco qualcuno che credesse maggiormente nelle sue indubbie qualità. Sì, perché il suo tallone d'Achille era l'autostima: come se il monzese si sentisse sempre non all'altezza, inferiore a chi invece in cuor suo lo temeva assai più di quanto lui, Gianni, non fosse consapevole di essere temuto.

 

Gianni Bugno in maglia rosa al Giro d'Italia 1990 © www.granfondonews.it

 

Avrei mille aneddoti da raccontarvi, che coinvolsero me e Gianni nel corso dei suoi quattordici anni di attività professionistica. Ne privilegio soltanto alcuni, per non tediare. Tour del 1991, l'arrivo è quello mitico dell'Alpe d'Huez. Gianni taglia per primo il traguardo e poi viene abbracciato da una mare di tifosi italiani.

Non riesco a parlargli, per me è fondamentale riuscirci perché Tuttosport il giorno dopo sarebbe uscito con due pagine tutte sul monzese, autore di un'autentica impresa sulla montagna di Coppi. Gianni mi fa l'occhiolino, invitandomi a seguirlo: «Ma devi correre, perché ora pedalerò sino all'albergo, anche per svincolarmi dalla ressa dei tifosi!».

Mi affanno, gli sto alle calcagna, non riesce a staccarmi ed entro con lui nell'hotel. Lui sorride e io ansimo. Ed ecco il Bugno a cui ho voluto bene: calmo ma gioviale, concentrato ma spiritoso. Il massaggiatore gli dà un piatto con una poltiglia da mangiare. Gli chiedo che cosa sia e lui risponde serio: «Minestrone! È una novità nell'alimentazione dei ciclisti. Ho vinto per questo». Io sto per credergli, lui capisce e subito si mette a ridere: «Ma dài, è muessli! Mi servono carboidrati digeribili appena dopo lo sforzo».

 

Altro schetch. Quello stesso anno il monzese avrebbe vinto la maglia iridata a Stoccarda e di sera, invece di parlare di bici e di avversari, io e lui ci raccontiamo dei nostri figli, che hanno un solo mese di differenza: il suo Alessio e la mia Rebecca, entrambi venuti al mondo nella tarda primavera del 1990.

Poi, di ritorno in Italia, Gianni viene invitato dalla Pallacanestro Cantù nel corso di una partita dei playoff di basket. Si affida a me, devo fargli da chaperon, lui minuto in quel mondo di giganti: «Tu li conosci, dimmi chi sono!». Per una sera, sono io a fargli da capitano.

Trascorre un anno, siamo nel 1992, e Gianni bissa a Benidorm, è di nuovo Campione del Mondo dopo una stagione di alti e bassi. Un altro sarebbe esploso in cielo, lui chiede scusa a Jalabert per averlo battuto e soprattutto si rammarica nei confronti di Miguelon Indurain (attenzione, colui che lo ha privato in due occasioni di una vittoria al Tour!), «perché in fondo questo era il suo Mondiale nella sua Spagna», mi dice con aria serissima.

Intanto Perini, che lo pilotò al successo, mi confessa due cose: «Gianni è una persona unica, i suoi compagni di squadra nel club mi hanno detto che prima di sera passa nelle stanze a salutarli uno per uno. È un vero leader, anche se in questo Mondiale a un tratto voleva ritirarsi perché sentiva le gambe vuote. Ho dovuto riportarlo davanti quasi a peso, sembrava uno straccio, ma poi si è reinventato campione iridato!». 

 

Dopo il secondo Mondiale, vince tra l'altro anche la Milano-Torino, con arrivo al Valentino, il polmone verde della mia citta. Dopodiché viene a far visita alla redazione di Tuttosport. Beppe Conti mi tira uno scherzo: convince Gianni a ignorarmi, come se non mi conoscesse, fingendo invece di essere un caro amico di Franco Borgogno, che con me e Beppe aveva fatto una sola edizione del Giro. In redazione lo scherzo riesce benissimo, io ci rimango male (Ma come, Gianni...?!), ma poi lui mi abbraccia davanti a tutti, svelando la burla. Grandissimo signore!

 

Utimo aneddoto, il più toccante: il 1993 è un anno buio per Gianni e anche per me. Entrambi i nostri matrimoni sono andati in fumo. Si lotta per mantenere e rinvigorire il rapporto con i nostri figli, Alessio per lui e Rebecca per me. Ci sentiamo più volte e parliamo di cose nostre, di figli e di ex mogli, poi al Giro del 1994 accade un episodio toccante: al termine di una tappa che sarebbe stata seguita da un lungo trasferimento della carovana, Bugno non sale con gli altri corridori sul bus della Polti ma prende l'ammiraglia, si mette alla guida e se ne va con a fianco una donna bellissima, Angelamaria, che è diventata la sua nuova compagna.

Soltanto io assisto alla scena e scrivo ciò che ho visto nel mio servizio giornalistico. Lo faccio senza malizia, ma i risvolti sono deflagranti perché in redazione mi fanno un titolo forzato e a tutta pagina: «BUGNO, FUGA PER AMORE!».

 

Il mattino seguente - come sempre mi è capitato in 35 anni da inviato - compro i giornali ancor prima di colazione, ma quel titolo mi rende indigesto il caffè, mentre pane e marmellata mi sembrano di piombo. Penso tra me e me: «Ora alla partenza Gianni mi farà una scenata. E avrà ragione!».

Esco dall'hotel e con l'ammiraglia di Tuttosport vado al foglio firma. Aspetto Gianni, so di aver sbagliato e sono pronto a subire le sue invettive. Lui arriva, mi guarda da lontano, mi fa un cenno, invitandomi ad andare da lui in un posto più appartato, sul pullman della squadra.

Non ho alcuna paura, ma mi dispiace di aver offeso l'uomo. Gianni mi guarda e con la sua voce da umile filosofo dei dubbi della vita mi dice: «Paolo, tu sei separato come me e anche tu, come me, fatichi a vedere tua figlia. Se Rebecca oggi leggesse un titolo su suo padre che va "in fuga d'amore", che cosa penserebbe?».

Mi misi a piangere, lui capì, io anche. Da quel giorno sono onorato di aver conosciuto e di sentire spesso ancora oggi un grandissimo campione ma soprattutto un uomo che mi gratifica della sua amicizia.

Paolo Viberti

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